La fronda della Curia contro Ratzinger

Il Papa dice che «nella Chiesa ci si morde e divora». L'Osservatore romano critica la Curia per il
caso dei Lefebvriani. In Vaticano lo scontro è ormai diventato esplicito. Ecco perché.
Sferzata inedita e dura a chi nel palazzo apostolico non si è attenuto alla linea del riserbo e
dell'obbedienza. Ma l'impaccio e le disfunzioni della macchina curiale vanno al di là della vicenda
lefebvriana.
Benedetto XVI è solo. Ma non perché ci sia un partito che gli rema contro. Bensì per il suo di
governo solitario, che non fa leva sulla consultazione e non presta attenzione ai segnali che vengono
dall'esterno
. Meno che mai quando provengono dal mondo dei media, considerato a priori con
sospetto. «Benché sia stato più di un ventennio in Vaticano al tempo in cui era prefetto della
Congregazione per la Dottrina della fede - spiega off record un monsignore - Ratzinger non conosce
affatto la Curia. Era chiuso ieri nella sua stanza nell'ex Sant'Uffizio ed è chiuso oggi nel suo studio
da papa. Lui è un teologo, non è un uomo di governo. Passa metà della giornata a occuparsi dei
problemi della Chiesa e l'altra metà concentrato sui suoi scritti: sul secondo volume dedicato a
Gesù». Monsignore si ferma e soggiunge: «Non è detto che un grande teologo abbia con precisione
il polso della realtà così come è».
Certo, esiste in Curia un pugno di fedelissimi. Il cardinale Bertone in primis. O il suo successore
alla Congregazione per la Dottrina della fede, Levada. O il nuovo responsabile del dicastero del
Culto divino, lo spagnolo Canizares. Parlano il suo stesso linguaggio i cardinali Grocholewski,
responsabile del dicastero dell'Educazione cattolica, o Rodè, titolare della Congregazione dei
religiosi. E fra i presidenti delle conferenze episcopali è in prima a linea a solidarizzare con il
pontefice il cardinale Bagnasco, che prontamente ieri ha espresso «gratitudine» per le
chiarificazioni del Papa. Ma la fedeltà non basta. «Ciò che si avverte - spiega un altro frequentatore
dei sacri palazzi - è l'assenza di una guida lineare della macchina curiale». Macchina complessa, che
va condotta con mano ferma dal Papa, dai suoi segretari di Stato e qualche volta da alcuni segretari
particolari molto attivi dietro le quinte: come Capovilla per Giovanni XXIII, Macchi per Paolo VI,
Dziwisz per Giovanni Paolo II.
Mons. Gaenswein, ed è un suo pregio caratteriale, non ama giocare a fare il braccio destro (occulto)
del Papa. Ma contemporaneamente pesa il fatto che larga parte della macchina curiale non
riconosce il Segretario di Stato Bertone come «uno dei suoi». Bertone non viene dalla diplomazia
pontificia. Non ha fatto la trafila dei monsignori che hanno cominciato da minutanti in un ufficio
della Curia e poi sono saliti crescendo nella rete di contatti, passando magari attraverso l'esperienza
di un paio di nunziature all'estero. Bertone è un outsider. Scelto da Ratzinger perché suo primo
collaboratore al Sant'Uffizio e perché di provata sintonia e fedeltà. Ma alla fin fine il mondo curiale
non si sente sulla stessa lunghezza d'onda con il «salesiano».
Non è una posizione facile la sua. Da un lato finisce per essere in qualche modo separato dalla
macchina curiale, dall'altro non può influire sulla direzione di marcia che di volta in volta Benedetto
XVI intraprende. Abile nel controllare e riparare i danni, quando si verificano, il Segretario di Stato
può tuttavia intervenire soltanto dopo. Perché in ultima analisi Ratzinger si esercita in uno stile di
monarca solitario. Nella lettera ai vescovi il Papa riconosce che portata e limiti del suo decreto sui
vescovi lefebvriani non siano stati «illustrati in modo sufficientemente chiaro» al momento della
pubblicazione. Adesso finalmente la commissione Ecclesia Dei, guidata dal cardinale Castrillon
Hoyos (fino a ieri titolare esclusivo dei negoziati con la Fraternità Pio X), verrà inquadrata nel
lavoro della Congregazione per la Dottrina della fede e in tal modo - garantisce il Papa - nelle
decisioni da prendere sulle trattative con i lefebvriani verranno coinvolti i cardinali capi-dicastero
vaticani e i rappresentanti dell'episcopato mondiale partecipanti alle riunioni plenarie dell'ex
Sant'Uffizio.
Il rimedio adottato ora rappresenta la confessione che Benedetto XVI nella vicenda non ha
coinvolto nessuno, non ha informato nessuno e ha lasciato mano libera al cardinale Castrillon
Hoyos, che non lo ha nemmeno informato esaurientemente sui trascorsi negazionisti di Williams,
noti da più di un anno per la loro impudenza. I filo-lefebvriani di Curia in questa partita hanno
giocato spregiudicatamente la carta delle indiscrezioni per dare per scontato un riavvicinamento
ancora tutto da costruire. «Papa Ratzinger - confida un vescovo che ben conosce il sacro palazzo - è
stato in fondo generoso nell'assumersi ogni responsabilità senza dare la colpa a nessun
collaboratore. Ma nel suo modo di governare c'è un problema: parte sempre dall'assunto che quando
è stabilita la verità di una linea, allora si deve andare avanti e basta. Non mette in conto le
conseguenze esterne del suo ruolino di marcia e nella sua psicologia non crede nemmeno che gli
uomini di Curia siano all'altezza di dargli veri consigli».
Non è casuale allora che siano stati i grandi episcopati d'Europa e del Canada a ribellarsi all'idea che
con l'improvvisa mano tesa ai lefebvriani apparisse annacquata l'indispensabile fedeltà della Chiesa
contemporanea ai principi del Vaticano II. Persino un intimo di Ratzinger come il cardinale di
Vienna Schoenborn è stato costretto a denunciare le «insufficienti procedure di comunicazione nel
Vaticano». Un modo elegante per evitare di criticare direttamente il Papa. Ma proprio in Austria si è
giocato un altro evento senza precedenti nella storia dei pontificati moderni. Un vescovo ausiliare
scelto dal pontefice è stato respinto dall'episcopato intero di una nazione, costringendo Benedetto
XVI a un'ennesima marcia indietro.
Questo gli uomini di Curia non l'avevano mai visto.

