La Chiesa tace sul natale ariano di Coccaglio

Quest'anno la mangiatoia del presepio sarà vuota. Il Bambinello, eterno immigrato clandestino,
sceso dalle stelle nel ventre di una fanciulla illegale, non sposata, nato in una stalla in terra straniera,
deposto in una mangiatoia, è stato sequestrato dall'operazione White Christmas, Bianco Natale,
della giunta leghista di Coccaglio.

Erode a suo tempo arrivò assai tardi. La mangiatoia aveva avuto il tempo di accogliere il neonato
destinato a rubare al re il trono e le ricchezze. Fece una strage di bambini ma il clandestino non
c'era più. Ora si è fatto molto furbo e ha pensato bene di agire in modo preventivo.
Il Natale quando arriva ha da essere libero da tutti i clandestini. «Perché - come afferma l'Assessore
alla sicurezza del piccolo comune bresciano, Claudio Abiendi - Natale è una festa della tradizione
cristiana, della nostra identità, non la festa dell'accoglienza». «Segno di un'intolleranza parossistica»
commentano i responsabili della Caritas. Senza però dire una parola, né loro né altri prelati sempre
pronti a intervenire nell'ambito politico per difendere gl'interessi dell'etica oltre che della borsa, sul
significato etico del Natale come festa che si oppone agli ingabbiamenti nazionalistici.

La mia riflessione s'imbatte in contraddizioni assai evidenti, lo so bene. Il Natale cristiano è
storicamente e teologicamente «cattolico» che vuol dire universale, ma la sua è l'università
imperiale. Il battesimo dell'universalità lo ha avuto da Costantino e resta impresso nella struttura
sacrale profonda.
Allora chiedo che dalla padella del nazionalismo gretto leghista si torni alla brace
dell'universalismo imperiale che impone a tutti per legge la simbologia cristiana, compreso il
presepio e il crocifisso?
Raddrizziamo dunque il senso del discorso. E proviamo a vedere e vivere il Natale come
«accoglienza» della maternità, del «dare vita».
Forse lo stesso racconto della natività che leggiamo
nel Vangelo più che un racconto storico è l'eco del senso del rifiuto ancestrale che la società «bene»
di ogni tempo oppone alla maternità nei suoi valori più alti, al «dare vita» non solo in senso
biologico ma in senso culturale ed esistenziale. La cultura patriarcale sfrutta, come si sa bene, la
donna, la sua capacità biologica di dare vita, ma rifiuta la cultura femminile della maternità.
E così
Maria si trovò a partorire in una stalla perché «per lei non c'era posto nell'albergo». Ma nel Vangelo
c'è anche il senso dell'accoglienza verso la vita che nasce espresso da realtà emarginate dalla stessa
società «bene», ad esempio i pastori.

E questo dell'accoglienza verso la maternità è oggi un problema particolarmente grave poiché il
senso della vita si fonda sul possesso, sul danaro, sul successo individuale, sulla competizione di
tutti contro tutti, sull'avere anziché sull'essere, fino a poter dire estremizzando un po' che la società
in cui si realizza oggi la maternità è dominata dalla tendenza a dare la morte piuttosto che la vita.

Per cui le madri, costrette ad andare contro corrente per dare vita in senso pieno, si sentono un po'
straniere tutte e non solo quelle che vengono qui da paesi lontani. Le madri sono coccolate, gli si
danno sussidi e sostegni, ma sono poco più che contentini perché la loro vita si fa sempre più
difficile.
Le madri, anche quelle di Coccaglio, si sentono e sono tutte «straniere/migranti». Dare la vita è
un'esperienza che pone in condizione obiettiva di estraneità rispetto alla cultura dell'alienazione,
dell'esclusione, della guerra, e al tempo stesso dare la vita è dare impulso alla transizione (la
migrazione) sognata e voluta da tante e da tanti verso una cultura della vita, della nonviolenza, della
pace universale.
L'emersione della cultura femminile, il «dare vita», il sognare un mondo in cui «il bambino lattante
possa stendere la sua mano nella tana della vipera» (la profezia di Isaia), l'affermarsi della
soggettività femminile in ogni ambito della società, sono la nostra principale risorsa. Il Natale in
questo senso è donna.

Buon Natale.

don Enzo Mazzi      il manifesto  22 novembre 2009

 

 

Chi vogliamo essere

Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? La domanda, antica, può produrre pensiero
profondo oppure ottusità, veggenza oppure cieco affanno.

