La fine dell'Impero, gli Stati uniti affrontano il trauma
Malgrado l'opposizione di buona parte della sua opinione pubblica, il presidente George W. Bush ha annunciato il proseguimento dell'impegno militare in Iraq. E, malgrado le difficoltà crescenti sul terreno, o a causa di esse, gli Stati uniti potrebbero essere tentati dalla fuga in avanti e da un innalzamento della tensione contro l'Iran. Eppure, l'impantanarsi del loro esercito conferma i limiti della loro potenza. Mentre alcuni arrivano a evocare un declino con soprassalti simili a quelli della fine dell'Impero britannico.
Un disastro! Nei circoli del potere americano, le conseguenze dell'invasione e dell'occupazione dell'Iraq hanno provocato una crisi ancora più profonda di quella che aveva portato alla sconfitta in Vietnam trent'anni fa. Per colmo d'ironia, questa crisi investe la coalizione di ultranazionalisti e di neoconservatori che si è formata negli anni '70 specificamente per tentare di farla finita con la «sindrome del Vietnam», restaurare la potenza americana e far rivivere la «volontà di vittoria» degli Stati uniti.
Se non si è assistito a una costante protesta di massa, come durante la guerra
del Vietnam, è forse per l'esistenza di un esercito composto da volontari
provenienti essenzialmente dagli strati meno favoriti; e anche perchÈ questa
guerra è finanziata bene o male dai capitali stranieri (per quanto tempo
ancora?). Ma la crisi ha provocato una frattura nell'establishment della
«sicurezza nazionale» che dirige il paese dopo la seconda guerra mondiale.
Il disaccordo pubblicamente espresso da una mezza dozzina di generali in
pensione sull'andamento della guerra
(1),
un fatto senza precedenti, è ventuno ad aggiungersi all'espressione ricorrente
di un disaccordo in seno alle agenzie di informazione e del dipartimento di
stato dal 2003. Ciò denota una tendenza più pesante che tocca importanti settori
dell'elite e le principali istituzioni dello stato. Tutti i detrattori della
guerra non sono così diretti come il generale in pensione William Odom, che
ripete istancabilmente che l'invasione dell'Iraq rappresenta «il disastro
strategico più grave della storia degli Stati uniti
(2)»;
o come il colonnello Laurence Wilkerson, ex capo di stato maggiore di Colin
Powell, quando denuncia un «errore di dimensione storica» e chiede la
destituzione del capo dello stato
(3);
o ancora come l'ex direttore del Consiglio nazionale di sicurezza, Zbigniew
Brzezinski, che ha definito la guerra in Iraq e l'occupazione del paese «una
calamità storica, strategica e morale
(4)».
Per la maggior parte, le critiche elitarie che vengono sollevate pubblicamente
non vanno molto lontano; vertono generalmente sulla maniera in cui la guerra e
l'occupazione sono state gestite, piuttosto che sulla questione dell'invasione
stessa. Cionondimeno il disaccordo è profondo ed esteso: differenti ministeri si
rigettano la colpa e si accusano vicendevolmente di essere responsabili della
«perdita dell'Iraq
(5)».
In privato, alcuni ex alti responsabili si lasciano prendere da un'ira sorda,
denunciano oscuri «complotti» e insultano la Casa bianca. Senza la minima
ironia, un ex ufficiale del Consiglio nazionale di sicurezza paragona i suoi
occupanti attuali alla «famiglia Corleone», immortalata nel film Il Padrino. «A
causa di una cricca incompetente, arrogante e corrotta - dice un altro alto
grado - noi stiamo perdendo la nostra posizione dominante in Medioriente»; un
senatore repubblicano, veterano del Vietnam, afferma: «La Casa bianca ha
distrutto l'esercito di terra e schernito il suo onore».
