LA CHIESA TRA POTERE ED INVADENZA
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Non ho mai perdonato alla riforma liturgica conciliare di avere "tagliato" le
due frasi con le quali cominciavano le messe in latino: "Introibo ad altare Dei,
ad Deum qui laetificat juventutem meam: mi avvicinerò all'altare di Dio, al dio
che rende allegra la mia giovinezza". Quelle frasi esprimevano bene la
convinzione che la fede nel Cristo dona ai fedeli gioie che neppure la vecchiaia
può cancellare. Papa Giovanni, il suo sorriso, il suo coraggio ne furono la
dimostrazione visibile. Per lui, e poi per il Concilio, la Chiesa era il luogo
in cui risuonavano non solo i gemiti del Crocifisso ma anche la festa senza fine
della sua resurrezione. Questa pienezza di vita, che dovrebbe illuminare di
speranza anche i giorni delle tragedie personali o collettive, risuona, del
resto, in tutto il vangelo. "Non temete" è il messaggio degli angeli e del
Risorto. Negli Atti degli apostoli le fragili navicelle dei missionari sono
squassate dalle tempeste ma non distrutte, i naufragi - e addirittura le
persecuzioni – si tramutano in occasioni per portare il vangelo in paesi scelti
dalla Provvidenza contro ogni progetto umano. Senza potere terreno, la Chiesa
dei santi riluce nei secoli di ferro e di buio. E' da quando la croce venne
posta sulle bandiere dei re, sugli scudi degli eserciti, sulle copertine dei
codici che quella luce viene spesso ferita dalle ombre della insicurezza, da un
profano timore. Anche oggi la Chiesa (la mia Chiesa) appare, almeno nei pastori
che la presiedono in Italia, ma anche nel papa tedesco, dominata da una fonda
paura che anziché a un luogo di fraterna accoglienza la riduce a una fortezza
assediata dai barbari. Più che alla infinita ricchezza delle forme in cui il
Regno di Dio è già presente sulla Terra, lo sguardo dei vescovi sembra
concentrarsi sulla fragilità mondana dell'apparato ecclesiale. L'integrità della
fede sembra loro vulnerata dalle sfide poste dal futuro e dalla secolarizzazione
a questa struttura. "A un tuo cenno, a una tua voce, un esercito all'altar"
cantavano le masse cattoliche, gremendo piazza San Pietro nel dopoguerra. Quell'esercito
è andato di gran lunga assottigliandosi, ma abbiamo giustamente irriso per più
di mezzo secolo la stolida domanda di Stalin: "Quanti battaglioni ha il papa?".
Una paura che ponesse oggi lo stesso interrogativo potrebbe dirsi cristiana?
Ritorna nel magistero di questi anni la predicazione dell'inferno, si negano
funerali religiosi a persone martirizzate da orrende malattie, e soprattutto si
tenta, con un'incessante campagna mediatica, di impedire che lo Stato (laico per
definizione) migliori la situazione giuridica di una non piccola minoranza di
cittadini. Per i vecchi come me, si tratta di ritorni a fasi storiche che
avremmo voluto dimenticare. Non abbiamo vissuto gli anni della spietata lotta di
Pio X al modernismo né quelli dei concordati con il fascismo e il nazismo, ma
ricordiamo bene la scomunica decretata dal Sant'Offizio (fine degli anni '40
del secolo scorso) per milioni e milioni di italiani - borghesi, ma anche, e
soprattutto, poveri operai e poverissimi contadini – assetati di giustizia;
pensiamo ai primi anni '50 in cui Carlo Carretto e Mario Rossi erano espulsi
dall'Azione cattolica per "deviazionismo" democratico, Luigi Gedda dichiarava
che "la Chiesa si salva con l'organizzazione" e De Gasperi e monsignor Montini
venivano puniti da Pio XII per il loro NO ad accordi elettorali con i fascisti,
i qualunquisti e i monarchici; pensiamo alla “normalizzazione" post-conciliare
con l'inquisizione e la rimozione dalle cattedre di teologi e teologhe; alla
dura battaglia per la soppressione del divorzio in cui alcuni di noi ebbero la
carriera professionale stroncata dal potere profano di ecclesiastici vaticani;
mentre negli anni appena scorsi siamo stati costretti ad assistere alle scelte
elettorali di Ruini, a Roma, ma anche vaticane: sì a Storace, sì a Berlusconi,
sì alla Moratti, sì a Casini, protettori dei redditi di scuole e cliniche
cattoliche, sì agli atei "devoti" pronti a incensare il ruolo della Chiesa nel
"contenimento" dell'Islam per averla compagna di battaglie di civiltà....
