La Caritas: «Questa
politica dà sfogo ai peggiori istinti»
intervista a don Vittorio Nozza a cura di Sandra Amurri
Ha appena terminato di scrivere l’editoriale per il mensile Italia Caritas,
don Vittorio Nozza,
direttore di Caritas italiana, coscienza lucida, puntuale come la sua penna che
con severità, spirito
critico, forte senso di appartenenza, non smette di evidenziare le debolezze di
una politica forte e
inefficace. Una politica - quella di Maroni & co. - che «mette radici»: come per
le scene di «caccia
al nero» viste negli ultimi giorni sulle spiagge e raccontate da l’Unità.
Don Nozza, sembra che non siamo più esseri umani, liberi, uguali. Persone che
costruiscono il
futuro della stessa terra...
«È il risultato del carosello mediatico subito dai cittadini. Della battaglia
messa in atto in alcune
città ai lavavetri, all’accattonaggio, la cacciata dalle spiagge, accolta da una
sorta di silenzio
consenso, come se fosse diventato improvvisamente normale interdire ai poveri,
agli
extracomunitari, città che passano per essere un patrimonio dell’umanità, ma
finiscono per esserlo
solo per quella parte che se lo può permettere: amministratori, cittadini
benpensanti. Le battaglie
contro i poveracci trovano ampia soddisfazione. Non stupisce che si tenti di
nascondere agli occhi
del paese una parte di vita che non piace, ma che continua ad esistere, e per
farlo si ricorra a
complesse architetture per la grande spettacolarità ma dalla dubbia tenuta in
tempi medio-lunghi.
Molti cittadini interpellati dai tg, senza alcun imbarazzo, paiono unanimi nel
bollare i mendicanti
come un fastidio. Fastidio, infatti, è stata la parola più gettonata, quasi
fosse un termine neutrale e di
galateo e non contenesse una sottile, perversa e inconfessabile carica di
violenza. Non fosse altro
perché sotto quello straccio di vestito, c’è una persona che vale più dei
marciapiedi e del giusto
decoro delle nostre spiagge e delle nostre città... ».
Vede delle responsabilità chiare?
«Intristisco poiché il mondo politico per mitigare le frustrazioni di un
popolo che vede riflesse nei
poveri le proprie paure, predica federalismo contro la crisi economica e pratica
metodi che ci rende
tutti più sbrigativi, più superficiali e spietati. Stupisce anche
l’enfasi con cui tali decisioni vengono
cucinate e servite agli italiani. Rovistare in un cassonetto, tentare di vendere
bigiotteria sulle
spiagge in cambio di un pezzo di pane, non è certamente un divertimento per un
povero o un per
extracomunitario».
Condiviso anche da politici che si dicono cristiani...
«Essere cristiano non è una proclamazione ma una testimonianza, uno stile
di vita, un modo di stare
nel mondo: è la partecipazione solidale, costruire insieme, non gestire
separatamente le questioni.
Occorre coniugare con una serie di politiche l’una strettamente legata
all’altra: l’accordo con gli
stati di provenienza, l’accompagnamento di questi disperati a partire dal loro
stato di appartenenza
al territorio di arrivo, con una politica dell’investimento nell’integrazione.
Lavorare molto su quei 3
milioni e mezzo di regolari che vivono inseriti nelle scuole, nelle case, nelle
fabbriche perché
sempre più questo zoccolo duro diventi capace di legarsi, favorito anche dalla
struttura del nostro
territorio, fatto di comuni piccoli e medi, che si presta all’integrazione. Solo
un territorio solidale è sicuro, diversamente un territorio presidiato non è
sicuro, per chi arriva e per chi ci vive. È scontato che là dove c’è violenza
vada perseguita. Noi siamo per l’impasto tra legalità e accoglienza, non si
può disgiungere la legalità dalla giustizia, dall’ accoglienza. Il problema è
che questa politica
separa».
Dalla sua storia che coniuga esperienza cristiana e laica quali consigli a
chi governa?
«Che se investiamo soltanto nel contrasto il rischio è togliere sicurezza a
tutti, anche a noi stessi
diventando anziani, malati, senza riferimenti, senza servizi domiciliari, senza
opportunità. Solo
garantendo un pezzo di amicizia, la gente si sente parte, altrimenti è insicura
e dà sfogo agli istinti
peggiori. Chi è chiamato a governare non può prescindere dall’ascolto. Quando
ero direttore della
Caritas della mia città, Bergamo, 20 anni fa, c’era un campo rom dove accadeva
di tutto, il
problema è stato risolto solo quando il sindaco ha inviato una presenza del
territorio».
La "disgregazione delle coscienze" per dirla con Gramsci, a cui assistiamo, è
il frutto del
linguaggio, anche dei gesti?
«Sì. Il linguaggio utilizzato in questi ultimi mesi rischia di montare molto
l’immaginario, di
distorcere la mentalità. Così si finisce con il considerare il venditore di
bigiotteria, di pupazzetti di
pelouche sulle spiagge un nemico, chi espone il piattino un sovvertitore della
serenità. Assistiamo
ad un linguaggio che fa paura in quanto disgrega, appunto. Da quando opero
nell’ambito Caritas,
ormai da 25 anni, non mi era mai accaduto di ricevere lettere in cui ci accusano
di essere
responsabili della venuta di queste persone che non verrebbero se noi non ce ne
occupassimo.
Anche gli operatori se lo sentono ripetere. Allora, il pericolo è che questo
modo di pensare monti
dentro quella ordinarietà che solitamente è capace di sopportare alcune fatiche.
E che non si accetti
più di sopportare o di portare alcune fatiche come il legare il diverso con la
bellezza dell’altra
persona, con la possibilità di comprendere e costruire insieme futuri diversi da
quelli conosciuti».
in “l'Unità” 12 agosto 2008