La Chiesa eviti di
omologarsi
Il peso della Chiesa cattolica nella storia italiana è tale e tanto che da
sempre chi vuole capire la
società, la sua evoluzione politica, le sue caratteristiche più profonde deve
farci i conti. E
giustamente Giuseppe De Rita ci invitava a farli, ponendo il problema del modo
in cui la Chiesa
«competerà» con altre agenzie su alcuni nodi del nostro futuro. Anche De Rita,
però, mi pare,
concede troppo all'idea largamente diffusa che la Chiesa in fondo sia una
componente significativa
politicamente, attiva e unitaria, capace di produrre intenzionalità sociali che
discendono, per via
gerarchica o per un comune patrimonio culturale, dall'alto verso il basso e
vengono ripompate
all'insù dal successo. Questa «azione cattolica» avrebbe dunque la forza di
anticipare o causare
processi politici e sociali, suscitando in alcuni l'eccitazione di chi sta
vincendo e in altri l'irritazione
di chi chiama ogni sospiro ingerenza. Una lettura molto usata perché produce un
risultato
apparentemente esatto — il classico zero delle equazioni che si facevano a
scuola — ma che al
fondo nasconde il punto più cruciale del rapporto Chiesa-società in Italia.
Nella storia italiana,
infatti, la Chiesa non è prima di tutto o soltanto il medico delle cose che essa
giustamente lamenta,
ma molto spesso ne è parte attiva o addirittura la causa. E gran parte dei
problemi di questo Paese
— non era questo il tormento tragico del papato di Paolo VI, chiuso non a caso
dal tentativo
disperato e fallimentare di salvare Moro? — rimangono e rimarranno irrisolti e
irresolubili finché la
Chiesa italiana non avrà il coraggio tutto spirituale di guardare alla propria
condizione e alla propria
azione. Cerco di spiegarmi usando i nodi (tutt'altro che nuovi, direi) che De
Rita indica: il
radicamento, i giovani, la fede. Se su questi punti i partiti, le famiglie, le
comunità misurano oggi
una drammatica impotenza è anche per una mancanza che la Chiesa — a differenza
dei partiti o
della scuola — non può rovesciare ideologicamente o moralisticamente fuori da
sé. Essa— nella
sua infinita varietà di sensibilità e pensieri, di culture e di spiritualità —
non ha bisogno di
menzogne autoindulgenti, di voti, di sondaggi: e dunque può guardare alla sua
parte di
responsabilità in una luce serena di verità e di fede. Il cattolicesimo
ramificato (certo non più
ramificato oggi di ieri!) si scontra oggi anche con i propri errori di
valutazione. Nel formarsi di una
coesione sociale basata sulla paura — paura dello straniero, dello zingaro, del
non-cristiano — la
Chiesa stessa ha creduto che l'eroismo individuale o l'organizzazione delle
Caritas fossero
sufficienti. Risultato? I vescovi si sono svegliati in città dove il razzismo si
è rilegittimato, incerti
fra una protesta che li metterebbe di nuovo all'opposizione e una passività
inaccettabile. Nello
sradicamento dei partiti tanta parte di Cattolicesimo— non il cardinal Bagnasco
che proprio in
questi giorni lo lamenta — ha creduto che i propri vertici potessero competere
più e meglio con i
ceti chiusi della politica. Risultato? Neppure i movimenti oggi sono in grado di
esprimersi sul piano
sociale se non agitando nodi morali e bioetici con obiettivi che spesso sono
semplicemente bandiere
moderate. Il disorientamento giovanile (oggi davvero più forte di quello che
affrontò l'azione
cattolica degli anni Trenta o Settanta?) non riguarda un Paese nel quale la
Chiesa sbarca ora.
Quando si è deciso di spingere i movimenti a riempire le piazze come massa di
manovra per disegni
politici contingenti, quando si è preferito farsi cullare dalle minoranze
creative a caccia di appalti
nelle università e di sovvenzioni per le scuole, si è reagito alla putrefazione
culturale che oggi si
lamenta o la si è favorita? Quando si è deciso di dare al giovane clero la
prospettiva di restar parroci
nove anni, come fossero pretori a inizio carriera, anziché investirli dell'arte
della paternità si è fatto
il bene o il male dei giovani di cui si occupano, per non parlare della loro
anima? Ma è
sull'alternativa fra socialità e santità — anche questa tutt'altro che nuova—
credo che si colga bene
il cuore del problema. Per alcuni lustri la Chiesa italiana ha ridotto, se non
azzerato, il proprio
colloquio interno. Ogni scostamento tematico o di linea trovava subito
minacciose repliche,
sorridenti censure, abili tacitazioni: ne hanno sofferto prima di tutto i preti,
un poco i laici e non
meno i vescovi. Quella comunità che perfino negli anni della dittatura fascista
e poi in quelli della
egemonia ideologica era stata una immensa palestra di dialogo, di confronto, di
discussione, s'è
omologata ad una cultura politica semplificata e semplificante, convinta che le
tante isole di
anomala libertà interiore ed esteriore che la popolano bastino. E' un bel
risultato? Se fosse lecito
sperare qualcosa, verrebbe dunque da sperare che l'agenda di settembre della
Chiesa sfugga, per una
volta, ai tatticismi politicistici in cui s'è spesso impigliata o la si è voluta
rinchiudere. Verrebbe da
sperare che la Chiesa sappia volgersi ai grandi nodi pastorali della comunione,
della obbedienza, e
agli orizzonti profondi della Cattolicità. Se la chiesa non darà questo che è il
meglio di sé a questo
tragicomico Paese, le più infinite disperazioni, le più immonde astuzie, le più
interminate ingiustizie
rimarranno intatte e intangibili, cannibalizzeranno sanguinosamente la
dialettica democratica, con
esiti nefasti per tutti.
Alberto Melloni
Corriere della Sera 17 agosto 2008