La ricerca di sicurezze terrene ha, del resto, reso talvolta affannoso il respiro della Chiesa e ferito crudelmente il suo amore comunitario anche in altri paesi: dalla lotta, in Francia, alla Nouvelle Théologie ai delitti nelle adiacenze dello IOR, all'ossessione anticomunista che ha portato papa Wojtyla a demolire buona parte delle realtà cattoliche in America Latina: la tolleranza per i vescovi argentini complici della dittatura e la spietata condanna all'isolamento di monsignor Romero, il dito ammonitore levato su Ernesto Cardenal e la mano stretta a d'Aubuisson, notorio mandante dell'assassinio del vescovo martire...
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Tristi vicende di una Chiesa semper reformanda e semper casta et meretrix,
secondo i suoi Padri: sempre santa perchè congregata intorno al Signore Gesù e
sempre meretrice perchè fatta di uomini con le loro miserie, le loro paure, le
loro incomprensioni. Ed è un fatto che dovunque la gerarchia ecclesiastica ha
indurito la sua disciplina e ha preteso, in vari modi, di porre nella società
laica, il suo magistero come fonte assoluta ed esclusiva garanzia di autenticità
dei valori morali, lì, crescendo la distanza fra il vangelo e la sfida portata
agli "altri", è stato inevitabile che la sua voce si facesse (come dire?)
"sgraziata", e ne scadesse la dignità. Ricordo il vescovo di Prato, Fiordelli,
che nel 1958 faceva leggere in tutte le sue chiese una notificazione in cui due
giovani che avevano scelto il matrimonio civile venivano bollati come "pubblici
concubini"; ricordo Amintore Fanfani -vicinissimo a monsignor Benelli,
segretario di Stato - gridare, in chiusura della campagna per l'abrogazione del
divorzio: "Donne, badate: i vostri mariti scapperanno con le serve di casa!"...
Tempi lontani? Mica tanto se il nuovo presidente della Conferenza episcopale
italiana cita la possibilità della legalizzazione dell'incesto e della pedofilia
come possibili conseguenze del lassismo morale che, secondo i vescovi,
avvelenerebbe anche la legge sulle convivenze. Dichiarazione poi smentita,
secondo l'esempio di Berlusconi, il quale, contestato, guaisce (o ringhia) :
"Avete frainteso!".
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Quando una persona di buona volontà entra in politica, porta dentro di sé un
sogno che va molto al di là delle finalità che si propone il partito al quale
aderisce. Il suo sogno ( ripeto che parlo di persone di buona volontà!) è quello
di riuscire a cambiare radicalmente il mondo, costruire una realtà, locale o
universale, che elimini tutto ciò che gli pare male e realizzi tutto il bene che
gli sembra necessario. Ma in democrazia è indispensabile tradurre i sogni in
leggi ed ottenere su di esse il consenso della maggioranza. E' un lavoro duro e
difficile, particolarmente per chi è portatore di ideali cui è sensibile
soltanto una parte dei cittadini. Ho vissuto anch'io questo dramma in dieci anni
di vita parlamentare: il mio sogno e la volontà della maggioranza degli elettori
molto spesso divergevano. (Divergevano, anche, molte mie scelte, da quelle di
altri cattolici). La Costituzione afferma che il parlamentare non può avere
vincoli di mandato; vuol dire che il deputato e il senatore devono votare
sempre in piena libertà di coscienza, senza accettare pressioni. Per fare
politica o per far fermentare la società in senso cristiano non è necessario
entrare in parlamento e neppure in un partito; ci può essere la via della
missione evangelizzatrice, del sacerdozio, dell'apostolato, della umile ma
preziosa testimonianza di vita, e persino (parlo seriamente) della profezia; ma
se si sceglie una tribuna "laica" se ne debbono accettare lealmente le regole.
Il problema del parlamentare cattolico è dunque quello di esercitare una
continua mediazione fra la sovranità popolare e i propri ideali in un luogo
creato per il dialogo e non per lo scontro, per la collaborazione e non per la
rissa delle ideologie, per utopie che si trasformino in capacità di costruzione
collettiva. I cattolici deputati alla Costituente seppero farlo mirabilmente.
