La
corruzione e le sue radici
Storia di un'infezione nazionale.
Le origini di un fenomeno che affligge l´italia dagli anni settanta
La "normale" violazione della legalità rimanda a vicende antiche del nostro
Paese
La "diversità" comunista oggi appare come un reperto archeologico
Il riemergere della corruzione come nodo politico e la diffusione della
"normale" violazione della legalità (la "corruzione inconsapevole" di cui ha
parlato Roberto Saviano) inevitabilmente rimandano ad un rapporto di lungo
periodo fra sistema politico e Paese. E il largo coinvolgimento del
centrosinistra rinvia non alle confuse vicende di anni recenti ma ad una storia
più antica.
La "diversità" comunista appare oggi reperto archeologico ma non è inutile
interrogarsi sulle modalità del suo incrinarsi ed esaurirsi. Conviene partire da
anni insospettabili, ad esempio dallo scenario degli anni Settanta: più
esattamente, dal momento in cui le tangenti petrolifere ai partiti di governo
rendono evidente il delinearsi di una corruzione sistematica e non episodica. È
illuminante il dibattito che si svolge nella Direzione del Pci proprio nel 1974,
in relazione alla legge sul finanziamento pubblico ai partiti varata sull´onda
di quello scandalo.
L´iniziale e periferico coinvolgimento del Pci in pratiche illegittime è
registrato con estrema preoccupazione, e in autorevoli interventi il
finanziamento pubblico è visto come possibile strumento di una duplice
autonomia: da un lato dall´Urss, dall´altro dalle pressioni illecite - e non
sempre respinte - sulle amministrazioni locali. Alla luce di questi e
altri non piccoli segnali, l´insistenza dell´ultimo Berlinguer sulla diversità
comunista ci appare oggi non tanto l´orgogliosa sottolineatura di una
solidissima realtà quanto l´appassionato e quasi angosciato appello ad un dover
essere, l´aggrapparsi ad un elemento che vedeva scolorirsi sotto i suoi occhi. E
che gli era apparso sin lì il più sicuro antidoto a quel degrado del sistema
politico che stava conoscendo forti accelerazioni. Già nel 1980 su
questo giornale Massimo Riva annotava che «il radicarsi della corruzione dentro
le strutture dello stato» appariva senza «precedenti storici che possano
consolare». Nello stesso anno Italo Calvino regalava ai lettori un lucidissimo
Apologo sull´onestà nel paese dei corrotti che iniziava così: «C´era un paese
che si reggeva sull´illecito». Sempre allora Ernesto Galli della Loggia su Mondo
Operaio vedeva delinearsi una «uscita dalla legalità dell´intera classe
dirigente». Ed è dell´anno successivo la appassionata denuncia di Berlinguer
nell´intervista ad Eugenio Scalfari riproposta nelle sue parti essenziali da la
Repubblica di domenica scorsa. Voci differenti, come quelle che nel corso del
decennio segnaleranno con allarme crescente, nel diffondersi di arresti e
processi, una degenerazione inarrestabile, un salto di qualità impensabile pochi
anni prima.
A
rileggere cronache giudiziarie e acute analisi giornalistiche c´è da chiedersi
semmai perché il ciclone di Tangentopoli sia venuto solo così tardi. Nel 1986,
ad esempio, sempre su queste pagine Giovanni Ferrara osservava: «Il legame di
fiducia fra i partiti e l´opinione pubblica è ormai teso al punto di spezzarsi:
come in una corda marcita molti fili sono già rotti ed ogni giorno ne salta
ancora uno». E nello stesso anno Giorgio Bocca analizzava bene la "cultura della
corruzione": nelle parole degli imputati ai processi, annotava, le tangenti
appaiono «necessarie come il lievito alla panificazione». Bocca si riferiva
allora a Milano, e quattro anni dopo Giampaolo Pansa poteva parafrasare in un
titolo - Milano corrotta, nazione infetta - la storica denuncia dell´Espresso
degli anni Cinquanta relativa alla Roma della speculazione edilizia. È un titolo
del 1990, non del 1992. Poco dopo ancora Bocca annotava: «L´assenza di regole
domina ovunque, anche nella "capitale morale". E siamo qui nell´angoscia,
nell´umiliazione di un nodo che sembra irrisolvibile».
