La crisi come una guerra

Man mano che s’estende e s’aggrava, la crisi economica che traversiamo somiglia sempre più
all’esperienza che l’uomo fa della guerra. È violenta, e suscita nel popolo violenza, ira. Chiude le
porte dell’avvenire, troncando non solo le vite ma i progetti, le aspettative che oltrepassano
l’immediato presente. Le sue due prime vittime sono il tempo lungo e la verità. Al pari dei generali,
i governanti tendono a esecrare le cattive notizie che gli organismi internazionali diffondono ogni
ora sulla ricchezza delle nazioni che scema, sulla disoccupazione che cresce. Le brutte notizie
pubblicizzano i mali, aprono finestre che sarebbe preferibile tener chiuse, permettono alle lingue di
sciogliersi, di sfatare menzogne dette per decenni sulle intrinseche virtù del mercato.
Nella sete di verità e nella sua divulgazione non si vede che disfattismo, questa passione triste che
tenta il soldato in trincea. In parte per pigrizia, in parte per vigliaccheria, i governanti sembrano
quasi voler curare il male con i mali che l’hanno scatenato: con l’illusionismo, con il nascondimento
dei rischi, con il pensare-positivo che ignora i pericoli, con l’escamotage. Non con l’analisi
psicologica ma con il coaching, l’incoraggiamento sbrigativo che ti riconforta scansando non tanto
il pessimismo, ma il realismo. Non con lo sguardo proiettato sul domani, ma con l’istante che
l’abolisce.

Quel che diceva Samuel Johnson della guerra, in un articolo del 1758, s’adatta all’oggi in
maniera impressionante: «Fra le calamità della guerra andrebbe annoverata la diminuzione
dell’amore della verità, ottenuta tramite le falsità che l’interesse detta e che la credulità incoraggia
».
Il gruppo dei 20 Paesi riunitosi giovedì a Londra s’è sforzato di uscire dalle pigrizie, e anche di far
luce su quel che tanti vorrebbero oscurare: ad esempio su alcuni paradisi fiscali, o sui conti bancari
segreti. Ma il fastidio che la verità incute nei governanti resta intenso, specie in Europa. Sarkozy ha
perso la pazienza qualche giorno fa, irritato dalle cifre pessimiste che circolano a Bruxelles. E il
fastidio è forte nel governo italiano. L’Italia è più impreparata alla crisi di quanto il potere voglia far
credere, ma il capo del governo è aggrappato al pensare-positivo come ci si aggrappa a una droga
. Il
contrario del pensare-positivo non è per lui altro che pensare-negativo: non è verità, necessità. Le
colpe sono sempre di altri, e in particolare degli organismi internazionali che sfornano ogni giorno
cifre più allarmiste: l’Ocse è invitata a «star zitta», i commissari europei «a lavorare piuttosto che
far prediche ai governi» e «disturbarne» il lavoro. Così facendo Berlusconi ammette il disastro:
chiede di non renderlo pubblico. Eppure la verità è rimedio essenziale, e chi comincia a dirla già
compie metà del cammino, già si esercita a veder più lontano e più chiaro. Solo se si conosce
l’ampiezza del male e la sua natura, solo se si discerne l'enorme mutazione che sta avvenendo e se
si guardano in faccia le violenze e i conflitti sociali che s'accompagneranno alla mutazione, si può
pensare di uscire dal disastro non distrutti. La verità è un’etica e al tempo stesso un farmaco contro
il pensare positivo o negativo: nelle tragedie, è il punto in cui l’eroe accecato o colpevole si
trasforma grazie alla peripezia, al rovesciamento di cose che parevano avere un senso e d’un tratto
ne hanno un altro.
La medicina della verità, Kant la chiama pubblicità: che non è réclame ma è il
dibattito fra opinioni diverse reso pubblico, la rinuncia del potere alla segretezza dispotica, le
istituzioni comuni che prima ancora d'esser democratiche si fanno repubblicane, appartenenti alla
sfera pubblica.

