La Croce che non s’impone

La croce non si impone. E’ il messaggio che viene da Strasburgo, dove la Corte europea dei diritti
dell’uomo ha sancito che i crocifissi nelle aule scolastiche rappresentano una doppia violazione.
Perché negano la libertà dei genitori di educare i figli secondo le proprie convinzioni religiose o
filosofiche e al tempo stesso violano la libertà degli alunni. Il governo italiano, tanto attento alla
fede cristiana nei suoi proclami quanto a-religioso nei comportamenti del suo leader, ha subito
deciso di presentare ricorso.
Agitazione al centro e a destra, dove il ministro Frattini paventa un
“colpo mortale all'Europa”, mentre l'Udc Rocco Buttiglione parla di “sentenza aberrante da
respingere”. Prudenza nel centrosinistra: il neo-segretario Pd Bersani si limita a definire la presenza
del crocifisso nella aule una “tradizione inoffensiva”. Eppure la Corte europea dei diritti dell’uomo
è solo responsabile di chiarezza. Non è la sua una scelta antireligiosa, come si affrettano a
diffondere le prefiche che lamentano continuamente la perdita delle «radici cristiane d’Europa». Al
contrario è il limpido riconoscimento che i simboli religiosi sono segni potenti, che incidono sulle
coscienze.

Da tempo l’Italia pseudo-religiosa della cattiva coscienza, per sfuggire alla questione della laicità
delle istituzioni, si è inventata la spiegazione che il crocifisso sia soltanto un simbolo della
tradizione italiana, un’espressione del suo patrimonio storico e ideale, un incoraggiamento alla
bontà e a valori di umanità condivisibili da credenti e non credenti. Non è così. O meglio, tutto
questo insieme di richiami è certamente comprensibile ma non può cancellare il significato
profondo e in ultima istanza esplicito di un crocifisso esposto in un ambiente scolastico o nell’aula
di un tribunale. Il crocifisso sulla cattedra è il richiamo preciso ad una Verità superiore a qualsiasi
insegnamento umano. Il crocifisso sovrastante le toghe dei magistrati è il monito a ispirarsi e non dimenticare mai la Giustizia superiore che promana da Dio.

È accettabile tutto ciò da parte di chi  non crede in “quel” simbolo? E’ lecito imporlo a quanti sono diversamente credenti sia che seguano
un’altra religione sia che abbiano fatto un’opzione etica non legata alla trascendenza? La risposta
non può che essere no.
Già negli anni Novanta nel paese natale di papa Ratzinger la Corte Costituzionale tedesca sancì con
parole pregnanti che nessuno può essere costretto a studiare “sotto la croce”, perché la sua
esposizione obbligata è lesiva della libertà di coscienza. Persino la cattolicissima Baviera – lo riferì
a suo tempo anche l’Avvenire non disdegnando la soluzione – ha affrontato il problema. In quel
Land tedesco il crocifisso è di norma esposto nelle aule scolastiche: se però degli studenti obiettano,
le autorità scolastiche aprono un confronto che può condurre alla rimozione del simbolo.
Il messaggio di Strasburgo porta in Italia una ventata di chiarezza. Non nega affatto la vitalità di una
tradizione culturale. Non “colpisce”, come lamenta l’Osservatore Romano, una grande tradizione.
Strade, piazze, monumenti continueranno a testimoniare il vissuto secolare di un’esperienza
religiosa. Edicole, crocifissi, statue di santi, chiese e oratori continueranno a parlare di una storia
straordinaria. (Ma meglio sarebbe che gli alfieri della difesa delle «radici cristiane» si chiedessero
perché tante chiese vuote, perché tanta ignoranza religiosa negli alunni che escono da più di dieci
anni di insegnamento della religione a scuola, perché sono semivuoti i seminari e deserti i
confessionali)
.

Né viene toccato il diritto fondamentale dei credenti, come di ogni altro cittadino di
diverso orientamento, di agire sulla scena pubblica. La Corte europea dei diritti dell’uomo afferma
invece un principio basilare: nessuna istituzione può essere sotto il marchio di un unico segno
religioso. Laicità significa apertura e neutralità, rifiuto del monopolio.
Ci voleva la tenacia di una
madre finlandese trasferita in Italia, Soile Lautsi, per intraprendere insieme al marito Massimo
Albertini la lunga marcia dal consiglio di classe di una scuola di Abano al Tar, al Consiglio di Stato,
alla Corte costituzionale, alla Corte di Strasburgo perché l’Italia fosse ammonita a rispettare questo
elementare principio. Se si chiede alla coppia cosa le ha dato la tenacia di non arrendersi al
conformismo delle autorità, la riposta è sobria: “L’amore per i figli, il desiderio di proteggerli. E
loro, cresciuti nel frattempo, ci hanno detto di andare avanti”. Sostiene la conferenza episcopale
italiana che la sentenza di Strasburgo suscita “amarezza e perplessità”, perché risulterebbe ignorato
il valore culturale del simbolo religioso e il fatto che il Concordato riformato del 1984 riconosce i principi del cattolicesimo come “parte del patrimonio storico del popolo italiano”.

È questa parola “parte” che i vescovi dovrebbero non dimenticare. Il cattolicesimo non è più religione di Stato né
esiste nella Costituzione repubblicana un attestato di religione speciale, rispetto alla quale altre fedi
o orientamenti filosofici sono di seconda categoria.


Marco Politi      il Fatto quotidiano 4 novembre 2009