Marco Politi     la Repubblica 13 marzo 2009

 

 

Bertone: "Il Papa non è solo" ma ora scoppia il caso Brasile

«Il Papa non è solo». Di prima mattina il cardinale Segretario di Stato Bertone lancia la parola
d'ordine e nel corso della giornata arriva l'ondata delle manifestazioni di solidarietà. Cento vescovi
partecipanti a un convegno sulla comunicazione ecclesiale, che si svolge a Roma, scrivono una
lettera a Ratzinger per manifestargli «vicinanza, fiducia e fedeltà». Giovedì sera si erano già fatti
vivi il cardinal Vicario della diocesi romana Vallini e la presidenza della Cei. Ieri si sono susseguite
le attestazioni solidali dei vescovi francesi, belgi, tedeschi, austriaci, svizzeri e inglesi. Ma certe
puntualizzazioni rivelano che c'è tensione nel rapporto tra papato ed episcopati del mondo.
Il malessere esplode a sorpresa con nuovi colpi di scena in Brasile e in Francia. Il portavoce della
conferenza episcopale brasiliana ha sconfessato il vescovo di Recife, mons. Sobrinho, che aveva
scomunicato la madre di una bimba stuprata e poi fatta abortire. Un conflitto tra vescovi mai visto.
Dimas Laras Barbosa, portavoce dell'episcopato del Brasile, ha dichiarato che la madre non può
essere colpita dalla scomunica in quanto ha agito «sotto pressione» e con l'intento di salvare la vita
alla figlia. Contemporaneamente dalla Francia si sono levate pubblicamente voci di vescovi contro
il vescovo scomunicatore di Recife e anche contro il cardinale Re, prefetto della Congregazione
vaticana per i Vescovi, che lo aveva sostenuto. Parecchi presuli francesi hanno lamentato la severità
e la «brutalità inaccettabile della scomunica». Più indignato di tutti, il vescovo di Nanterre mons.
Daucourt ha scritto al vescovo di Recife e al cardinale Re: «Io so che in questa tragedia avete
aggiunto del dolore al dolore, avete provocato della sofferenza e dello scandalo presso molte
persone in tutto il mondo». I vescovi, sottolinea Daucourt, devono anzitutto «manifestare la bontà di
Gesù Cristo il solo vero Buon Pastore».
In un clima così eccitato il Segretario di Stato Bertone chiama a fare quadrato intorno a Benedetto
XVI. I collaboratori di Curia, ha affermato, «sono lealmente fedeli al pontefice e profondamente
uniti a lui a partire dai capi di dicastero e dal segretario di Stato». Bertone ha lodato la «comunione
di tanti vescovi del mondo», criticando poi «qualche voce stonata, forse dovuta proprio a mancanza
di fiducia nel Papa e nelle decisioni che compie». Ma le voci fuori dal coro sono di episcopati e ieri
dalle conferenze episcopali europee negli attestati di fedeltà al papa si sono udite anche precisazioni
che pesano. In Germania mons. Zoellitsch ha specificato che la lettera del pontefice segnala che il
«Papa desidera entrare in colloquio con i vescovi». In Francia mons. Vingt-Trois rimarca che tra
pontefice e vescovi è giusto vi siano «scambi sostanziali e ricchi». In Austria i vescovi rammentano
che oltre al dolore del Papa vi è quello «provato da molte Chiese locali e da persone al di fuori della
Chiesa». In Svizzera mons. Grampa elogia lo stile di «umiltà e fraternità del Santo Padre»,
chiedendo che lo stesso stile «possa entrare nel governo ordinario della Chiesa».
Nota sconsolato il cardinale Ruini, dalle pagine dell'Osservatore Romano, che si è indebolito il
senso di appartenenza ecclesiale e che nella vicenda si è rivelato il «gusto amaro di cogliere in fallo
l'avversario». E ancor più: «In molte parole, gesti o silenzi» intorno al pontefice è affiorata
un'ostilità interna alla Chiesa.

