La grande strategia Usa

 

 L’imperialismo è una costante nel capitalismo, ma attraversa varie fasi con l’evoluzione del sistema. Attualmente, il mondo sperimenta una nuova era dell’imperialismo, segnata da una “grande strategia” statunitense di dominio globale. Un segnale di come sono cambiate le cose è l’assetto realmente globale dell’apparato militare Usa, con basi permanenti in ogni continente, compresa l’Africa, dove si sta svolgendo una nuova “corsa” per il controllo, innanzitutto, del petrolio.

Nel decennio successivo al crollo dell’Urss nelle élites si è spesso lamentata la mancanza di una grande strategia paragonabile al “contenimento” perseguito dagli Stati uniti negli anni della guerra fredda. La questione centrale, posta nel novembre 2000 dall’analista della sicurezza nazionale Richard Haass, era determinare come gli Stati uniti dovreb­bero utilizzare il proprio attuale “eccesso di potere” per ristrutturare il mondo. La risposta di Haass, che gli ha gua­dagnato l’incarico di direttore della pianificazione politica per il dipartimento di stato di Colin Powell, consisteva nel promuovere una strategia di “America imperiale” mirante ad assicurare il dominio globale Usa per i decenni a venire. Alcuni mesi prima una grande strategia simile, ma ancor più schiettamente militarista, era stata presentata dal Project for the New American Century, ad opera di figure come Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz e Lewis Libby, successivamente ai vertici dell’amministrazione Bush.

 CHE COS’È UNA GRANDE STRATEGIA

Fin dal tempo di Clausewitz la tattica è definita come “l’arte di muovere le truppe in battaglia”, la strategia come “l’arte di usare le battaglie per vincere la guerra”. In aggiunta, l’idea di “grande strategia”, come definita da strateghi e sto­rici militari, si riferisce all’inte­grazione del potenziale bellico di uno stato con i suoi obiettivi politico-economici più ampi. Come ha osservato lo storico Paul Kennedy, “una vera grande strategia riguarda la pace tanto quanto la guer­ra (e forse ancora di più)... per l’evoluzione o l’integrazio­ne di politiche da sviluppare per decenni, o anche per secoli”.

Le grandi strategie hanno un orientamento geopolitico, mirante al dominio di intere regioni, comprese risorse stra­tegiche come giacimenti e vie d’acqua, attività economi­che, popolazioni e siti militari. Le grandi strategie di mag­gior successo del passato sono quelle dei grandi imperi, che sono riusciti a mantenere il loro potere su grandi estensioni geografiche per lunghi periodi di tempo. Per questo gli storici delle grandi strategie studiano di solito l’impero britannico del XIX secolo (Pax britannica) e anche l’antico impero romano (Pax romana).

Oggi, per gli Stati uniti, non si tratta più del mero con­trollo di una parte del pianeta, ma di una Pax americana realmente globale. Alcuni commentatori hanno visto il recente slancio imperiale come l’opera di una cricca di neo-conservatori nell’amministrazione Bush, ma la realtà è un ampio consenso, nella struttura di potere degli Stati uniti, sulla necessità di espandere il proprio impero. Un “imperia­lismo cooperativo”, pur presente tra le opzioni strategiche, diventa più difficile da ottenere quando la potenza egemo­ne comincia a declinare. Non solo gli Stati uniti subiscono una crescente concorrenza economica, ma con il crollo del­l’Unione sovietica il vincolo della Nato si è allentato: non sempre i vassalli europei di Washington seguono la sua guida, anche se non sono in grado di sfidarla direttamente. La tentazione per una potenza egemone in declino, ma pur sempre armata e pericolosa, in queste circostanze è provare a ricostruire o anche espandere il proprio potere agendo unilate­ralmente e monopolizzando il bottino.

