La frontiera dei
diritti
Non era difficile prevederlo. Passato il momento delle consuete solennità di
rito, stavolta più
inodori e insapori del solito, evaporate anche le nuvole grigie delle battute
sedicenti spiritose di chi
non ha saputo nascondere il disappunto, è venuto il momento di scoprire le
carte. E ancora una volta
l'Italia ha parlato con chiarezza e tempestività solo quando ha preso la parola
la Chiesa di Roma.
Che ha parlato a suocera americana ma per farsi intendere direttamente anche
dalla nuora italiana.
L'avvertimento sulle cellule staminali riguarda le prevedibili novità portate da
un presidente degli
Stati Uniti che si è guadagnato la vittoria battendosi anche contro le
bigotterie fondamentaliste della
passata amministrazione. Ma l'occasione era buona anche per un richiamo a uso
interno. Non tanto
ai giudici della Cassazione impegnati a decidere sul caso Englaro, quanto a chi
deve ancora
risolversi a dire fino a che punto la vittoria di Obama ci riguardi. E, se si
può immaginare che i
giudici della Corte di Cassazione italiana si siano formati le loro convinzioni
in modo autonomo e
con largo anticipo senza dover temere i pronunciamenti pubblici degli uomini di
chiesa, la stessa
cosa non ricorre nel caso delle cosiddette forze politiche - cosiddette, perché
nel loro caso la forza
non è l'attributo più evidente. E allora bisognerà tornare sul legame tra le due
sponde dell'Atlantico,
oggi che quelle del Tevere sembrano quasi cancellate.
Quando l'elezione del Presidente americano era ancora da venire appariva già
evidente la radicale
differenza tra il contesto politico italiano e quello statunitense. Al di là
delle parole e degli
schieramenti di facciata, non c'era niente in comune fra la consapevolezza seria
della posta in gioco,
il travaglio collettivo di un popolo davanti alla necessità di reagire a una
crisi profonda con una
scelta altrimenti inaudita, imprevedibile, obbiettivamente rivoluzionaria e
la nostra Italia - un paese
ingessato, prigioniero di una casta inamovibile, dove si risparmia e si taglia
solo sulla scuola e sulla
ricerca e dove leggi e regolamenti punitivi e discriminatori nei confronti degli
immigrati tendono ad
aggravare e non a risolvere la divisione tra il paese legale e il paese reale.
Oggi che quella scelta è avvenuta tocca a noi trarne le conseguenze. Lasciamo
agli uomini della
Chiesa di Roma tutti i diritti legali e tutte le responsabilità morali e civili
di dire e fare quello che
fanno: la libertà di opinione e di parola e i diritti della coscienza
individuale sono conquiste
fondamentali di cui è giusto che godano anche i membri di una istituzione che
nella sua storia
secolare ne ha variamente ostacolato l'affermazione. Gli argomenti che adottano
ricorrono a un uso
strumentale delle conoscenze scientifiche e non mostrano nessuna pietà per gli
esseri umani nella
loro concretezza. Sono parole che preannunziano quel che accadrà quando si
arriverà anche in Italia a definire giuridicamente il diritto individuale a
disporre della propria esistenza. È al paese e alle
sue forze politiche che spetta il dovere di trarre compiutamente tutte le
conseguenze dal mutamento
che è avvenuto. Che è stato grande, profondo, non episodico: ma ha - dal nostro
punto di vista - un
solo grande difetto: non è avvenuto in Italia. Lo abbiamo visto
arrivare, ne abbiamo scrutato i
caratteri, seguito i protagonisti, scommesso sui risultati: ma la nostra
partecipazione è stata a lungo
quasi solo un gioco, come quelle elezioni da burla che sono state recitate in un
piccolo centro
toscano che si chiama "California" e che ha voluto divertirsi a recitare la
parte che spetta
all'omonima regione degli Usa.
Eppure non è più il tempo di giocare: né si può contare sulla distanza che
consentiva ai
rappresentanti del granducato di Toscana di raccontare nei dettagli la
rivoluzione del 1640 e
l'esecuzione capitale di re Carlo I Stuart consapevoli che nessun pericolo del
genere incombeva sui
loro regnanti. Oggi la distanza si misura in modo diverso. E le ragioni della
crisi dell'egemonia
americana come anche la maniera in cui quella egemonia oggi torna a crescere ci
riguardano assai
da vicino. Parliamo di egemonia, che è cosa diversa dalla somma di potere
economico e di forza
militare: è la capacità di dettare l'agenda politica al resto del mondo sul
piano che più conta, quello
dove il velo del presente con le sue contingenze si solleva e lascia intravedere
il futuro per il quale
vale la pena di vivere e di impegnarsi. Oggi il presente del sistema
internazionale, dopo l'11
settembre, la guerra irachena e la voragine finanziaria dei subprime, è scosso
dall'assenza di una
leadership credibile.
Con l'elezione di Obama si è improvvisamente riaperta la frontiera dei
diritti: e il diritto di ogni
essere umano a sentirsi cittadino del mondo ha trovato la sua incarnazione nella
figura di un uomo
che si è fatto avanti fieramente senza che l'esser figlio di un padre africano
gli facesse abbassare lo
sguardo. In lui oggi si riconoscono tutti coloro che hanno bisogno di
sperare in conquiste
liberatorie, che vedano all'opera i figli delle nuove generazioni e nelle quali
sia messa visibilmente a
frutto la cultura impartita nelle scuole del mondo civile per far fare un passo
avanti al resto del mondo.
E dunque sarà bene che anche in Italia le forze politiche
siano avvertite. È in atto nel nostro
paese un vasto movimento giovanile che ha rotto l'incantesimo di una politica
capace di parlare solo di rinunce e sacrifici per chi già ne fa molti. È bene
che lo schieramento incerto e confuso che milita
dietro la parola d'ordine della democrazia si chiarisca le idee. Il
consenso non è una cosa che si
conquista centellinando le parole, mettendo d'accordo sulla carta i
fondamentalismi religiosi e le
libertà civili che sono le conquiste inalienabili del mondo moderno.
Le rivoluzioni sono scomode: pongono problemi anche a chi non le fa. Gli
italiani che ne hanno
fatte ben poche sono abituati a guardarle da lontano, partecipando emotivamente
ma da distanza di
sicurezza, come a uno spettacolo sportivo. Oggi però non deve essere consentito
stare alla finestra
né cullarsi nelle abitudini di quella vecchia sindrome italiana che è riuscita a
trasformare la parola
"decisione" nell'astratto peggiorativo di "decisionismo".
Adriano Prosperi la Repubblica 13 novembre 2008