La
chiesa, la verità, il potere
Cosa accade
quando la religione entra in conflitto con la democrazia la cui condizione
essenziale è la ricerca di convergenze
La riproposizione della religione in una dimensione civile ha sullo sfondo –
espresso o sottinteso – il motto dostoevskijano: «Se Dio non c´è, tutto è
possibile» che sintetizza l´atteggiamento etico nichilista di Ivan Karamazov,
esposto nel dialogo col fratello Alësha che introduce a Il grande Inquisitore
(un testo tutt´altro che irrilevante per i nostri temi). Di fronte all´anomia
che pervade la società, solo Dio, la sua religione e la sua chiesa darebbero
ragione del bene e del male, del lecito e dell´illecito. I credenti, rispetto ai
non credenti, godrebbero così di uno status di superiorità non solo morale ma
anche civile. Il cittadino per eccellenza sarebbe l´uomo di fede in Dio. Detto
diversamente: solo i credenti in Dio sarebbero capaci di atteggiamenti
eticamente orientati nei confronti dei propri simili e, in generale, nei
confronti del mondo. Dovremmo così dare ancor oggi ragione a Locke, quando
considerava i senza-Dio soggetti pericolosi, perché «inidonei a mantenere le
promesse»; a Dostoevskij perché incapaci di districarsi nel dilemma tra il bene
e il male?
L´argomento di Dostoevskij non è quello triviale, e in fondo immorale, del
premio o del castigo nell´aldilà per il bene e il male compiuti nell´aldiqua. È
invece l´argomento di Kirillov ne I Demoni: senza Dio tutto è permesso, perché
l´uomo stesso si fa Dio; e il demonio che visita Ivan Karamazov aggiunge che
«per Dio non esistono leggi». L´argomento di Dostoevskij è dunque quello della
superbia, del super-uomo: l´uomo senza-Dio sarebbe quello che vuol prendersi il
posto di Dio. Presso i moralisti cattolici, è proprio questo l´argomento
principe, usato per sostenere il valore civile della religione, come strumento
per arginare gli effetti distruttivi della libertà insolente di chi non
riconosce nulla al di sopra di sé. Ma è un argomento convincente?
Ha senso dire che chi nega Dio vorrebbe mettersi al suo posto? Se Dio non
esiste, non può essere questione di rimpiazzarlo. L´argomento della superbia sta
e cade con Dio e, se Dio non esiste, non vale più niente. Potrebbe essere
addirittura rovesciato: se si crede in Dio, si può credere ch´egli sia con noi,
Gott mit uns, e, su questa premessa, ci si può porre legittimamente al di là del
bene e del male, avendo Lui al proprio fianco.
Il «Dio è con noi» è la superbia in sommo grado e percorre tragicamente e
violentemente la storia dell´umanità fino ai giorni nostri: il ritornante
rovello dei capi religiosi, di come privare la fede in Dio della sua carica
violenta, è la riprova di un problema insoluto. Invece, chi non crede in Dio non
dispone di nessuna sicurezza a priori e sa che il compito dell´umanità di
districarsi nelle difficoltà della vita dipende da lui, insieme con gli altri.
L´etica della modestia e della responsabilità ha qui la sua radice e qui trova
un fondamento che a me pare più chiaro che non la fede in un Dio onnipotente e
provvidente.
In ogni caso, almeno questo è da concedere: la fede in Dio non è di per sé
garanzia di modestia, esattamente come la mancanza di fede in Dio non è di per
sé presupposto di necessaria superbia. Tutti sono a rischio e nessuno può
vantare assicurazioni, mentre la disistima verso i non-credenti in Dio, che quel
motto dostoevskijano porta nascosto in sé, è propriamente e precisamente un
frutto di quella superbia che vorrebbe condannare.
Solo Dio e la Chiesa darebbero ragione del bene e del male
L´utilità o la pericolosità della religione come rimedio contro le tendenze
sociali auto-disgregatrici dipende forse anche dalla sua auto-comprensione, come
religione della verità o come religione della carità. Il dilemma è
particolarmente vivo per il cristianesimo, nato originariamente, nelle prime
piccole comunità, come religione della carità (il discorso della montagna e i
primi due comandamenti: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta
la tua anima e con tutta la tua mente» e «Amerai il prossimo tuo come te
stesso»: Mt 22, 37-37), quando la verità («Io sono la verità»: Gv 14, 6) era non
un complesso di proposizioni teologiche né, tanto meno, teologico-politiche, ma
semplicemente il riconoscimento e la confessione di Gesù, il Cristo.
Progressivamente, però, il Cristianesimo è venuto istituzionalizzandosi come
religione della verità, capace, attraverso l´uniformità di un apparato
dogmatico, teorico e organizzativo, sempre più complesso, di tenere insieme
vaste comunità di credenti, in comunione-confusione-competizione con il potere
politico, quando il rapporto puramente d´amore, efficace nelle piccole cerchie,
non bastava certo più a garantire l´unità. Le due concezioni del legame
comunitario della fede coesistono dialetticamente e la loro tensione rappresenta
uno dei fili conduttori della stessa storia della Chiesa nei secoli. Ora, la
questione da porre è se questa distinzione sia rilevante nella discussione circa
il valore della religione, in particolare di quella cristiana, come tessuto
connettivo spirituale della vita sociale. L´ipotesi da considerare è se non sia
propriamente l´odierna insistenza sulla verità l´elemento che, nelle società
pluraliste attuali, crea divisioni e conflitti mentre le cose andrebbero
all´opposto se l´accento cadesse sulla carità, capace invece di creare
solidarietà, legami e convergenze non solo tra i cristiani ma anche tra
cristiani e non cristiani. «La scienza gonfia; la carità, invece, edifica. Chi
crede di sapere qualcosa, senza la vera scienza testimoniata dalla vita, non sa:
viene ingannato dal serpente, non avendo amato la vita», dice splendidamente
l´anonimo autore della Lettera a Diogneto (XII, 5-6) del II secolo d. C.
