La crociata vaticana e le mani sulla vita

 

Le mani sulla vita. È proprio questa la pretesa riemersa con prepotenza nella fiammata estiva che

sta accompagnando le nuove discussioni su temi altamente "sensibili" come la pillola Ru486, la

moratoria sull'aborto, il testamento biologico. Si poteva pensare che, dopo le ingiustificate e

violente polemiche sul caso Englaro, vi sarebbe stato un ritorno alla ragione. E invece no. Di nuovo

pretese fondamentaliste, falsificazioni di dati scientifici, irate proteste delle gerarchie vaticane. Di

nuovo annunci di interventi del ministero della Salute che, dopo aver tentato di cancellare le

decisioni della magistratura riguardanti Eluana Englaro, vuole riprovarci andando all'assalto

dell'autorizzazione all'uso della pillola Ru486. Una politica incapace di governare i difficili processi

sociali e economici si fa prepotente e vuole espropriare le persone del diritto di governare la propria

vita. Torna il tempo dei diktat, con perentorie prese di posizione di ambienti vaticani e compiacenti

allineamenti all'interno della maggioranza. Questo alzar la voce fa pensare che si voglia pure trarre

profitto dalla debolezza del Presidente del Consiglio proprio sul terreno dell'etica, offrendogli

l'opportunità di riacquistare qualche benevolenza della Chiesa in materie alle quali essa attribuisce

particolare rilevanza (in Italia, non in paesi a noi assai vicini). L'incontro tra Berlusconi e il

cardinale Ruini, interprete d'una linea di ben nota intransigenza, legittima più di una

preoccupazione.

 

Valuti ciascuno in cuor suo e secondo la propria fede la possibilità di affiancare l'aborto

farmacologico a quello chirurgico. È inammissibile, invece, la pretesa autoritaria e illegale di fare

dell'Italia un luogo dove alle donne è preclusa la possibilità di fare le stesse scelte delle donne di

quasi tutti gli altri paesi europei; e dove si violano consolidate regole europee sulla registrazione dei

farmaci, fondate sul "mutuo riconoscimento": quando il farmaco è già stato autorizzato in un altro

paese europeo, si può chiedere che venga autorizzato anche in altri. Questa procedura implica che si

possa discutere sulle modalità dell'autorizzazione, non sul concederla o negarla. E nel comunicato

dell'Agenzia italiana per il farmaco si dice che l'autorizzazione «conclude quell'iter registrativo di

mutuo riconoscimento seguito dagli altri paesi europei». Se, invece di abbandonarsi alle invettive, si

fossero lette queste poche parole e le equilibrate considerazioni del direttore dell'Agenzia, si

sarebbero evitate molte sciocchezze e forzature.

Dica pure il presidente della Cei che l'autorizzazione della pillola Ru486 apre una «crepa nella

nostra civiltà»: l'autorizzazione ad esagerare non si nega a nessuno. Ma quando il responsabile per

queste materie della stessa Cei dice perentoriamente che «il governo deve bloccare tutto», siamo di

fronte alla negazione dello Stato di diritto, del suo essere fondato su regole e procedure che tutti

devono rispettare. Altro che Stato e Chiesa, «ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani»,

come vuole l'articolo 7 della Costituzione!

 

Di questo clima bisogna tenere conto, perché si cercherà di svuotare in via amministrativa

quell'autorizzazione, già severissima, ricorrendo alle abituali falsificazioni dei dati scientifici, come

sta accadendo con il riferimento a 29 donne morte ricorrendo a quella pillola. Ma, a parte il fatto

che alcuni di quei casi sono controversi, si tratterebbe comunque di 29 casi in ventun'anni e su un

totale di milioni di donne: si è fatto notare che, nello stesso arco di tempo, i morti per aspirina sono

stati 50. Questa manipolazione mostra come si vogliano creare le condizioni per una rinnovata

offensiva contro la libertà femminile, invocando la mozione con la quale la Camera impegna il

Governo a promuovere una risoluzione dell'Onu «che condanni l'uso dell'aborto come strumento di

controllo demografico». Conviene vigilare perché questa richiesta non divenga il pretesto per nuove

forme di condanna delle donne, per imporre presenze di "dissuasori" nei consultori, per contrastare

le politiche di educazione sessuale e di informazione sulla contraccezione, come quelle svolte dalle

organizzazioni internazionali alle quali Obama è tornato ad assicurare i finanziamenti.

