La cognatite
Giancarlo Tulliani e non solo: il cognato di Fini e tutti gli altri. Ad esempio il cognato di Bertolaso, così bravo, che mica lo si poteva discriminare non facendolo lavorare negli appalti del G8. E poi i cognati della Protezione civile tutti, presi in carico dal volenteroso catering della ditta Anemone: a qualcuno serviva la Mercedes, a qualcun altro la casetta. E poi il cognato di Mauro Masi, sistemato al Salaria Sport Village: diamine, mica lo si poteva lasciare senza stipendio. I cognati della politica, vecchi e nuovi: il mitico Paolo Pillitteri sindaco della Milano del Garofano, e Gabriele Cimadoro, in Parlamento con Antonio Di Pietro: statisti e giganti rispetto ai casi umani della politica di oggi.
La «cognatite» diventa dunque la malattia senile della Seconda repubblica, il segnale della decadenza e della nuova vulnerabilità del potere. Qualsiasi cosa abbia fatto Fini per Giancarlo (così come prima di lui Gaucci), abbiamo la certezza di azzardare un pensiero garantista: per se stesso non l’avrebbe fatta. Il cognato è il debito che devi pagare all’amore che ritrovi, è il caso umano della nuova famiglia che non si può lasciare indietro, il bamboccione da assistere per essere accettato. Insomma, un rito di iniziazione, nella nuova tribalità del tempo gelatinoso. Politici, amministratori e leader educati alla spietatezza, si sciolgono in burro di fronte alla parentela acquisita, che diventa cambiale da pagare. Anche il genero non si riceve in dote dal sangue, ma si acquisisce. Memorabile, su tutte, la micidiale freddura con cui Benito Mussolini rispose ai nazisti, inviperiti per la politica di alleanze di Galeazzo Ciano: «Ma quale ministro degli Esteri? Quello è mio genero!». Ecco, nel paese del familismo amorale, il familismo acquisito è l’ultimo fastidioso pedaggio per loro. Un costo sociale per noi.
Luca Telese Il Fatto Quotidiano
9/8/2010