La buona democrazia e il pericolo delle oligarchie

Nel nostro Paese chi distingue la cattiva democrazia dalla buona incappa solitamente in un
interdetto: se critichi la democrazia è perché non sei democratico o non lo sei abbastanza, non
accetti il responso delle urne, vuoi «delegittimare» chi ha vinto le elezioni.
Vorresti che le cose
andassero altrimenti da come le vedi tu; che la maggioranza seguisse le tue, non le sue, idee. Tu dici
e pensi questo e quello, ma la maggioranza fa tutt'altro. Non te ne dai pace e, invece d'adeguarti in
nome del popolo, ti ostini, in nome di non si sa quale altro principio o diritto, anzi in nome della tua
presunzione, a non riconoscere d'avere torto.

Così, sei non lealmente democratico, ma subdolamente aristocratico, perché pensi tu d'avere, solo o
con i tuoi (pochi) amici, la verità in tasca. Non capisci d'essere fuori della storia, uno sconfitto che
avrebbe solo il dovere di tacere, mettersi da parte e lasciare il passo ai tempi che avanzano, alla
storia che si realizza. In breve: cosciente o non cosciente, sei un «azionista», tra tutti i giudizi
politici di condanna, il più infamante e «condiviso». Molto più di ladro, corrotto e corruttore,
incapace e incompetente, voltagabbana e servo del potente (...).
La democrazia come unica forma di regime legittimo, ha vinto la sua battaglia o, almeno, sembra
averla vinta. Pare non avere più rivali (...). Oggi, con la sola eccezione dei regimi dichiaratamente
teocratici, dove la secolarizzazione non è penetrata ed è anzi combattuta (come accade in talune
repubbliche islamiche), si presenta come l'unica forma di convivenza accettabile, dunque legittima.
Ciò non solo nel mondo occidentale, dove maggiormente si è sviluppata, ma nel mondo intero, ed è
proposta come valore universale dell'umanità. Talora gli intenti sono eccellenti, ma qualche volta
anche criminali (come quando la si usa come pretesto per l'uso delle armi, al fine di «esportarla»)
(...).

Ci si può chiedere la ragione di tanta fortuna e la ragione, alquanto allarmante, è che democrazia è
parola mimetica e promiscua.
Con un manto di nobiltà avvolge i governanti, ma questo manto può
nascondere le cose più diverse. Con l'ideologia democratica si possono nobilitare le più diverse
realtà del potere.
Nel tempo del potere secolarizzato, la democrazia è il solo regime che può
presentarsi come l'organizzazione di un potere disinteressato. I governanti si concepiscono come
mandatari o rappresentanti o benefattori del popolo. Il loro potere è in nome, per conto,
nell'interesse altrui. Possono dire di «servire il popolo», cioè di fare ciò che fanno non per il piacer
proprio, ma per il bene di tanti o di tutti. Nobile missione! Anche i governanti per diritto divino
sostenevano di agire in nome e per conto d'altri, addirittura di Dio. Ma, una volta caduta questa
premessa e posto il governo degli uomini sulla terra, solo le democrazie (non certo le autocrazie di
qualsiasi genere) conferiscono ai governanti il diritto di proclamare ch'essi non governano nel
proprio interesse, ma per il bene di chi è governato. Questa, l'ideologia. E la realtà? (...).