 

 GUERRA PER IL “NUOVO SECOLO AMERICANO”

Il capitalismo è un sistema globale nella sua ampiezza economica ma diviso politicamente in stati concorrenti con diversi tassi di sviluppo economico (l’analisi classica della contraddizione dello sviluppo capitalistico ineguale è espressa da Lenin nel suo “Imperialismo, la fase suprema del capitalismo” del 1916). È conoscenza comune che il mondo sta attraversando una trasformazione economica globale: non solo si riduce il tasso di crescita dell’econo­mia globale nell’insieme, ma la forza economica relativa degli Stati uniti continua a diminuire. Nel 1950 gli Stati uniti rappresentavano circa la metà del Pil mondiale, ma nel 2003 erano caduti a poco più di un quinto; analoga­mente, nel 1960 rappresentavano quasi la metà degli inve­stimenti diretti all’estero globali, ridotti a poco più del 20% all’inizio di questo secolo. Secondo proiezioni della Goldman Sachs, nel 2039 la Cina potrebbe superare gli Stati uniti come più grande economia del mondo.

Questa minaccia crescente alla potenza Usa alimenta l’ossessione di Washington per gettare le fondamenta di un “nuovo secolo americano.” L’attuale interventismo mira a sfruttare il primato economico e militare a breve termine per appropriarsi di risorse strategiche che garantiscano una supremazia globale a lungo termine. L’obiettivo è espan­dere direttamente la sfera d’influenza Usa, privando nel contempo i potenziali rivali di risorse strategiche che potrebbero permettere di sfidarla, a livello globale o anche in singole regioni.

 LA NUOVA “ZUFFA PER L’AFRICA”

Se c’è un nuovo “grande gioco” in corso per il control­lo in Asia c’è anche tra le grandi potenze una nuova “zuffa per l’Africa” [l’espressione venne coniata per descrivere i conflitti tra le potenze europee per la spartizione dell’Afri­ca decisa al Congresso di Berlino del 1884, N.d.T.]. La Strategia di sicurezza nazionale degli Stati uniti del 2002 dichiarava che per “combattere il terrore globale” e assicu­rare la sicurezza energetica era necessario aumentare il proprio impegno in Africa, promovendo “coalizioni dei volenterosi” e accordi di sicurezza regionale. Subito dopo il Comando europeo degli Stati uniti, con sede a Stoccarda (competente per le operazioni militari nell’Africa sub­sahariana), ha cominciato ad accrescere le proprie attività in Africa occidentale, concentrandosi sugli stati con rile­vanti produzioni e/o riserve petrolifere, nel Golfo di Gui­nea o nella regione circostante (dalla Costa d’Avorio all’Angola). Ora, il Comando europeo dedica agli affari africani il 70% del proprio tempo, quota che solo nel 2003 era quasi zero.

Come sottolinea Richard Haass, che ora è presidente dei consiglio per gli Affari esteri, nella sua prefazione al rapporto del consiglio del 2005 intitolato Oltre l’umanita­rismo: un approccio strategico degli Stati uniti verso l’A­frica: “per la fine del decennio è probabile che l’Africa sub-sahariana diventerà una fonte di approvvigionamento energetico Usa di importanza pari al Medio Oriente.” L’A­frica occidentale ha circa 60 miliardi di barili di riserve petrolifere accertate: il suo greggio è del tipo “dolce”, a basso contenuto di zolfo, apprezzato dall’economia Usa. Secondo agenzie e think tanks, un nuovo barile su cinque che entreranno nell’economia globale nella seconda metà di questo decennio verrà dal Golfo di Guinea, che aumen­terà la propria quota sulle importazioni Usa dal 15 ad oltre il 20% entro il 2010, e al 25% per il 2015. La Nigeria for­nisce già il 10% del petrolio importato dagli Stati uniti. L’Angola ne fornisce il 4%, che potrebbe raddoppiare entro la fine del decennio. La scoperta di nuove riserve e la crescita dell’attività estrattiva stanno promovendo a grandi esportatori di petrolio altri stati della regione, tra cui Guinea equatoriale, Sào Tomé e Principe, Gabon, Camerun e Ciad. La Mauritania dovrebbe emergere come esportatore di petrolio per il 2007. Il Sudan, che confina ad est con il Mar Rosso e ad ovest con il Ciad, è già un importante produttore.