Rispettare le competenze dei parlamentari e la loro vocazione (quando c'è)
dovrebbe essere anche oggi impegno di tutti.
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La gerarchia ecclesiastica tradirebbe la sua missione se non levasse alto il
vangelo, proponendolo all'intera società; e però la storia mostra quanto
frequenti siano i rischi di questa missione: non solo quando la Chiesa la
eserciti, spesso eroicamente, in regimi atei o totalitari, ma anche quando la
eserciti in regimi democratici. La lettura e le interpretazioni dei "segni dei
tempi", per esempio, non sono competenze esclusive del suo magistero, anzi,
talora, nella storia, i vescovi hanno rivelato sconcertanti sordità e
confusioni: penso a come la Chiesa gerarchica ha perso la classe operaia nel
secolo XIX, negando ai poveri il diritto alla giustizia per non deporre i
privilegi che la assimilavano alla classe padronale. Oggi le tentazioni che si
pongono alla comunità cristiana sono più raffinate: molti sedicenti amici (atei
"devoti") le chiedono di trasformarsi in lobby, di non essere sale e lievito
nella massa ma blocco di lievito inerte, muraglia di sale scipito. Forze
politiche e uomini di potere che in cuor loro ritengono il messaggio del Cristo
una follìa si offrono di essere il suo braccio secolare nelle istituzioni, Non
basta: viviamo anni di confusione di valori, di sensibilità e anche, purtroppo,
di ostilità per chi propone un'etica senza compromessi; la sensibilità nella
comunicazione ecclesiale dovrebbe essere dunque particolarmente attenta; si ha
invece la sensazione che molti fra i più importanti ecclesiastici abbiano perso
il contatto con la realtà culturale: se Benedetto XVI, dovendo scegliere un
esempio di violenza religiosa, indica l'Islam invece delle crociate, se la
Chiesa concede funerali religiosi a Pinochet e li nega a Welby; se la continua
reiterazione (per non dire l'ossessività) di interventi contro la
“legalizzazione" delle famiglie "di fatto" contrasta con la penuria - o almeno
l'episodicità - di interventi contro peccati "sociali" come la feroce inutilità
della guerra (e dunque la necessità di un forte pacifismo cristiani), la
frequenza delle morti nei cantieri e nelle fabbriche o gli inquinamenti mafiosi
nella politica; se il Vaticano preferisce venire a patti con i seguaci di
Lefebvre, l'Anticonciliarista, piuttosto che entrare in dialogo fraterno con Jon
Sobrino, il teologo dei poveri; se tutto questo accade, l'opinione pubblica,
piuttosto che contemplare il mite, amorevole volto del Cristo, vede e sente
estranea, antipatica (ma sì, diciamolo l'aggettivo) una istituzione che le pare
invadere la sfera del privato e del pubblico, in nome di una volontà di potere e
di una serie di precetti formali, soprattutto sessuofobici. La maggioranza degli
italiani dichiara, nei sondaggi, di avere fiducia nella Chiesa ma piuttosto che
al magistero si riferisce alla straordinaria (e talvolta eroica) rete di servizi
tessuta dal volontariato cattolico.
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Anche oggi (4 aprile) una nuova bordata della CEI contro le cosiddette famiglie
di fatto. Mi colpisce la reiterata violenza nel giudizio dei vescovi. A me pare,
intanto, che vi sia convivenza e convivenza, e non poche esprimano un'affettuosa
solidarietà in cui si possono rinvenire tracce ( e talvolta ben più che tracce)
di amore cristiano. Del resto, quando Gesù, assumendo su di sé anche il loro
strazio, affidò Maria a Giovanni e Giovanni a Maria, non diede origine a una
famiglia di fatto? E non esistono sulla Terra più di un milione di persone, a
stare alle statistiche vaticane, che (frati, suore, seminaristi, membri di
istituti secolari) rivendicano con amorosa fierezza, per le loro convivenze, il
nome di "famiglie religiose"? E al momento del Concordato non ha chiesto, e
ottenuto per esse la Santa Sede che lo Stato italiano concedesse loro apposite
normative?