Marco Politi    la Repubblica 14 marzo 2009

 

 

Lacerazione

L'evento è raro: un papa prende la penna per “fornire chiarimenti” a tutti i vescovi su una decisione
romana. È vero che la Chiesa cattolica non attraversa tutti i giorni una crisi come quella provocata
dalla revoca della scomunica dei quattro vescovi integralisti, il 21 gennaio. Fedeli, preti e perfino
cardinali, temendo di perdere il Vaticano II, hanno criticato sia questa decisione che la maniera
deplorevole in cui è stata presa. La lettera scritta martedì da Benedetto XVI vuole calmare i timori
da una parte e dall'altra: sì, gli integralisti devono poter ritrovare posto nella Chiesa; no, questo
ritorno non può essere fatto a detrimento del Concilio. E certamente, il negazionismo di monsignor
Williamson è ingiustificabile. Bisogna dare atto a Roma di questa chiara volontà.
Fatto ancora più raro: il papa non teme di confidare ai suoi fratelli nell'episcopato il turbamento
provocato in lui da questa crisi. Non solo Benedetto XVI soffre nel vedersi incompreso, ma dice di
sentirsi ferito per essere stato il bersaglio di affermazioni astiose da parte di cattolici. Quando un
pastore si sente trasformato in capro espiatorio, si capisce che insorga contro quei processi che
incancreniscono le nostra società. Ma simili dichiarazioni rischiano di rendere fragile l'autorità di
tale parola: mai vescovo di Roma aveva parlato così aspramente della corrente lefebvriana. Quanto
all'immensa folla che forma la “grande Chiesa”, molti al suo interno si aspettavano una risposta
paterna che, pur non esaudendo tutti i loro desideri, almeno li ascoltasse; resteranno delusi. La
sensazione dei due gruppi è che né all'uno né all'altro venga data ragione. La situazione è chiarita,
ma il problema lungi dall'essere risolto.
Bisogna tuttavia chiedersi se la “crisi integralista” non sia il sintomo di una crisi più grande nella –
e forse della – Chiesa. Fare questa ipotesi non vuol dire presentare la situazione sotto una luce
eccessivamente nera; significa chiedersi se le cause di questo dramma (che deve trovare una
soluzione, nel senso della riconciliazione piuttosto che dell'esclusione) non siano da ricondurre in
buona parte al disagio crescente di un sistema cattolico, la cui logica e il cui discorso sono sempre
meno comprensibili alla cultura occidentale. Essendo i membri della Chiesa tributari dell'uno e
dell'altra, non stupisce che si sentano sempre più dolorosamente lacerati – come il pietoso caso di
Recife giunge inutilmente a confermarlo.