 LA PENETRAZIONE MILITARE

Attualmente la principale base militare permanente degli Stati uniti in Africa è quella costruita nel 2002 a Gibuti nel Corno d’Africa, che permette il controllo strate­gico della zona di mare attraverso cui passa un quarto della produzione mondiale di petrolio. La base di Gibuti è anche vicina all’oleodotto sudanese (anche l’esercito fran­cese ha da tempo una presenza di primo piano a Gibuti oltre che una base aerea ad Abeche, sul confine sudanese del Ciad). La base di Gibuti permette agli Stati uniti di dominare l’estremità orientale della grande fascia petroli­fera trasversale all’Africa e considerata vitale per i propri interessi strategici: una vasta striscia che corre in direzione sud-ovest dall’oleodotto di 994 miglia Higleig-Port Sudan ad est fino all’oleodotto di 640 miglia Ciad-Camerun e al Golfo di Guinea ad ovest. Una nuova struttura operativa avanzata in Uganda dà agli Stati uniti la possibilità di con­trollare il Sudan meridionale, dove si trova la maggior parte del petrolio di quel paese.

In Africa occidentale il Comando europeo degli Stati Uniti ha ora collocato strutture operative avanzate in Sene­gai, Mali, Ghana e Gabon (oltre che in Namibia, che con­fina a sud con l’Angola), considerando anche il potenzia­mento di aeroporti, il preposizionamento di carburante e forniture essenziali e gli accordi di accesso per il dispiega­mento rapido di truppe Usa. Nel 2003 ha lanciato un pro­gramma antiterrorismo in Africa occidentale e nel marzo 2004 le forze speciali Usa furono coinvolte direttamente in un’operazione militare con alcuni paesi del Sahel contro il Gruppo salafita di predicazione e combattimento (incluso nella lista delle organizzazioni terroriste di Washington). Il Comando europeo sta sviluppando un sistema di sicurezza costiera nel Golfo di Guinea, chiamato Guardia del Golfo di Guinea; ha anche pianificato la costruzione di una base navale a Sào Tomé e Principe, che potrebbe uguagliare la base di Diego Garcia nell’Oceano Indiano. Così il Penta­gono si muove per stabilire una presenza militare nel Golfo di Guinea che potrebbe permettere il controllo della parte occidentale della vasta fascia petrolifera transafrica­na e delle cruciali riserve che lì si stanno scoprendo. L’O­perazione Flintlock, un’esercitazione militare Usa che ha debuttato in Africa occidentale nel 2005, ha coinvolto 1000 unità delle Forze speciali. Quest’estate il Comando europeo ha condotto esercitazioni per le sue forze a reazio­ne rapida per il Golfo di Guinea.

Qui la bandiera segue le attività commerciali: le più grandi aziende petrolifere Usa e occidentali si stanno azzuffando per il petrolio dell’Africa occidentale e chiedo­no sicurezza. Il Comando europeo, secondo il “Wall Street Joumal”, sta anche lavorando insieme alla Camera di com­mercio per espandere il ruolo delle multinazionali Usa in Africa come parte di una “risposta integrata”. In questa zuffa economica per le risorse petrolifere dell’Africa le vecchie potenze coloniali, Gran Bretagna e Francia, sono in competizione con gli Stati uniti, ma sul piano militare lavorano a stretto contatto con gli Usa per assicurare il controllo imperiale occidentale della regione.

 CRISI REGIONALI E...

L’accumulo di risorse militari Usa in Africa viene spes­so giustificato come necessario per combattere il terrorismo e per frenare la crescente instabilità nella regione petrolife­ra sub-sahariana. Dal 2003 il Sudan è lacerato dalla guerra civile e dal conflitto etnico concentrato nella regione sud-occidentale del Darfur (dove giace gran parte del petrolio del paese), con innumerevoli violazioni dei diritti umani e massacri da parte di milizie legate al governo. Tentativi di colpo di stato si sono verificati di recente nei nuovi stati petroliferi di Sao Tomé e Principe (2003) e in Guinea Equatoriale (2004). Anche il Ciad, retto da un regime bru­talmente oppressivo difeso da un apparato di sicurezza e da servizi segreti sostenuti dagli Stati uniti, ha avuto un tenta­to golpe nel 2004. Nel 2005 un colpo di stato è riuscito in Mauritania contro l’uomo forte Ely Ould Mohamed Taya, sostenuto dagli Usa. La trentennale guerra civile dell’Angola (scatenata e sostenuta dagli Usa, che insieme al Suda­frica hanno organizzato l’esercito terrorista Unita di Jonas Savimbi) è durata fino al cessate il fuoco seguito alla morte di Savimbi nel 2002. La Nigeria, potenza egemone regio­nale, trabocca di corruzione, rivolte e furto organizzato di petrolio (fino a 300.000 barili al giorno sottratti nella regione del Delta del Niger). Anche la nascita di una rivolta armata nel Delta del Niger e il potenziale conflitto tra il Nord islamico del paese e il Sud non islamico sono tra le principali preoccupazioni degli Stati uniti.

