LA DEMOCRAZIA MALATA DI BUSH E BLAIR

 

Un architetto che, dopo aver promesso di costruire un edificio capace di sfidare ogni intemperie, poi lo veda crollare trascinando nelle ma­cerie alcune decine di vite stroncate per­ché ha sbagliato i calcoli e usato materia­li inidonei, finisce in carcere. Non vi è giu­dice ed opinione pubblica che lo giustifi­chino e gli consentano di continuare tranquillamente la professione. È invece davvero straordinario quel che avviene nell’esercizio dell’arte del governo degli uomini. In questo campo è quasi norma­le e prevalente l’atteggiamento per cui i governanti possono farne di ogni colore, fino a provocare autentici disastri, senza pagare il prezzo delle loro azioni o pagan­done uno assai modesto. Ed è interessan­te osservare quanto i regimi democratici siano propensi ad offrire i più comodi pa­racaduti ai governanti che nelle questio­ni più vitali abbiano persino ingannato parlamento e popolo: regimi che pure poggiano su principi e istituzioni che do­vrebbero attivare efficaci meccanismi di controllo del potere, mettere in campo per tempo di fronte a grandi scelte sba­gliate contromisure tempestive, sanzio­nare le deviazioni del potere quando que­sto assuma un carattere arbitrario.

Proviamo a svolgere alcune riflessioni su Bush, Blair - i leader delle più vene­rande liberaldemocrazie - e la loro poli­tica irachena. Essi hanno commesso in proposito errori madornali con una enorme sicumera che li ha indotti a co­prire di scherno e contumelie i loro op­positori. Che abbiano seminato vento e raccolto tempesta è ormai sorto gli occhi di tutti. Basti pensare alle recenti dichia­razioni di Kofi Annan sul fallimento della politica americana e al rapporto Baker, dove si trova dichiarato nero su bianco che la strada della guerra è finita in un vi­colo cieco, e si raccomanda il ritiro gra­duale delle forze militari in un quadro di rilancio delle trattative con le potenze re­gionali del Medio Oriente. Un completo scacco politico e militare, dunque, del di­segno di Bush e di Blair, i quali, in luogo di pacificare l’Iraq e di sconfiggere il terrori­smo, hanno sprofondato quel paese in una notte di cui non si intravede la fine e ancor più infiammato il Medio Oriente e rafforzato il terrorismo. Il crollo da essi causato è paragonabile a quello di mi­gli aia di palazzi. Ciò nonostante gli archi­tetti responsabili sono sì politicamente assai raffreddati, ma pur sempre vivi e ve­geti e pronti a sfornare nuove ricette ri­vendicando l’immutata bontà delle loro scelte di fondo.