Michel Kubler         in  La Croix 13 marzo 2009

 

 

Ratzinger si sente sotto accusa ma rivendica di aver fatto bene

«Un documento davvero inconsueto». La definizione è del direttore della Sala stampa vaticana
Federico Lombardi. Il soggetto è la lettera di Benedetto XVI a tutti i vescovi "riguardo alla
remissione della scomunica dei quattro vescovi consacrati da Lefebvre", già ampiamente anticipata
da organi di stampa (anche Liberazione ne ha scritto ieri) ma diffusa ufficialmente soltanto ieri.
A leggerle nella loro interezza, queste sette pagine scritte di pugno da papa Ratzinger, segnate da
frequenti domande retoriche, sono davvero un documento inusuale. Non capita spesso di leggere un
testo in cui un papa spiega in prima persona le motivazioni di una propria scelta e fa trasparire con
tanta chiarezza la visione del mondo ad essa sottesa. Quasi un testamento, verrebbe da dire, vergato
prima del tempo; di certo il testo-chiave per capire la decisione che, in un modo o nell'altro, definirà
negli anni a venire il pontificato di Ratzinger. Tanto più per il fatto che contemporaneamente
l'Osservatore denuncia senza mezzi termini «le cosiddette fughe di notizie, che si fatica a non
definire miserande, anche all'interno della Curia romana».
Nelle anticipazioni dei giorni scorsi i dati salienti c'erano tutti: l'ammissione degli errori della Curia,
rimasta colpevolmente all'oscuro - forse anche per la poca dimestichezza con quella "fonte di
notizie" rappresentata da internet - delle posizioni negazioniste del vescovo Williamson, e incapace
di «illustrare in modo sufficientemente chiaro» "la portata e i limiti" del provvedimento; lo stupore,
quasi incredulo, per la "ostilità" e la "veemenza" delle critiche di cattolici e vescovi di mezzo
mondo; la decisione di portare la Commissione "Ecclesia Dei", che ha fin qui condotto con
spericolata autonomia le trattative con i lefebvriani, sotto il controllo della Congregazione per la
Dottrina della Fede - ovvero, in pratica, di Ratzinger stesso, che segue ancora molto da vicino
l'operato dell'ex-Sant'Uffizio; l'importanza del tentativo di riportare nel seno della Chiesa cattolica i
quasi 500 preti lefebvriani, malgrado la "superbia" e la "saccenteria" della Fraternità San Pio X. Ma,
in realtà, nella lettera c'è molto altro: più della metà del testo è dedicata a rispondere ad una
domanda, volendo, molto più radicale di quelle sulle tesi negazioniste di Williamson: ce n'era
veramente bisogno? La revoca della scomunica «costituiva veramente una priorità? Non ci sono
cose molto più importanti?». La risposta - naturalmente - è no, e i toni scelti dal pontefice sono
quasi apocalittici: «In questo nostro momento della storia», «Dio sparisce dall'orizzonte degli
uomini» e «in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non
trova più nutrimento». Le conseguenze della critica, ben nota, di papa Ratzinger al nichilismo e al
relativismo contemporaneo sono tratteggiate con colori ancora più foschi del solito: «A volte si ha
l'impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna
tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa
avvicinarglisi - in questo caso il papa - perde anche lui il diritto alla tolleranza e può essere trattato
con odio senza timore e riserbo».
Il capro espiatorio del nostro tempo sarebbero proprio i lefebvriani ed è per questo che, malgrado le
difficoltà interne ed esterne, è così importante per la chiesa di Ratzinger segnare il punto di questa
"riconciliazione", pur "piccola". In questo momento tanto cupo, scrive il pontefice ai vescovi,
«dobbiamo avere a cuore l'unità dei credenti. La loro discordia, infatti, la loro contrapposizione
interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio». Guai a rompere le righe: la Chiesa che
dubita e, timidamente, critica le decisione del pontefice, come avvenuto in Francia, Svizzera,
Germania, Inghilterra, viene paragonata senza misericordia ai Galati che si «mordono e divorano a
vicenda», la comunità allo sbando a cui San Paolo scrive la sua lettera più aspra.
Non a caso, i
lefebvriani hanno prontamente risposto ringraziando Benedetto XVI per aver tolto di mezzo
l'imbarazzante caso Williamson e «riportato il dibattito al livello al quale deve svolgersi, quello
della fede». La partita adesso - come chiarito dallo stesso Ratzinger - si sposta sul piano dottrinale,
dove invece dell'accettazione preliminare del Concilio, ai tradizionalisti sarà chiesto di non volere
"congelare" al 1962 (anno di apertura del Vaticano II) il magistero della Chiesa, il tutto «alla luce
della questa Tradizione, senza rottura e all'interno di uno sviluppo perfettamente omogeneo».

Alessandro Speciale    Liberazione 13 marzo 2009