Il nodo da sciogliere, a questo punto, nasce dalla constatazione di questo apparente paradosso:
mentre da parte dei potenti della terra si accentua la loro dichiarata adesione alla democrazia, cresce
e si diffonde lo scetticismo presso chi studia l'odierna morfologia del potere e presso coloro che ne
sono l'oggetto e, spesso, le vittime. Per secoli, democrazia è stata la parola d'ordine degli esclusi dal
potere; ora sembra diventare l'ostentazione degli inclusi.
Presso i cittadini comuni, non c'è (ancora?)
un rovesciamento a favore di concezioni politiche antidemocratiche. C'è piuttosto un
accantonamento, un fastidio diffuso, un «lasciatemi in pace» con riguardo ai panegirici della
democrazia che, sulla bocca dei potenti, per lo più puzzano di ideologia al servizio del potere e,
nelle parole dei deboli, suonano spesso come vuote illusioni. C'è, in breve, una reazione anti-
retorica alla retorica democratica.
Non c'è bisogno di consultare la scienza politica per sentir
risuonare sempre più frequentemente questa semplice domanda, che è come un segnale d'allarme:
«democrazia, perché?». Quando si sente esclamare con fastidio: «tanto sono tutti uguali» (quelli
della cosiddetta classe dirigente), questo non significa forse che la democrazia ha perso di valore
presso questi cittadini, che la considerano semplicemente la vuota rappresentazione o
l'occultamento di un potere dal quale essi sono comunque esclusi?

Una «teatrocrazia», è stato detto. L'esito potrà essere l'astensione o l'adesione passiva e routinaria: in entrambi i casi, un'abdicazione.
È questa la più immediata espressione di uno scetticismo a-democratico dal basso che fa da pendant
alla retorica democratica dall'alto. Se si pensa che, storicamente, la democrazia è stata la
rivendicazione della massa degli esclusi dal potere, contro la chiusura su di sé dei potenti, c'è
evidentemente da registrare un capovolgimento paradossale.

Il paradosso si scioglie pensando alle capacità mimetiche o camaleontiche della democrazia,
rispetto alle quali è imbattibile. Sotto le sue forme, si può comodamente annidare mimetizzandosi,
cioè senza mettersi in mostra (questo è il grande vantaggio), perfino il più ristretto e il meno
presentabile potere oligarchico.
Le forme democratiche del potere possono essere un'efficace
maschera dissimulatoria
. È stato così in passato e così è anche nel presente. La storia ci dice che la
democrazia può dissimulare l'anti-democrazia (...).

Realisticamente, dobbiamo prendere atto che la democrazia deve sempre fare i conti con la sua
naturale tendenza all'oligarchia, anzi con la «ferrea legge delle oligarchie»: una legge che esprime
una tendenza endemica, cioè mossa da ragioni interne ineliminabili (...). Questa «ferrea legge» si
basa sulla constatazione che i grandi numeri, quando hanno conquistato l'uguaglianza, cioè il
livellamento nella sfera politica, cioè quando la democrazia è stata proclamata, e tanto più è
proclamata allo stato puro, cioè come democrazia immediata, senza delega, ha bisogno di piccoli
numeri, di ristrette oligarchie. Non basta. Poiché questa è una patente contraddizione rispetto ai
principi, occorre che queste oligarchie siano occulte e che queste, a loro volta, occultino il loro
occultamento per mezzo del massimo di esibizioni pubbliche.
La democrazia allora si dimostra così
essere il regime dell'illusione.
Il più benigno dei regimi politici, in apparenza, è il più maligno, in
realtà. Il «principio maggioritario», che è l'essenza della democrazia, si rovescia infatti nel
«principio minoritario», che è l'essenza dell'autocrazia: un'autocrazia che si appoggia su grandi
numeri, ma pur sempre un'autocrazia e, per questo, più pericolosa, non meno pericolosa, del potere
in mano a piccole cerchie di persone che si appoggiano solo su se stesse (...).

Le oligarchie, nelle odierne società, non si costruiscono su piani paralleli, l'uno sopra l'altro.
L'immagine che mi pare più appropriata è quella del «giro» di potere. Intendo con questa
espressione - il giro - esattamente ciò che vogliamo dire quando, di fronte a sconosciuti dalla storia,
dalle competenze e dai meriti incerti, o dai demeriti certi e dalle carriere improbabili, i quali
vengono a occupare posti difficilmente concepibili per loro, ci domandiamo: a che giro
appartengono? Una delle grandi divisioni della nostra società è forse proprio questa: tra chi «ha
giro», e chi non ce l'ha. Divisione profonda, fatta di carriere,
status personali, invidie e risentimenti
che avvelenano i rapporti e corrompono i legami sociali, ma che, finché dura, è una vera e propria
struttura costituzionale materiale.

