La dittatura del
reality
Per concludere. Il divorzio non c’entra niente, o poco. La minorenne con
l’autista è l’ultima goccia.
Le inverosimili ricostruzioni che gli avvocati del premier sono incaricati di
ammannire in tv (la
ragazza cantava a domicilio ma sempre in presenza di papà, Berlusconi è amico
degli umili per
questo i messi comunali lo chiamano sul cellulare) un patetico ennesimo
tentativo di sviare
l’attenzione da un colossale problema pubblico e niente affatto privato che
riguarda ciascuno. In
Italia la politica agonizza. Non è successo all’improvviso. Sono vent’anni che
scivoliamo lungo
questo pendio. Dai luccicanti anni Ottanta, quelli di Colpo Grosso e di
Milano da bere. Al principio
fu la costruzione dell’impero. La rete dei venditori. Dell’Utri. Poi il
reclutamento dei parlamentari.
Dentro tutti gli avvocati (in una percentuale, in Parlamento, tuttora di
quattrocento volte più alta che
in natura) gli amici d’infanzia e d’impresa. Poi le donne, all’inizio poche e
chiamate dalle
professioni: la giovane imprenditrice, la magistrata devota. Nel frattempo
le leggi opportune. La
sciagurata legge elettorale, da ultimo. Quella che fa dei parlamentari dei
dipendenti del capo. Grati,
dunque, per principio e per sempre. La dittatura dei reality tv,
intanto. I tronisti, le isole, i famosi. E
la risacca della crisi economia, insieme. Non c’è lavoro. Se c’è è
flessibile, dunque sotto ricatto.
Eserciti di giovani cresciuti senza futuro che non sia quello di avere qualcuno
che li raccomanda.
Nelle università, nei ministeri, nelle professioni. A raccogliere mele e a
studiare Cartesio non
diventi famoso. Se hai belle gambe puoi fare un book. «Lei sa chi sia Emanuele
Filiberto? Sì: quello
che ha vinto Ballando sotto le stelle».
Così anche dove i voti si devono conquistare uno per uno
funziona il casting. A destra come a
sinistra, certo. Passa chi rappresenta un bisogno, un progetto? Ma per
carità. Chi drena consensi: la
giovane, la precaria, il campione sportivo, il principe ballerino. A
destra come a sinistra, sì. Poi però
l’età avanza. Passati i settanta se vuoi incarnare l’eterna giovinezza hai
bisogno dei medici. Degli
elisir di Scapagnini, pazienza per gli eccessi collaterali. La giovinezza
coincide col vigore, il vigore
con la virilità. Quante ragazze puoi compiacere in una volta: venti? Cinquanta?
Ecco il via vai dalle
magioni sotto gli occhi di tutti, le foto in tuta da relax e due ragazze,
cinque, dodici. Ecco Noemi,
infine, una bambina. «Vorrei un programma tv o un seggio alla Camera». È uguale.
Non è Noemi: è
il suo mondo, quello attorno a noi. I book agli agenti giusti e 25mila euro per
avere i piedi come
quelli di Paola Barale, fate un giro su Internet. Una scuola di politica di tre
giorni e pronte per
Bruxelles. Reclutate nei consorzi agricoli, tra le insegnanti di scuola media?
Tra le normodotate a
una cert’ora (succede se non hai un camerino) «maleodoranti»? Macché. La
tragedia è duplice. La
prima: che alla logica del casting non si sottragga nessuno. La seconda: che si
debba discutere se
una bella ragazza non possa essere anche intelligente e se ambire alla tv sia un
disonore. Certo che
sì, certo che no. Ma devi avere la farfallina al collo, però. Devi essere prima
passata da palazzo al
cospetto del sovrano in kimono. Il seggio è il regalino del
buongiorno-tesoro. E fatela finita con la
menata della sobrietà e del buon esempio, parrucconi. Ma va là.
Concita De Gregorio l'Unità 9 maggio 2009