La corruzione
soffoca la democrazia
Sembra che la percezione che gli italiani stanno sviluppando della corruzione
esistente nel proprio
Paese abbia raggiunto un'intensità mai prima toccata. Ed è l'irrimediabile buio
di questa cupa
autorappresentazione, quello che più colpisce nel rapporto del Procuratore
Generale presso la Corte
dei conti, ancor più delle cifre allarmanti da lui squadernate, che vedono la
corruzione crescere del
229%.
Una nazione in via di dissolvimento morale, ormai in balia di una
disastrosa deriva di
comportamenti: questo dunque saremmo, veramente. Dobbiamo saper guardare
negli occhi il
pericolo che abbiamo di fronte. Se questa immagine fosse realistica - e molto
lascia pensare
purtroppo che lo sia - staremmo correndo, tutti, un incalcolabile rischio: la
completa
decomposizione del nostro tessuto civile.
Entro certi limiti, corruzione e democrazia possono coesistere: la storia ha
moltiplicato di continuo
esempi di questa precaria convivenza, dall'Atene o dalla Roma classiche
all'America
contemporanea. Le condizioni perché questo accada sono due, fra loro legate: una
misura nella
diffusione del male, e gli anticorpi che la sua presenza riesce ad attivare.
In altri termini, che essa
non arrivi a provocare, superata una soglia, l'abdicazione etica di un'intera
società, quel generale
oscuramento delle coscienze per cui la quantità di illegalismo circolante
trasforma la qualità del
giudizio morale su di esso, presentandolo come regola universale di condotta. Se
si verifica questa
sorta di collasso generale, è la stessa democrazia a non reggere più: perché non
esistono più
interesse generale né bene comune - ma solo una somma feroce di arbitri
individuali che non
riconosce altro se non la sua immediata soddisfazione. Siamo a questo punto? E
qual è la causa di
tutto ciò? E soprattutto, possiamo ancora porvi rimedio? Per cercare di capire
dobbiamo rinunciare
a qualunque retorica moralistica.
La storia etica del Paese è quella che è: mentre altri, in
Europa,
costruivano lo Stato, noi abbiamo avuto la Controriforma, e questo ha provocato
conseguenze che
scontiamo ancora oggi. Ma dobbiamo tuttavia evitare di usare il nostro
passato come un alibi: e di
rifugiarci dietro i tratti più fragili e incompiuti della nostra slabbrata
modernità per assolverci dalle
nostre colpe. C'è dell'altro nella notte in cui stiamo scivolando, e di molto
più recente - su cui si può
intervenire. E questo "altro" ci riporta alla politica. A me pare infatti che la
crisi morale del Paese
sia in primo luogo il frutto avvelenato della forma che ha assunto quella che
ormai abbiamo
convenuto di chiamare la "transizione italiana" - il quindicennio di
trasformazioni sul quale ha
messo il suo sigillo la leadership di Silvio Berlusconi.
In questi anni abbiamo assistito senza fiatare a una vera e propria orgia
ideologica di antipolitica, in
nome dell'efficienza, della deregolazione e dell'onnipotenza del mercato, che ha
contribuito in modo
determinante a recidere quei rapporti fra cultura e politica, fra politica e
idee, e anche fra politica ed
etica, che, bene o male, avevano alimentato per decenni la nostra vita pubblica,
e avevano
rappresentato il meglio della nostra storia repubblicana. Con la
scusa di liberarci delle ideologie,
abbiamo anche rinunciato ai pensieri, ai progetti, ai grandi disegni. E
abbiamo ridotto così la
funzione parlamentare e quella di governo a pure routine di potere, senza
respiro, senza slancio
morale, senza ricambio, senza più uno straccio di elaborazione intellettuale.
Ma una politica così rinsecchita - solo mestiere e potere - in un
paese con le nostre storiche fragilità,
privo di un'autentica eredità di etica pubblica, si offre disarmata alla
corruzione, quando non
addirittura la determina, in un gioco perverso di rimandi. E comunque non ha gli
strumenti per
combatterla, non suscita anticorpi, ma si rassegna, scambiando la resa per
realismo. Senza dubbio,
questo stato di cose non è solo l'esito del berlusconismo: ingigantiremmo
l'ombra dell'avversario, se
lo ritenessimo. Hanno pesato molti elementi nella caduta, anche ereditati
dall'ultima stagione
dell'epoca democristiana, e anche non specificamente italiani. L'onda
ultraliberista dell'ultimo
ventennio ha ridotto dovunque spazi e motivazioni dell'agire politico.
Ma la nostra transizione vi ha
aggiunto un che di protervo, di arrogante e insieme di meschino; starei per
dire: di volgare, che è
proprio l'aria del tempo.
È dunque dalla politica e dalla sua riforma che bisogna partire:
questa è la più urgente delle
scadenze, e anche la destra farebbe bene a capirlo. L'inevitabile gioco di
specchi fra politica e
società - a lungo andare, ogni corpo sociale ha la politica che si merita - può
essere spezzato
qualche volta: e può aprirsi una nuova stagione.
Io credo che una rinascita morale del Paese sia ancora possibile -
non un'Italia improvvisamente di
anime belle, ma un'Italia che riesca a capire che senza un salto di qualità nei
suoi comportamenti
individuali e collettivi siamo tutti perduti; non un'Italia "migliore", ma
almeno più sicura e matura.
Credo però che senza una rigenerazione della politica, senza restituirle
la sua vocazione
propriamente moderna - che è quella di cambiare il mondo - non potremo mai
farcela. Ed è intorno
a questo nodo, che si apre per la sinistra un territorio sconfinato. La
cosiddetta questione morale è
oggi, per prima cosa, una questione di politica: i suoi contenuti ideali, il suo
stile, il suo immedesimarsi nella democrazia. È da qui che si deve partire.
Aldo Schiavone la Repubblica 18 febbraio 2010