Ci sono momenti della storia in cui la domanda secerne veleni, chiusura all’altro. Uno di questi
momenti fu la vigilia delle prima guerra mondiale: nella Montagna incantata, Thomas Mann parla
di Tempi nervosi. Anche oggi è uno di questi momenti. La fabbricazione di un’identità con ferree e
univoche radici è piena di zelo in Francia, Inghilterra, e nervosamente, astiosamente, in Italia. In
Italia un partito xenofobo è al governo e addirittura promette «Natali bianchi», liberati dagli
immigrati che saranno scacciati - parola del sindaco di Coccaglio, presso Brescia - profittando dei
permessi di soggiorno in scadenza.
Come in certi film tedeschi (Heimat, Il Nastro bianco) è un
villaggio-microcosmo che genera mostri. Genera anche irrazionalità, come ha spiegato un medico
del lavoro di Bologna, Vito Totire, in una bellissima lettera inviata il 19 novembre al direttore della
Stampa: non sono gli italiani a compiere oggi le bonifiche dell’amianto, «ma gli immigrati, per
pochi euro, in condizioni di sicurezza incomparabilmente migliori di quelle di anni fa ma non del
tutto immuni da rischi».
In Francia un collettivo sta preparando un giorno di sciopero, intitolato «24 ore senza di noi»: quel
giorno gli immigrati resteranno a casa, per mostrare cosa accadrebbe se smettessero di lavorare e
consumare.

Ma non sono solo economiche, le ragioni per cui l’immigrato è prezioso, indispensabile.
Specialmente in Italia ha una funzione più segreta, più vera. Gli immigrati anticipano la risposta alle
tre antiche domande, prefigurando quel che saranno in avvenire i cittadini italiani. Sono un po’ i
nostri posteri, che contribuiranno a forgiare la futura identità dell’Europa e delle sue nazioni.
Saremo quel che diverremo con loro, mescolando la nostra cultura alla loro. D’altronde le radici
d’Europa son fatte da Atene, Gerusalemme, Roma, Bisanzio-Costantinopoli. Il culmine della civiltà
fu raggiunto dalla res publica romana: un impasto meticcio di molte lealtà.
Gli immigrati, nostri posteri, sono proprio per questo scomodi. Perché entrando nelle nostre case ci
porgono uno specchio in cui scorgiamo quel che siamo, il senso del diritto e della giustizia che
stiamo perdendo
. Esistono comportamenti civici che l’immigrato, accostandosi all’Europa con
meno stanchezza storica, fa propri con una naturalezza ignota a tanti italiani.

Gli esempi si moltiplicano, e quasi non ci accorgiamo che la nostra stanchezza è rifiuto di preparare
il futuro, e generalmente conduce al collasso delle civiltà. Il regista Francis Ford Coppola,
intervistato per La Stampa da Raffaella Silipo e Bruno Ventavoli (19-11) descrive il possibile
collasso: «Amo l’Italia ma mi rende triste. Perché è un paese in cui i padri divorano i figli, si
prendono tutto senza lasciar nulla e i giovani devono andarsene per avere un’opportunità».

È significativo che lo dica un italo-americano, nipote di nostri emigranti. Che evochi, con
l’immagine dello sbranamento cannibalico, una crudeltà radicale verso il prossimo: la crudeltà del
padre che usurpa figli e futuro, convinto che fuori dal suo recinto non c’è mondo.
Anche Stefano
Cucchi, il ragazzo pestato a morte il 16 ottobre nei sotterranei di un tribunale a Roma, è un figlio
sbranato. In alcune parti d’Italia la vita non vale nulla, uccisa dall’apatia ambientale più ancora che
dalla lama. Anche qui, come nei lavori pericolosi, l’immigrato agisce spesso al nostro posto, con
funzione vicaria. Nel caso di Cucchi c’è un unico testimone, anche se parla confuso: un immigrato
detenuto del Ghana, addirittura clandestino, che rischia tutto rivelando la verità.