Il rischiaramento dei Lumi e il sapere aude! (osa sapere!) che Kant invoca
permettono all’uomo di diventare cittadino e alle nazioni di divenire cosmopolite: l’uno e le altre
non più responsabili solo verso se stessi. Non so cosa pensi Sergio Marchionne del grande crollo ma
non è del tutto improbabile che la sua visione del futuro sia scabrosa, non ottimista: che veda un
domani dove l’auto sarà un peso, costoso e dannoso per il pianeta. Che proprio questa visione
l’abbia spinto a innovare radicalmente e conquistare l’America. La mutazione del mondo è la cosa
più difficile da vedere, governare. È difficile per l’America, che fatica a smettere l’egemonia. Ma
non è meno difficile per gli europei, che alla trasformazione rispondono concentrandosi su singoli
duelli con Obama, e chiedendo che l’America ripari il riparabile visto che è stata lei a sfasciare.
L’ascesa di nuove potenze come Cina e India è un’ulteriore verità che disturba il loro sonno
dogmatico, e il mal dissimulato desiderio di ricominciare la storia di ieri: una storia in cui l’Unione
europea brilla forse per intelligenza, ma non per capacità di guida e responsabilità mondiale.
Quando Berlusconi dice che il vertice veramente importante sarà quello degli Otto Grandi alla
Maddalena, quando i governanti europei parlano della crisi come di una burrasca passeggera, la
presa di coscienza è rinviata e il rovesciamento tragico lontano. La verità di cui si teme il
disvelamento è che la piccola élite del G8 è sorpassata, non è neanche più élite.
Le idee nuove sulla
crisi sono venute non dall’Europa o dall’America ma dalla Cina, che con realismo vede il declino
del dollaro e con questa visione attrae un numero crescente di Paesi: non solo il governo russo che
per primo ha denunciato il pericolo del dollaro-moneta di riserva mondiale ma anche Indonesia,
Filippine, Malaysia, Argentina, Venezuela. La Cina non solo è più inventiva: il racconto che fa del
mondo - lo spiega bene lo storico Paul Kennedy sull’Herald Tribune del 2 aprile - fotografa il reale
e le necessità del domani con fedeltà difficilmente confutabile. Il racconto veritiero sul mondo che
abitiamo - il filosofo Paul Ricoeur lo chiama la «narrativa» - è da tempo usato nelle terapie dei
tossicodipendenti, per la ricostituzione di identità frantumate. È utile anche per la tossicodipendenza
delle nostre società e dei loro governanti: aiuta a comprendere meglio le rivolte che si estendono, la
questione sociale che si risveglia, Marx che secondo Paul Kennedy rinasce. È futile parlare di
piagnoni o fannulloni: i tumulti di questi giorni a Londra e Strasburgo, ma ancor più i sequestri di
manager o l’ira contro i ricchi che si moltiplicano in Francia, sono segni ominosi. Alle rivolte
partecipano sempre più lavoratori - scrive il sociologo Carlo Trigilia che le analizza con lucidità - e
a esse occorre replicare riconoscendo gli effetti sociali della crisi e dando ai minacciati più giustizia
e protezione (Sole- 24 Ore, 2 aprile). Anche Obama ha parlato di violenza, vedendola come
fenomeno della società-mondo, e sembra desideroso di opporre un suo racconto della crisi al
racconto ostile che va gonfiandosi. Ha cominciato col descrivere il proprio Paese, denunciando la
fede nel mercato che per anni l’ha cattivato e annunciando che l’America di domani non sarà più il
Paese che era: «Voracemente consumatore», drogato dall’indebitamento, incapace di risparmiare.
Un mercato ideale per tanti.
In un saggio scritto nel 1926 su Montesquieu, Paul Valéry racconta la Francia prima della
rivoluzione e narra un Paese arguto ma smarrito: «Senza che nulla di visibile sia mutato (nelle
istituzioni dell’epoca), esse non hanno più altro che la bella presenza. Il loro avvenire si è
segretamente esaurito. Il corpo sociale perde dolcemente il domani. È l’ora del godimento e del
consumo generalizzato». È un Settecento adorabile e tuttavia viziato, senza futuro. Non diverso da
quello dipinto da Samuel Johnson: affetto da credulità, interesse miope, disamore della verità. Un
mondo che precede le guerre, le rivoluzioni, e se tutto va bene le grandi trasformazioni.

Barbara Spinelli        La Stampa  5 aprile 2009