L'egemonia si sfalda in fretta. Nessuno di questi detrattori istituzionali
potrebbe essere considerato una «colomba». Quali che siano le loro affiliazioni
politiche o le loro opinioni personali, questi contestatori sono stati o sono
ancora dei guardiani del potere, degli agenti dello «stato di sicurezza
nazionale» e sono stati a volte attori degli interventi imperiali, aperti o
coperti, condotti nel «terzo mondo» durante e dopo la guerra fredda. Sono stati
o sono ancora «gli amministratori del sistema» dell'apparato burocratico di
«sicurezza nazionale» che il sociologo C. Wright Mills ha analizzato per primo
dettagliatamente, e che ha la funzione di produrre e riprodurre il potere.
Di conseguenza, in quanto gruppo sociale, è impossibile distinguere questi
«realisti» da quelli che essi criticano per quanto riguarda la loro volontà di
impiegare la forza o per l'implacabilità di cui hanno dato prova storicamente
nel perseguire gli obiettivi dello stato. Così come non si può attribuire la
causa della loro disaffezione a convinzioni divergenti in materia di etica, di
norme e di valori (benchè tali differenze possano motivare certi individui).
Il disaccordo proviene dalla constatazione fredda, razionale, che la guerra in Iraq ha quasi «distrutto l'esercito americano (6)» e compromesso gravemente, cioè in modo irreparabile, «la legittimità mondiale dell'America (7)», cioè la sua capacità di modellare le preferenze mondiali e di definire l'agenda del pianeta. Nelle sue espressioni più sofisticate, come per Brzezinski, questo disaccordo traduce la consapevolezza che la potenza non si riduce al potere di coercizione e che, una volta persa, la legittimità egemonica è difficile da ristabilire.
I segni di indebolimento dell'egemonia americana sono visibili
dappertutto: in America Latina, dove l'influenza degli Stati uniti è al
livello più basso da decenni; in Asia dell'Est, dove Washington ha
dovuto, controvoglia, negoziare con la Corea del Nord (si legga l'articolo a
pagina 16) e riconoscere nella Cina un attore indispensabile alla sicurezza
regionale; in Europa, dove il progetto americano di installare batterie
antimissili è contestato dalla Germania e da altri paesi dell'Unione; nel Golfo,
dove gli alleati di lunga data come l'Arabia saudita perseguono obiettivi
regionali autonomi che coincidono solo parzialmente con quelli degli Stati
uniti; in seno alle istituzioni internazionali, che si tratti
dell'Organizzazione delle Nazioni unite o della Banca mondiale, la cui
presidenza l'americano Paul Wolfowitz, invischiato in un affare di nepotismo, ha
dovuto lasciare il 30 giugno, di cui Washington non è più in grado di
determinare l'ordine del giorno.
Nello stesso tempo, dai sondaggi di opinione a livello internazionale
condotti regolamente dal Pew Research Center di Washington
(8),
emerge una sistematica cautela riguardo alla politica estera americana a
livello quasi planetario e uno sgretolamento del soft power,
dell'attrazione che esercitano gli Stati uniti nel mondo: il «sogno americano» è
sommerso dall'immagine di un Leviatano militare che ha solo disprezzo per
l'opinione internazionale e che viola le regole istituite proprio dagli Stati
uniti
(9).
L'opinione mondiale non ferma senz'altro le guerre, ma pesa con mezzi più
sottili sulle relazioni internazionali.
Sarebbe forse possibile limitare in parte quei danni sotto il comando di altri
dirigenti e in circostanze interamente nuove. Tuttavia è difficile immaginare a
breve termine come poter ricreare un consenso interno: ci sono voluti anni per
ricostruire l'esercito, duramente provato dopo la guerra in Vietnam, ripensare
le dottrine e definire un nuovo consenso elitario, se non popolare, sull'uso
della forza.
Dopo l'Iraq, non sarà facile mobilitare il sentimento nazionalista per sostenere
avventure esterne. Così come è impossibile immaginare un ritorno della politica
mondiale alla situazione di prima.