Da qui nascono gli incessanti appelli, e apparentemen­te non mancano le giustificazioni, per “interventi umani­tari” statunitensi in Africa. Il rapporto Oltre l’umanitari­smo del consiglio per gli Affari esteri insiste che “gli Stati uniti e i loro alleati devono essere pronti alle azioni appropriate” in Darfur, “comprese le sanzioni e, se neces­sario, l’intervento militare, se non riesce a farlo il Consi­glio di sicurezza.”

Intanto, il concetto che l’esercito Usa potrebbe presto dover intervenire in Nigeria circola ampiamente negli ambienti politici. Nell’aprile 2006 il corrispondente Jef­frey Taylor dell’“Atlantic Monthly” ha scritto che la Nigeria è diventato “il più grande stato collassato del mondo” e un’ulteriore destabilizzazione, o la presa del potere da parte di forze islamiche radicali, metterebbe a rischio “le abbondanti riserve petrolifere che l’America si è impegnata a proteggere. Se arrivasse quel giorno, richia­merebbe un intervento militare molto più massiccio della campagna in Iraq”.

 PRESENZA CINESE

Eppure, i responsabili delle grandi strategie degli Stati uniti sono chiari sul fatto che le questioni vere non sono gli stati africani e il benessere delle loro popolazio­ni, ma il petrolio e la crescente presenza cinese in Africa. Come ha scritto il “Wall Street Journal” sotto il titolo L’Africa emerge come un campo di battaglia strategico, “la Cina ha individuato l’Africa come linea del fronte nella sua ricerca di maggiore influenza globale, triplican­do l’interscambio con il continente a circa 37 miliardi di dollari negli ultimi cinque anni e assicurandosi le risorse energetiche, stringendo accordi commerciali con regimi come il Sudan e formando le future élites africane in uni­versità e scuole militari cinesi”. In Oltre l’umanitarismo il consiglio per gli Affari esteri dipinge un quadro analo­go in cui la minaccia principale viene dalla Cina: “La Cina ha alterato il contesto strategico in Africa. Oggi, in tutta l’Africa, la Cina acquisisce il controllo delle risorse naturali, battendo le offerte dei concorrenti occidentali sui grandi progetti infrastrutturali e fornendo finanzia­menti agevolati e altri incentivi per rafforzare il proprio vantaggio competitivo”. La Cina importa più di un quar­to del proprio petrolio dall’Africa, principalmente dall’Angola, dal Sudan e dal Congo, è il principale investi­tore estero in Sudan, ha fornito grandi sussidi alla Nige­ria per accrescere la propria influenza e venduto lì i pro­pri aeroplani da guerra. Ancora più preoccupanti dal punto di vista dei responsabili delle grandi strategie degli Stati Uniti sono i 2 miliardi di dollari prestati a basso interesse dalla Cina all’Angola nel 2004, che le hanno permesso di resistere alle richieste del Fondo monetario internazionale di ristrutturare l’economia e la società secondo linee neoliberiste.

Per il consiglio per gli Affari esteri tutto questo costi­tuisce niente meno che una minaccia al controllo imperialista occidentale sull’Africa. Dato il ruolo della Cina, sostiene il rapporto del Consiglio, “gli Stati uniti e l’Euro­pa non possono più considerare l’Africa come la propria riserva di caccia, come i francesi vedevano una volta l’A­frica francofona. Le regole stanno cambiando, dato che la Cina cerca non solo di guadagnare l’accesso alle risorse, ma anche di controllare la produzione e distribuzione delle risorse, posizionandosi forse per un accesso prioritario man mano che queste risorse diventano più scarse”. Il rap­porto è così centrato sull’idea di combattere la Cina con l’espansione delle operazioni militari Usa nella regione che perfino Chester Crocker, ex vicesegretario di stato per gli Affari africani nell’amministrazione Reagan, lo bolla come “nostalgico di un’era in cui gli Stati uniti o l’Occi­dente era l’unica potenza... e poteva perseguire i propri obiettivi a mano libera”.