Nei «giri» si scambiano protezione e favori con fedeltà e servizi. Questo scambio ha bisogno di
«materia». Occorre disporre di risorse da distribuire come favori, per esempio: danaro facile e
impieghi (Cimone e Pericle insegnano), carriere e promozioni, immunità e privilegi. Occorre,
dall'altra parte, qualcosa da offrire in restituzione: dal piccolo voto (il voto «di scambio»),
all'organizzazione di centinaia o migliaia di voti che si controllano per ragioni di corporazione, di
corruzione, di criminalità; dalla disponibilità a corrispondere al favore ricevuto con
controprestazioni, personali o per interposta persona, oggi soprattutto per sesso interposto.
L'asettico «giro» in realtà è una cloaca e questo è il materiale infetto che trasporta (...). Quando poi
nello scambio e nell'intreccio di favori, minacce e ricatti entrano anche organizzazioni criminali,
non è esclusa nemmeno la violenza. Non pochi delitti politici nel violento nostro Paese non si
spiegano forse con l'essere venuti meno a un patto di scambio?

Dove si alimenta la forza che alimenta i giri? Nella disuguaglianza e nell'illegalità. Essi tanto più si
diffondono quanto maggiori sono le disuguaglianze sociali e quanto meno le stesse leggi valgono
ugualmente per tutti (...). Come si proteggono i «giri»? Prima di tutto con la copertura e la
segretezza. Questa struttura del potere mai come oggi è stata estesa, capillare, omnipervasiva
(...).
Questo è il carattere nostrano odierno del sistema oligarchico: catene verticali, quasi sempre
invisibili e talora segrete, legano tra loro uomini della politica, delle burocrazie, della magistratura,
delle professioni, delle gerarchie ecclesiastiche, dell'economia e della finanza, dell'università, della
cultura, dello spettacolo, dell'innumerevole pletora di enti, consigli, centri, fondazioni, eccetera,
che, secondo i propri principi, dovrebbero essere reciprocamente indipendenti e invece sono attratti
negli stessi mulinelli del potere, corruttivi di ruoli, competenze, responsabilità.

Se la cattiva democrazia è quella che si è involuta in oligarchie (...), allora per contrasto possiamo
definire «buona» la democrazia dove vigono queste due virtù pubbliche: l'amore per l'uguaglianza
sotto la legge comune, unito al disprezzo per arrivisti e faccendieri, e la sete di verità circa le cose
comuni (...).
Con questo passaggio, l'attenzione si è spostata dalla democrazia come forma o regola
della politica alla democrazia come carattere degli esseri umani. In effetti, noi possiamo riferirci alla
democrazia come tecnica del potere (che, come tutte le tecniche del potere, contiene comunque in
sé qualcosa di minaccioso) e come concezione del vivere comune.
Il limite della maggior parte dei
discorsi attuali sulla democrazia sta nell'avere separato questi due aspetti e nell'avere oscurato il
secondo che, invece, è il più importante, perché preliminare e condizionante. Se viene meno la
democrazia come esigenza dello spirito pubblico, essa, in quanto regime politico, si può perfino
suicidare «democraticamente» (...).
Poiché nessuna tecnica d'organizzazione democratica del potere può funzionare se non si appoggia
su società che sono esse stesse, e prima di tutto, democratiche, si comprende che è lì la garanzia
ultima e nessuna istituzione, da sola, è capace di difendere la democrazia se i più non la vogliono o
non ne sono interessati.
Le istituzioni, pur tuttavia, sono importanti (...). Il significato profondo
delle istituzioni democratiche è tutto in questo: il medesimo obbiettivo - la lotta contro le oligarchie
- ma con mezzi ordinari. Quali esse siano queste istituzioni è chiaro: quelle della legalità e della
trasparenza; la sovranità della legge e la libertà delle opinioni; le magistrature e l'informazione.
Senza di queste, nemmeno il diritto di voto, il diritto primordiale di ogni forma di democrazia,
sarebbe dotato di senso democratico, perché non sarebbe permessa l'onesta misurazione del
consenso e del dissenso.