L'invasione e l'occupazione dell'Iraq non sono le uniche cause che spiegano le
tendenze mondiali evocate prima. La guerra non ha fatto che accentuarle in un
momento in cui forze centrifughe più vaste erano già all'opera: lo sfaldamento e
poi il crollo del «consenso di Washington» e l'aumentata potenza dei nuovi
centri di gravitazione economica, segnatamente in Asia, erano già delle realtà
quando George W. Bush ha preso la catastrofica decisione di invadere l'Iraq. In
breve, la storia avanza mentre gli Stati uniti si ritrovano impantanati in un
conflitto che assorbe tutte le energie del paese.
Per i circoli del potere, questo quadro è davvero allarmante. Dalla metà del
XX secolo, i dirigenti americani hanno ritenuto di avere la singolare
responsabilità storica di dirigere e governare il sistema internazionale.
Sedendo in cima al mondo dagli anni '40, sono partiti dal principio che
seguendo l'esempio della Gran Bretagna nel XIX secolo, gli Stati Uniti erano
destinati ad agire in quanto hegemon, stato dominante che possiede i mezzi
per stabilire e mantenere l'ordine internazionale, così come quelli per
assicurare la pace e una economia mondiale liberista aperta e prospera. Nella
loro lettura selettiva della storia, è stata l'incapacità della Gran Bretagna a
giocare un ruolo duraturo e la reticenza simultanea degli Stati Uniti ad
assumersene la responsabilità (l'«isolazionismo») a rimettere in moto il
meccanismo guerra mondiale- depressione- guerra mondiale durante la prima metà
del XX secolo.
Questa idea profondamente radicata nelle menti porta a un argomento
tautologico: poiché l'ordine richiede un centro dominante, mantenere l'ordine (o
evitare il caos) richiede di perpetuare l'egemonia. Questo sistema di
credenze, che i ricercatori americani hanno definito negli anni '70 come la
«teoria della stabilità egemonica», sta alla base della politica estera
americana da quando il paese è emerso dalla seconda guerra mondiale come il
cuore occidentale del sistema mondiale.
Le elite economiche e politiche americane intravvedevano dal 1940 una «vasta
rivoluzione nell'equilibrio dei poteri»: Washington «sarebbe diventato erede,
depositario universale e amministratore degli averi economici e politici
dell'Impero britannico (...), lo scettro (sarebbe passato) nelle mani degli
Stati uniti
(10)».
Un anno dopo, l'editore Henry R. Luce annunciava l'arrivo del famoso «secolo
americano»: «Il primo secolo in cui l'America sarebbe stata una potenza
dominante nel mondo», secondo Luce, significava che il popolo americano avrebbe
dovuto «accettare senza riserve (il suo) dovere e (il suo) avvenire di nazione
più potente e più vitale (...) ed esercitare sul mondo tutta (la sua) influenza
con i mezzi che (gli) sarebbero sembrati appropriati
(11)».
A metà degli anni '40, i contorni del «secolo americano» si disegnavano già
chiaramente: predominio economico raddoppiato da una supremazia
strategica che poggiava su una rete di basi militari a livello planetario,
che si stendevano dall'Artico al Capo e dall'Atlantico al Pacifico.
Presiedendo alla costruzione dello «stato di sicurezza nazionale», i dirigenti
del dopoguerra erano abitati, per riprendere l'espressione dello storico William
Appleman Williams, da «visioni d'onnipotenza
(12)»:
gli Stati uniti beneficiarono di enormi vantaggi economici, di un'avanzata
tecnologica considerevole e detennero per breve tempo il monopolio atomico.
L'impasse coreana (1953) e i programmi sovietici di armi e di missili nucleari
incrinarono, certo la fiducia degli americani; ma furono la disfatta in Vietnam
e le rivolte sociali che accompagnarono la guerra sul piano interno a rivelare i
limiti della potenza.
Il «realismo in un'era di declino» predicato da Richard Nixon e Henry Kissinger
non era che un modo di ammettere a malincuore che il tipo di egemonia globale
esercitata da più di vent'anni non poteva durare eternamente. Ma il Vietnam e
l'era Nixon marcarono una svolta più paradossale. Prepararono la reazione
degli anni '80: la «rivoluzione conservatrice» e i suoi sforzi concertati per
ristabilire e rinnovare lo «stato di sicurezza nazionale» e la potenza
mondiale americana.