Quel che è certo è che l’impero Usa si va estendendo per comprendere parti dell’Africa nella caccia al petrolio. Gli effetti potrebbero essere devastanti per i popoli africa­ni: come la vecchia “zuffa per l’Africa”, anche questa nuova è una lotta tra grandi potenze per le risorse e il bot­tino, non per lo sviluppo dell’Africa o il benessere della sua popolazione.

 UNA GRANDE STRATEGIA DI ESPANSIONE...

Nonostante il contesto strategico in rapida evoluzione, e il passaggio in anni recenti a un imperialismo senza veli, c’è una continuità nella grande strategia imperiale degli Stati uniti: nella struttura di potere c’è un ampio consenso sul fatto che gli Stati uniti dovrebbero puntare alla “supre­mazia globale”, come l’ha definita Zbigniew Brzezinski, ex consigliere per la Sicurezza nazionale del presidente Jimmy Carter.

Il rapporto Oltre l’umanitarismo, che sostiene l’esten­sione all’Africa della grande strategia, è stato curato da Anthony Lake, consigliere per la Sicurezza nazionale di Clinton dal 1993 al 1997, e da Christine Todd Whitman, ex capo dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente sotto Bush. Lake ha avuto un ruolo centrale nella definizione della grande strategia per l’amministrazione Clinton. In un discorso dal titolo Dal contenimento all’allargamento, tenuto presso la Scuola di studi internazionali avanzati della Johns Hopkins University il 21 settembre 2003, ha dichiarato che con il crollo dell’Unione sovietica gli Stati Uniti erano “la potenza dominante del mondo... abbiamo l’apparato militare più forte, l’economia più grande e la società più dinamica, multietnica... abbiamo contenuto una minaccia globale alle democrazie di mercato; ora dovrem­mo cercare di allargare il loro raggio. L’erede di una dot­trina di contenimento deve essere una strategia di allarga­mento”. Ciò significava un’espansione dell’area del capi­talismo mondiale sotto l’ombrello militare-strategico sta­tunitense. L’insistenza di Lake, all’inizio dell’era Clinton, su una grande “strategia di allargamento” per gli Stati uniti si sta realizzando oggi con l’espansione del ruolo militare Usa non solo in Asia centrale e nel Medio Oriente, ma anche in Africa.

 CONTRO LE PERIFERIE DEL MONDO

La grande strategia imperiale degli Stati uniti non è tanto un prodotto di politiche formulate a Washington da questa o quella ala della classe dirigente, quanto un risulta­to inevitabile della posizione di potere in cui il capitalismo Usa si trova all’inizio del XXI secolo.

La forza economica degli Stati uniti (insieme a quella dei suoi più stretti alleati) è in declino costante. Difficil­mente le relazioni economiche tra le grandi potenze rimar­ranno le stesse da qui a vent’anni. Allo stesso tempo, la potenza relativa dell’apparato militare statunitense è cre­sciuta con il crollo dell’Unione sovietica: oggi gli Stati uniti rappresentano circa la metà di tutte le spese militari del mondo, una fetta più che doppia rispetto alla loro quota sulla produzione mondiale.

L’obiettivo della nuova grande strategia imperiale sta­tunitense è utilizzare questa forza militare senza preceden­ti per prevenire la crescita di forze storiche concorrenti, creando una sfera di dominio globale così vasta, ora estesa a ogni continente, che nessun potenziale rivale sarà in grado di sfidare gli Stati uniti per decenni. Questa è una guerra contro i popoli della periferia del mondo capitalista e per l’espansione del capitalismo mondiale, in particolare del capitalismo Usa. Ma è anche una guerra per garantire un “nuovo secolo americano” in cui le nazioni del terzo mondo sono viste come “risorse strategiche” in un più ampio scontro geopolitico globale.

Le lezioni della storia sono chiare: ogni tentativo di ottenere il dominio mondiale con mezzi militari, benché inevitabili nel capitalismo, sono destinati a fallire e pos­sono portare solo a nuove e più ampie guerre. È respon­sabilità di chi è impegnato per la pace nel mondo resiste­re alla nuova grande strategia imperiale mettendo in discussione l’imperialismo e la sua radice economica: il capitalismo stesso.

 

John Bellamy Foster      su “Monthly Review”, giugno 2006