In breve, c´è qui in nuce la contrapposizione tra l´arroganza della verità e
l´umiltà della carità. La prima - a dispetto di tutte le proclamazioni in
contrario da parte degli interessati - cerca la potenza e il potere, la seconda
ne rifugge e, essendo il potere essenzialmente conflitto, competizione e perfino
sopraffazione, si comprende facilmente come ogni religione della verità corre il
rischio di alimentare tutto questo.
La società democratica si fonda sull'autonomia dei suoi partecipanti
Con questo accenno alla religione della verità e alle sue inclinazioni, siamo
giunti alla questione del «disagio democratico».
Condizioni primarie di ogni concezione della democrazia, non strumentale a
poteri esterni che la usano come mezzo se e finché serve, sono la disponibilità
alla ricerca di convergenze e, se del caso, l´apertura al compromesso, in
condizioni di uguaglianza partecipativa. Su questo, non è il caso di insistere
qui. Ma è proprio con queste condizioni che ogni religione della verità è
potenzialmente in conflitto.
È in questione il numero due, inteso come unità divisa e come unità raddoppiata.
Cerco di spiegarmi.
L´appartenenza tanto alla cerchia dei cittadini quanto alla cerchia dei
credenti, ciascuna delle quali con le sue istituzioni, i suoi diritti e i suoi
doveri di status, le sue condizioni di inclusione ed esclusione, determina la
situazione che si denomina di «doppia fedeltà», una situazione che comporta
nella realtà una scissione dell´unità. La democrazia si basa sull´autonomia di
tutti i suoi partecipanti, autonomia che è un´offerta di disponibilità
reciproca. Quando questo presupposto viene incrinato, si ingenera il sospetto
degli uni verso gli altri, un sospetto distruttivo alla radice della convivenza
democratica. La religione della verità, al contrario, anche con sanzioni
ecclesiastiche, pretende obbedienza agli amministratori della verità, cioè alle
istituzioni ecclesiastiche, da parte di quelli che, non a caso, si chiamano i
«fedeli». Qui, può nascere il conflitto tra lealtà ai principi della sfera
politica e obbedienza ai dettami religiosi, per evitare il quale, sia pure in
tutt´altro contesto, Locke negava anche ai «papisti» (oltre che agli atei) il
diritto alla tolleranza (nel senso di essere tollerati). Si dirà: ma tutti noi
siamo il prodotto di tante appartenenze, della più varia specie (politica,
culturale, sindacale, professionale, ecc.) e ciò non genera problemi, anzi
arricchisce la democrazia. Sì, ma c´è una differenza tra queste appartenenze e
l´appartenenza a comunità dogmatiche che riservano a se stesse la gestione della
verità. Si dirà ancora: si è sempre liberi, quando lo si voglia, di uscire dalla
comunità dei credenti e riacquistare la propria autonomia, non esistendo più
Sante Inquisizioni. L´appartenenza a una confessione religiosa è dunque pur
sempre un fatto di autonomia. Sì, ma questa replica, indegna di provenire da
uomini di fede, svaluta assai il valore della fede e non considera la profondità
del legame, connesso a questioni ultime come la salvezza dell´anima, che questa
appartenenza determina. Non è la stessa cosa appartenere a un partito politico,
a un´organizzazione sindacale, a una associazione culturale, oppure a una fede
religiosa. Questo problema di lealtà democratica non è diverso rispetto alla
Chiesa, alle comunità islamiche o a quella che era un tempo la «chiesa»
dell´Internazionale comunista. Come lo si discute in questi casi, non dovrebbe
essere taciuto con riguardo alla Chiesa cattolica.
La lealtà ai principi della sfera pubblica e l'obbedienza religiosa
Il raddoppio dell´unità consiste in un plusvalore che si determina a favore
della Chiesa, in quanto essa opera nella società sia, dall´interno, come insieme
dei fedeli, sia, dall´esterno, come soggetto istituzionale che intrattiene
rapporti diretti con le istituzioni civili e ne condiziona le dinamiche. Questo
sdoppiamento della personalità, comunità e istituzione, e il raddoppio dei
tavoli su cui si svolge la partita sociale comportano la moltiplicazione
dell´influenza politica, ciò che spiega forse il peso della Chiesa cattolica in
taluni Paesi, dell´Europa o dell´America latina, un peso certamente, o
probabilmente, sproporzionato a ciò che il dato numerico dei cattolici dalla
fede attiva potrebbe indurre a pensare. Questo doppio peso è un problema per la
democrazia.
Si diventa ripetitivi, ma non si saprebbe fare diversamente, ricordando che
queste questioni sono state affrontate, nella prospettiva della conciliazione
della Chiesa con la democrazia e del superamento della sua plurisecolare
diffidenza, quando non aperta ostilità, dal Concilio Vaticano II. Il punto
nodale è l´autonomia e la responsabilità dei fedeli nella sfera politica e
sociale: qui è in gioco il rapporto tra la Chiesa e la democrazia. Allora fu
inibito ai laici di invocare l´autorità della Chiesa a sostegno delle loro
posizioni, inibizione che, evidentemente, comporta il reciproco: la necessaria
astensione della Chiesa da ogni iniziativa rivolta a impegnare, in quella stessa
sfera, la coscienza dei suoi fedeli. Questo spirito del Concilio sembra oggi
appannato, ma non abbiamo da perdere la speranza, poiché, come è detto, «lo
Spirito spira dove vuole».
GUSTAVO ZAGREBELSKY Repubblica 14 settembre 2007