 

La volontà di limitare la libertà di scelta e di espropriare le persone del diritto di governare la

propria vita, era già comparsa nelle discussioni che accompagnano il dibattito parlamentare sul

testamento biologico. Si contrappongono le decisioni sulla morte dignitosa e la cura e

l'accompagnamento del morente. La vita, non la morte, dovrebbe essere oggetto dell'attenzione.

Vivere, non morire, con dignità. Qui l'ambiguità è massima. Proprio la riflessione laica ha

sottolineato che, se la morte appartiene alla natura, il morire è sempre più governabile dall'uomo,

appartiene alla sua vita, e dunque rientra nell'autonomia delle scelte di ciascuno. E non si può

contrapporre la vocazione della Chiesa alla cura a una sorta di estraneità pubblica. In questi anni

sono stati proprio i laici a insistere sulla necessità delle cure palliative, sulla iniqua distribuzione sul

territorio di hospices e centri per la terapia antidolore, sulla complessiva necessità di servizi per le

persone. Il Governo, pronto ad approvare decreti incostituzionali per impedire l'esercizio di diritti,

non ha riconosciuto quelle altre priorità, né mette a disposizione risorse adeguate. Invece è proprio

qui che la presenza pubblica è necessaria, per consentire a ciascuno di fare le sue scelte. Una

strategia di libertà positiva, esattamente l'opposto delle politiche proibizioniste che si cerca di

imporre attraverso il disegno di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento già approvato dal

Senato.

 

Nei giorni scorsi un alto prelato, sempre assai loquace, si è spinto a dire che quel testo è ottimo e

che non è possibile mettere in discussione uno dei suoi punti più controversi, quello

sull'alimentazione e l'idratazione forzata, perché la scienza avrebbe unanimemente concluso che

non sono trattamenti terapeutici. Non è così, come è stato mille volte ricordato richiamando le

posizioni delle maggiori società mediche internazionali. Ma questi sono segni inquietanti di una

volontà di chiusura che si ritrova anche nella relazione che, nella Commissione Affari sociali della

Camera, ha avviato l'esame del disegno di legge. Una chiusura tutta ideologica, sorda alla voce dei

moltissimi studiosi che hanno sottolineato le infinite sgrammaticature e contraddizioni di quel testo.

Né maggioranza e Governo vogliono trarre profitto dalle lezioni impartite dalla Corte costituzionale

con due recenti sentenze che indicano quali debbano essere i rapporti tra potere legislativo, potere

medico e potere individuale quando si affrontano temi che riguardano la vita delle persone. Viene

ribadito il ruolo centrale dell'autodeterminazione, per la prima volta riconosciuta esplicitamente

come "diritto fondamentale" della persona. Il consenso informato dell'interessato rimane

l'ineliminabile e vincolante punto di partenza. Il legislatore deve tener conto delle «acquisizioni

scientifiche e sperimentali che sono in continua evoluzione», sì che «la regola di fondo deve essere

l'autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie

scelte professionali».

 

Le pretese del legislatore-scienziato, che vuol definire che cosa sia un trattamento terapeutico, e del

legislatore-medico, che vuol stabilire se e come curare, vengono esplicitamente dichiarate

illegittime. E, al tempo stesso, la definizione dello spazio proprio delle acquisizioni scientifiche e

dell'autonomia del medico viene affidata al consenso della persona, ribadendosi così il ruolo

ineliminabile della volontà individuale.

Questo è il quadro costituzionale che la politica deve rispettare se vuole che le sue decisioni siano

legittime. In questo modo difende anche la propria autonomia di fronte a chi vuole trasformarla in

potere biopolitico che si impadronisce della vita delle persone, introducendo pericolosi doveri verso

la "comunità", o in potere subordinato a imposizioni esterne. Credo proprio che non debba essere

seguito l'esempio dell'"amico Putin", che tre settimane fa ha consentito alla Chiesa ortodossa un

diritto di esame preventivo di tutte le leggi che riguardano temi eticamente sensibili.

Stefano Rodotà     la Repubblica  6 agosto 2009