Quando l'Unione sovietica crollò qualche anno dopo, le illusioni di onnipotenza
riapparvero. I «trionfalisti » conservatori hanno di nuovo sognato una
«supremazia» internazionale a lungo termine.
L'Iraq è stato un test strategico destinato a inaugurare il «secondo secolo
americano». L'esperimento è andato in frantumi, come la politica estera
americana.
L'esempio della Gran Bretagna Le analogie storiche non sono mai perfette, ma
l'esempio della Gran Bretagna e della sua lunga uscita dall'Impero può gettare
una luce utile sul momento storico attuale. Al crepuscolo del XIX secolo,
rari erano i dirigenti britannici che potevano immaginare la fine dell'Impero.
Quando il Giubileo di diamante della regina Vittoria fu celebrato nel 1897, la
Gran Bretagna era alla testa di un impero transoceanico che inglobava un quarto
dei territori del mondo e 300 milioni di subalterni, il doppio se si includono
in questo insieme la Cina, colonia virtuale di 430 milioni di abitanti. La City
di Londra era il centro di un impero commerciale e finanziario ancora più vasto,
la cui tela serrava il mondo intero. Non c'è dunque da stupirsi che una parte
importante dell'elite britannica abbia pensato, malgrado le apprensioni che
suscitavano la concorrenza manifatturiera americana e quella tedesca, che la
Gran Bretagna avesse ricevuto «come regalo dall'Onnipotente l'universo intero in
affitto e per l'eternità».
Il giubileo doveva essere «l'ultimo raggio di sole di una fiducia senza fallo
nell'attitudine dei britannici a dirigere
(13)».
La seconda guerra dei Boeri (1899-1902) (14), ingaggiata in Africa del sud per preservare la via delle Indie e rinforzare «l'anello più debole della catena imperiale», fu un enorme spreco umano e finanziario. Rivelò inoltre le atrocità della politica della terra bruciata a un'opinione pubblica inglese sempre meno docile. «La guerra sudafricana fu, per la potenza imperiale britannica, la prova più importante dopo l'ammutinamento indiano, e la guerra più vasta e più costosa condotta dalla Gran Bretagna tra la sconfitta di Napoleone e la prima guerra mondiale (15)».
Dopo solo dodici anni, scoppiò la prima guerra mondiale, portando con sè il
fallimento dei suoi protagonisti europei. La lunga agonia dell'era britannica
era cominciata. Tuttavia, non soltanto l'Impero sopravvisse alla crisi
immediata, ma durò ancora decenni, superando lo scoglio della seconda guerra
mondiale, prima di conoscere una fine senza gloria a Suez nel 1956... con
l'aiuto degli americani.
Tuttavia, un secolo più tardi, la
nostalgia di grandezza persiste, come si è visto dalle disavventure
mesopotamiche del primo ministro Anthony Blair. Gli ultimi bagliori dell'Impero
non si sono ancora spenti.
Ai circoli del potere americano, sembra naturale sedere in cima al mondo da più
di mezzo secolo. L'egemonia, come l'aria che si respira, è diventata un modo di
essere, un modo di vivere, uno stato d'animo.
I critici istituzionali «realisti» sono certo più avvertiti di quelli che
prendono di mira. Ma non dispongono di un quadro concettuale per fondare le
relazioni internazionali su qualcosa di diverso dalla forza, dallo scontro o dal
predominio strategico.
La crisi attuale e l'impatto sempre più grande delle questioni mondiali,
insolubili a livello nazionale, genereranno forse nuovi impulsi in materia di
cooperazione e di interdipendenza. Bisogna in tutti i casi sperarlo. Ma può
darsi anche che la politica americana resti imprevedibile: come mostrano tutte
le esperienze postcoloniali, la fine dell'Impero rischia di essere un
processo lungo e traumatico.
PHILIP S. GOLUB Le Monde diplomatique, ott.07