Il fatto è che i vescovi temono particolarmente due pericoli. Il primo è quello che si vada verso il riconoscimento di vincoli matrimoniali fra omosessuali. Avendo dato origine a un sacerdozio celibatario, la cui formazione avviene in istituti mono-sessuali, la Chiesa cattolica romana si trova in effetti a dover fronteggiare, nei suoi stessi ambienti, un problema reale e scabroso. Questa percezione ha generato una vera e propria omofobia, la quale impedisce una serena valutazione della legge sulle cosiddette DICO, che a molti (me compreso) appare nello stesso tempo assai ponderata. E la durezza espressa dai vescovi, certamente al di là delle proprie intenzioni finisce per apparire ben poco evangelica: fossero pure, gli omosessuali, dei "devianti", come dimenticare la misericordia con la quale Gesù dichiara: "Non spezzerò la canna fessa né il lucignolo fumigante"?
Il secondo pericolo avvistato dai vescovi mi sembra il seguente: che una legittimazione delle coppie "di fatto" finisca per negare al matrimonio una condizione di privilegio, mentre si perderebbe lo stigma sociale che ancora oggi colpisce le unioni "irregolari". Questo concorrerebbe a una crisi della famiglia "naturale" e in particolar modo di quella cattolica. Vale qualcosa la testimonianza di una coppia che ha celebrato il 51.mo anniversario del suo matrimonio cattolico; di uno scrittore che ha girato per anni tutte le regioni italiane - nessuna esclusa - in un'attività di cosiddetto apostolato sociale; di un giornalista che ha condotto inchieste approfondite sull'argomento? Se sì, allora vorrei dire sommessamente ai vescovi che è vero che la fedeltà coniugale è spesso aggredita da un diffuso lassismo morale ma i prevalenti pericoli per la famiglia (cattolica e no) nascono da altre realtà. Se i giovani, a causa delle politiche governative che consentono un andamento selvaggio del mercato immobiliare non riescono a "mettere su casa"; se il precariato che impera nel mondo del lavoro impedisce loro di ricorrere ai mutui bancari; se i salari italiani sono i più bassi dell'Europa occidentale; se la situazione degli asili e delle scuole è vergognosa; se il caos del traffico e dei trasporti pubblici priva centinaia di migliaia di padri di una autentica presenza in famiglia; se la pressione consumista è così forte e devastante, è ovvio che la famiglia sia resa più fragile; ma anche su questi fenomeni la voce dei vescovi si è espressa saltuariamente e fievolmente o almeno con forza e frequenza del tutto dissimili alla presente offensiva mediatica. Su di essi i cattolici non sono mai stati chiamati in piazza. Ne parleranno al cosiddetto Family Day?
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Naturalmente sono vere molte altre cose: per esempio, che non raramente ai
documenti della CEI viene concesso dai media attenzione mediocre quando non
esigua, essendo presente nella borghesia italiana una rimarchevole corrente
anticlericale; che gli echi di questa inopinata battaglia vengono grandemente
ampliati da giornalisti al servizio di quei politici che vedono il progetto
delle DICO come una promettente pietra d'inciampo per il governo Prodi; che i
DICO appaiono a molti cattolici un'ulteriore forma di mutamenti sociali che
sgretolano il conforto di antiche certezze. Vero è anche che fra i cattolici
regna una profonda ignoranza sui termini ecclesiologici; per cui il dibattito
sulla vicenda è rozzo, elementare: molti non ne capiscono le valenze, molti sono
convinti che un saluto del Papa ai pellegrini domenicali abbia lo stesso valore,
la stessa cogente importanza di un'enciclica. Questo comporta la pratica
inesistenza di un dialogo nella Chiesa italiana. Il silenzio degli intellettuali
laici aumenta a dismisura l'isolamento dei pastori. E' talvolta un vero e
proprio tradimento...
Dico questo perché papa Giovanni ci ha insegnato che non si può battere il confiteor sul petto altrui. La Chiesa non è una realtà di "quadri", la Chiesa siamo (anche) noi. Anche noi ne siamo responsabili. Lasciatemi dire che vedo non pochi fratelli e sorelle nella fede quasi rattrappiti in una dolorosa depressione, resi vecchi dalla convinzione che il Concilio sia ormai da considerare lettera morta e che tentare di collaborare con i vescovi tenendo dritta la schiena sia troppo scomodo e vano. In questa festa di passaggio e di resurrezione, vorrei che questi uomini e donne di buona volontà sentissero che Dio, qualunque sia la nostra età anagrafica, rallegra ancora la nostra giovinezza.
Ettore Masina LETTERA 122 (marzo/aprile 2007 - dicembre 2006)