Allo stesso modo sono immigrati africani a insorgere contro camorra e ’ndrangheta. Prima a Castel
Volturno, il 19 settembre 2008, dopo una carneficina che uccise sei cittadini del Togo, Liberia,
Ghana. Poi il 12 dicembre 2008 a Rosarno, presso Reggio Calabria, dopo il ferimento di due
ivoriani. Regolari o clandestini, gli immigrati hanno una fede nello Stato di diritto che gli italiani,
per paura, rassegnazione, sembrano aver smarrito. Roberto Saviano rese loro omaggio: «Le due più
importanti rivolte spontanee contro le mafie, in Italia, non sono partite da italiani ma da africani. In
dieci anni è successo soltanto due volte che vi fossero, sull’onda dello sdegno e della fine della
sopportazione, manifestazioni di piazza non organizzate da associazioni, sindacati, senza pullman e
partiti. (...) Nessun italiano scende in strada». (Repubblica, 13-5-2009).
Ci sono video che dicono queste cose inconfutabilmente. Il video che ritrae l’indifferenza di decine
di passanti quando venne ucciso, il 26 maggio, il musicista rumeno Petru Birlandeanu, nella
stazione cumana di Montesanto. Il video che mostra l’assassinio di Mariano Bacioterracino, lo
svaligiatore di banche ucciso l’11 maggio da un camorrista a Napoli. Anche qui i passanti son lì e
fanno finta di niente. Difficile non esser d’accordo con Coppola: l’Italia mette tristezza, e a volte in
tanto buio non ci sono che gli immigrati a emanare un po’ di luce.

Ai potenti non piacciono i film noir sull’Italia. Roberto Maroni, ad esempio, ha criticato la
diffusione del video su Bacioterracino, predisposta dal procuratore di Napoli Lepore con l’intento di
«scuotere la popolazione che per sei mesi non si era mossa». Insensibile alla pedagogia civica del
video, il ministro s’indigna: «Hanno dato l’idea di una città, Napoli, ben diversa dalla realtà».
D’altronde fu sempre così, nella storia della mafia.
Nel 1893, quando in un treno che lo portava a Palermo fu ucciso Emanuele Notarbartolo, un uomo
onesto che combatteva la mafia nel Banco di Sicilia, il senatore mandante fu infine assolto perché
non si voleva trasmettere un’immagine ignobile della Sicilia e dell’Italia. Durante il fascismo, il
prefetto Mori combatté una battaglia che molti - nel regime, nei giornali - interpretarono come
denigrazione della patria. Cesare Mori fu allontanato perché non imbelliva la nostra identità ma
l’anneriva per risanarla.
Dice ancora Coppola che un film come Gomorra l’infastidisce. Non racconta una storia, tutto è
freddo, terribile: «E’ spaventoso vedere Napoli rappresentata con tanto realismo. Quei delinquenti non sono più esseri umani».

È vero, il film non è fascinoso e chiaro come il Padrino. È inferno,
caos. Ma è tanto più reale. Viene in mente Salamov, il detenuto dei Gulag, quando critica il crimine
troppo imbellito da Dostoevskij, «falsificato dietro una maschera romantica» (Salamov, Nel Lager
non ci sono colpevoli, Theoria 1992).
Tra Dostoevskij e Salamov c’è stato il Gulag, che solo una «scrittura simile allo schiaffo» può narrare.

Tra Coppola e Gomorra c’è il filmato che ritrae Bacioterracino atterrato senza schianto. È
ancora Saviano a scrivere: «Il video decostruisce l’immaginario cinematografico dell’agguato. Non
ci sono braccia tese a impugnare armi, non ci sono urla di minaccia, non c’è nessuno che sbraita e si
dispera mentre all’impazzata interi caricatori vengono riversati sulla vittima inerme. Niente di tutto
questo. La morte è fin troppo banale per essere credibile. L’esecuzione è un gesto immediato,
semplice, poco interessante, persino stupido. Ma è la banalità della scena, quella assurda serenità
che la circonda e che sembra ovattarla e relegarla al piano dell’irrealtà, che mette in dubbio
l’umanità dei presenti. Dopo aver visto queste immagini è difficile trovare giustificazioni per chi
ritiene certi argomenti diffamatori per Napoli e per il Sud»
.
Le tre domande dell’inizio restano. Impossibile rispondere, se la realtà del nostro divenire non la
guardiamo assieme agli immigrati.
Se non vediamo che non solo per loro, anche per noi e forse
specialmente per noi valgono i versi di Rilke: «Ogni cupa svolta del mondo ha tali diseredati, cui
non appartiene il passato né ancora il futuro più prossimo. Poiché anche il più prossimo è lontano
per l’uomo».


Barbara Spinelli     La Stampa  22 novembre 2009