Ma di cosa sono responsabili? Vale la pena di rispolverare sinteticamente la memoria. Per conseguire i propri scopi di natura economica (il controllo sul petrolio) e geopolitica (il controllo sulla regio­ne) hanno messo in atto tutti gli strumen­ti suggeriti dai manuali del più vetero macchiavellismo. Sfruttando l’on­da creata dall’11 settembre han­no sostenuto, commettendo un doppio falso, che l’Iraq di Saddam era uno dei grandi centri del terrorismo internazionale in combutta con Al Qaeda, che esso, in posses­so di armi di di­struzione di massa, era in grado di diffon­dere la morte in Occidente e in­tenzionato a farlo. E al fine di ottenere il con­senso di cui ave­vano bisogno i due leader han­no deliberata­mente inganna­to le Nazioni Unite e l’opinio­ne pubblica mondiale e non hanno esitato a scompaginare le file dei loro stessi alleati, opponendo gli amici fidati a quelli falsi e infidi. Sennon­ché, mentre spargevano inganni, hanno sbagliato tutti i calcoli. Infatti - accecati dalla stessa logica della superiorità mili­tare che era stata dei francesi in Indocina e in Algeria, degli americani in Vietnam, dei sovietici in Afghanistan, senza aver nulla imparato da quelle esperienze -, hanno garantito una rapida e schiaccian­te vittoria in Iraq, la costituzione di un go­verno amico dell’Occidente, lasciando sullo sfondo il ruolo cruciale ma poco no­bile giocato dall’oro nero in tutta la fac­cenda. Poi le cose sono andate di male in peggio, e allora hanno preso ad invocare a soccorso i valori più alti. Al modo in cui i francesi avevano suonato la tromba del­la comune patria civilizzatrice, gli ameri­cani della difesa della libertà di fronte all’espansione comunista, i sovietici della lotta contro forze oscurantistiche appog­giate dall’imperialismo occidentale, così Bush e Blair si sono messi a sventolare la bandiera del dovere dei paesi democrati­ci di abbattere le dittature (naturalmente solo quelle sgradite). E più la sventolava-no, meno la bandiera produceva gli effet­ti voluti. L’Iraq liberato è caduto in un caos ingovernabile, le armi credute onni­potenti si sono rivelate spunta­te e l’unica stra­da rimasta è di far marcia in die­tro senza che si sappia come. Ma i due grandi leader, se bene scossi, sono an­cora lontani dall’aver reso il conto dovuto del loro operato disastroso, il cui bilancio peggio­re è di aver con­fermato ancora una volta che la violenza di eser­citi occupanti può clamorosa­mente fallire e dimostrato a chi vi si oppone, usando a sua volta un’ade­guata violenza, che chi la dura la vince.

Tutto ciò ci in­duce a riflettere, per tornare al punto iniziale, sullo stato dell’arte di governo. Le scienze e le tecniche progrediscono in maniera strabiliante. Per contro l’arte del governo, quella che attiene al compito di affrontare e risolve­re i problemi della convivenza umana, sembra restare decisamente al disotto di questo stesso compito. Guardiamo alle maggiori questioni che nel nostro tempo richiedono di ricevere adeguate risposte. Sono anzitutto: il potere politico che ne­gli stessi paesi democratici agisce in mo­menti cruciali sfuggendo ad ogni control­lo, il predominio delle grandi plutocrazie che dominano l’economia mondiale, il divario tra i paesi del consumo opulento e quelli del sottoconsumo, la devastazio­ne ambientale che fa gravare minacce sull’intera umanità, la permanenza di micidiali conflitti armati e ideologici. Eb­bene, il saldo risulta largamente negati­vo, perché tutto quel che pure si fa di po­sitivo resta lungi dal produrre il salto di qualità necessario.

Ogni forma di governo ha le sue proprie caratteristiche. Quelle dei regimi demo­cratici odierni sono lo iato profondo tra i loro valori e principi costituzionali da un lato e il loro modo di funzionare in con­creto dall’altro, la malattia insita nel fare dello sviluppo economico e del consumi­smo idoli da anteporre ad ogni altro fine, la diffusa apatia o l’impotenza dell’opi­nione pubblica dinanzi agli abusi di po­tere, la sordità o quanto meno la grande lentezza dei governi e delle masse di fron­te all’esigenza di elaborare e mettere in atto piani che vadano oltre il breve termi­ne per salvaguardare rapporti tra gli uo­mini e tra uomo e natura all’altezza delle aspettative.

Il problema, mi pare, si delinea con suf­ficiente chiarezza. Tocchiamo con mano l’urgenza che i paesi democratici si guar­dino allo specchio; smettano di crogio­larsi in un trionfalismo retorico che li in­duce a proporsi come modelli da espor­tare e addirittura impone al resto del mondo alla stregua di merci preconfezio­nate; guardino alle loro carenze e trovino le vie di un loro rinnovamento profondo. Allora e allora soltanto potranno diventa­re esempi fecondi capaci di fare proseliti per convinzione e non di generare nuovi nemici.

 

Massimo L. Salvatori        La Repubblica del 19.12.2006