La democrazia non è dunque possibile in società non democratiche, ancorché adottino le forme
esteriori della democrazia.
La società democratica è preliminare alla politica democratica. Si deve,
allora, promuovere una pedagogia orientata a promuovere l'ethos della democrazia?
Platone
risponderebbe senza esitazione di sì: «Lo sai che inevitabilmente fra gli individui vi sono tanti tipi
quante sono le forme di governo? Credi forse che esse spuntino da una quercia o da una pietra,
anziché dal carattere (ethos) dei cittadini, che le trascinano dalla parte verso cui essi stessi
pendono?
». In effetti, da molti decenni un'autentica pedagogia democratica è mancata (...).
Nel momento della massima diffusione della democrazia - si potrebbe dire: nel momento della sua
vittoria su ogni altro sistema di governo -, cioè nel momento dell'indifferenza per assenza di
alternative, sembra essere venuta meno l'esigenza di insegnarne lo spirito. La democrazia si è
sempre accompagnata alla diffusione dell'istruzione e della cultura, cioè alla liberazione
dall'ignoranza e dall'analfabetismo.
Ma una specifica educazione dalla democrazia?
In effetti, una posizione negativa si giustifica in base alla doppia idea che la democrazia, per essere
davvero tale, deve essere il «regime dell'uomo così com'è» e che ogni pedagogia o educazione
imposta per cambiarlo «eticamente» - fosse anche per adeguarlo alla democrazia stessa, per creare
«l'uomo nuovo» - si risolverebbe in una pratica contraria ai principi della democrazia stessa. Ma
«l'uomo così com'è» non è affatto quello che è adatto alla democrazia (...). Sotto certi aspetti, la
democrazia è un regime politico innaturale, cioè fortemente legato a premesse culturali che devono
essere alimentate:
chiede sacrifici, rinunce e dedizione personali, in vista di qualcosa di comune, al
di là del raggio degli interessi personali.
Non è affatto solo una tecnica - certe volte migliore e altre peggiore di altre - per la protezione degli individui e dei loro interessi.

È una forma di convivenza che ha a che vedere con l'etica repubblicana, con la res publica, cioè con una dimensione della vita
che, per essere di tutti, non deve diventare patrimonio di nessuno.
Per questo, essa è sempre a
rischio e noi conosciamo bene che cosa siano state e che cosa possano sempre essere la «servitù
volontaria» e la spontanea rinuncia alla libertà per il prevalere di interessi particolari.
Allora? Come conciliare gli opposti: l'inaccettabilità e, al tempo stesso, la necessità di
un'educazione democratica? In un solo modo: dicendo che questo compito è essenziale, ma non è
dell'autorità.
Esso è rimesso alla libertà. Non spetta allo Stato di svolgerlo, ma alla società. Rientra
cioè nella responsabilità di ciascuno di noi, quando entra in relazione con gli altri, là dove la
democrazia è atteggiamento etico che può essere diffusivo di se stesso, nel rispetto dell'autonomia
degli altri (...).
La democrazia, poiché non può invocare rassicurazioni metafisiche, può basarsi solo
su se stessa, cioè sui suoi cittadini. Si regge o cade per virtù o vizi loro. Ma proprio per questo,
quanti amano la democrazia sapendo che prima e dopo di essa c'è solo qualche forma di autocrazia,
c'è cioè la perdita della libertà, devono raddoppiare gli sforzi per difenderla ed espanderla nella
coscienza di quanti più è possibile.


Gustavo Zagrebelsky     la Repubblica  17 giugno 2010