Non mancavano riflessioni ancor più generali. Nel declinare degli anni Ottanta
Silvio Lanaro iniziava una densa ricognizione storica (L´Italia nuova, Einaudi
1988) imponendo al lettore dati impietosi: da un lato il volume significativo
ormai raggiunto dal "reddito da tangenti" (di poco inferiore, si valutava, a
quello di estorsioni e ricatti, o al bottino complessivo di furti e rapine);
dall´altro l´immagine di un Paese privo di regole e consapevole di esserlo. Poi,
negli anni di Tangentopoli, le riflessioni sull´identità italiana si
intensificano e si addensano, alimentate anche dalla irruzione sulla scena della
Lega. Già nel 1991 Pietro Scoppola ne La Repubblica dei partiti (Il Mulino)
tracciava una ricostruzione disincantata e quasi sofferente del declino di un
sistema politico nel quale aveva creduto a lungo (e ancora voleva credere). Nel
1993 esce Se cessiamo di essere una nazione di Gian Enrico Rusconi (Il Mulino),
che si annuncia sin dal titolo, mentre Lorenzo Ornaghi e Vittorio Emanuele Parsi
annotano: «Nessun discorso sull´Italia repubblicana può scansare la domanda se
la nostra società possa dirsi davvero una società. O se mai lo sia stata» (La
virtù dei migliori, Il Mulino). Ancora nel 1993 La grande slavina di Luciano
Cafagna (Marsilio) offre ulteriori e stimolanti affondi, dando non effimero
fondamento al giudizio che Giuliano Amato pronunciava allora dimettendosi da
Presidente del Consiglio (e suscitando polemiche). Nella crisi degli anni
Novanta Amato vedeva infatti la fine di «quel modello di partito-Stato che fu
introdotto in Italia dal fascismo e che la Repubblica aveva finito per
ereditare», sostituendo il partito unico con un sistema pluralistico sì ma
partitocratico (e alla partitocrazia come lascito del fascismo era appunto
dedicato un capitolo del pamphlet di Cafagna). Al di là di polemiche e toni
d´epoca è difficile negare che abbiano avuto prepotente impulso se non origine
nel ventennio il diffondersi della politica come mestiere e al tempo stesso la
confusione fra interessi dello Stato e interessi del partito (un partito
onnivoro come il Pnf, contornato di istituti ed enti). Di lì a poco Eugenio
Scalfari toccava un nodo centrale chiedendosi: «Qual è stato il momento
nel quale una società operosa e dinamica si è trasformata in un immenso
verminaio collettivamente dedito alla dilapidazione delle risorse e al malaffare
fatto sistema?». Con molte ragioni collocava questa «grande mutazione
genetica» negli anni Sessanta, cioè nella tumultuosa trasformazione che aveva
posto fine all´Italia arcaica e contadina. Ci sarebbe voluta una classe
dirigente moralmente e professionalmente adeguata, aggiungeva, per governare
quel processo: «In assenza di essa, tutti i valori sono andati dispersi, tutte
le regole calpestate, tutti i rapporti imbarbariti».
In questi e altri interventi, dunque, la critica al sistema dei partiti si
legava strettamente ad un più generale esame di coscienza e su La Stampa
Norberto Bobbio osservava: «Una fine così miseranda [della "prima Repubblica"] è
l´espressione del fallimento di tutta una nazione». Sul Corriere della Sera
Giovanni Raboni si chiedeva Ma noi dove eravamo?, mentre Claudio Magris
annotava: «Da qualche tempo si avverte quasi fisicamente, per la prima
volta, la possibilità che il Paese si dissolva e che tra breve l´Italia, nella
sua attuale forma politico-statuale e quindi anche culturale, possa non esistere
più». Dal canto suo Galli della Loggia si interrogava sulla "solitudine
interna" di una società che non riesce a «scorgere in se stessa alcuna fonte
vera di orientamento a cui rivolgersi» e aggiungeva poi: la «corruzione
dall´alto» si incontra con quella che «proviene dal basso, dagli strati profondi
della società italiana (...) i politici, gli industriali, gli alti burocrati
hanno potuto fare mercato della cosa pubblica perché tutti gli italiani, senza
distinzioni, da sempre tendono a usare il pubblico in modo del tutto privato».
Alla lunga distanza c´è da chiedersi perché domande così radicali non abbiano
trovato allora molti interlocutori, e in larghi settori dell´opinione pubblica
siano state poi sepolte dall´illusione in una salvifica "seconda Repubblica".
Quella illusione ha lasciato un retrogusto amaro e viene alla mente quel che
Guido De Ruggiero scriveva nel 1944, nella Roma più precocemente liberata:
attorno a sé scorgeva infatti i segni di "un regime in sfacelo più che di una
democrazia in divenire". Così ci appare oggi anche l´Italia dei primi anni
Novanta e c´è da riflettere a fondo non solo sui processi che hanno attraversato
in questi ultimi quindici anni il sistema politico ma, più ancora, su quelli che
hanno attraversato l´intero paese.
Guido Crainz
Repubblica 27.12.08