La battaglia del
crocifisso. Quella rivolta degli anni venti.
Oh, ma quanti fervidi difensori del crocifisso, dopo la sentenza della Corte
europea! Chi lo regala ai
commissari Ue, chi lo appiccica con lo scotch sulle pareti del Parlamento, chi
lo distribuisce davanti
alle scuole, chi lo vuol mettere nei supermarket, chi lo ritiene incompatibile
con il ritratto di
Napolitano. Dalle parti di Padova c´è un sindaco che ha già stabilito una multa
di 500 euro per
crocifisso negato, o mancato.
«Giù le mani dal crocifisso!» tuona Calderoli. All´Aquila Berlusconi si aggira
impugnandone uno
massiccio, tipo medioevo. E Sgarbi lo fa luccicare sul bavero della giacca al
talk-show della
domenica e la Barbara D´Urso, fattasi seria, garantisce ai telespettatori che il
suo rimarrà per
sempre nel camerino. «Possono morire!» ripete caritatevolmente il ministro La
Russa rivolgendosi,
sempre in tv, ai giudici europei; anche se l´Oscar dell´ardore cristiano spetta
al titolista della
Padania: «"Crocifiggiamo" i responsabili dello scempio!». Come se questo
infuocato sdegno non suscitasse
un amaro sospetto di strumentalità, insieme al più irridente scetticismo.
E quindi forse, al di là del merito di dove debba o non debba
andare la croce, l´unica consolazione è
scoprire che tutto, come capita spesso, è già accaduto. Più o meno. C´è una
copertina de La
Domenica del Corriere del gennaio del 1921 in cui una folla, donne
soprattutto, dà l´assalto a un
municipio. Mani levate, pugni minacciosi, bastoni: Achille Beltrame illustra da
par suo quella che
appare una vera e propria rivolta. In prima fila si leva un crocifisso, grande e
completo della figura
del Cristo, brandito come un´arma contundente.
Che cosa era successo? Semplice (e attuale): la disposizione di un assessore
socialista, Angelo
Francesco Fietti, di professione maestro, che aveva fatto allontanare i
crocifissi dalle aule
scolastiche del Vercellese. La sommossa divampò a Stroppiana, ma anche in altri
comuni
piemontesi la norma anti-crocifissi si risolse in violentissime polemiche.
C´è un delizioso, appassionato libricino, Il ritorno
delle croci dell´antropologa Clara Gallini
(Manifestolibri, pagg. 134, 14 euro) che dopo aver trattato l´argomento
nel suo precedente Croce e
delizia. Usi, abusi e disusi di un simbolo (Bollati Boringhieri, 2007)
ricostruisce con l´occhio al
presente quei lontani eventi, e nel contempo fa capire come la storia e la vita
stessa dei simboli,
appunto, siano generalmente segnate da avventure, svolte, imprevisti,
opportunità e contraddizioni.
Le motivazioni di Fietti non suonano oggi così diverse da quelle della Corte
europee sulla libertà
dai simboli delle varie confessioni. Ma certo vi aggiungevano un intento
pedagogico che, anche
sulla spinta del positivismo allora in voga, richiamava la necessità di evitare
agli sguardi degli
scolari un emblema di dolore e di morte. «Cruciato martire, tu cruci gli
uomini - cantava del resto il
Carducci - tu di tristizia l´aer contamini».
Fatto sta che i giornali nazionali si precipitarono nella rossa Vercelli; i
cattolici, vescovi in testa,
organizzarono una efficacissima resistenza - scritti, canti, processioni -
contro la «settaria empietà»;
i carabinieri e la polizia fecero la loro parte ripristinando immediatamente gli
«arredi obbligatori».
Nel 1923 vennero emanate ordinanze ministeriali e nel 1926 l´obbligo di esporre
il crocifisso si
estese a tutte le scuole di ogni ordine e grado.
C´è anche da dire che nel frattempo si stava consolidando il
regime fascista e l´alleanza politica con
la chiesa cattolica in qualche modo comportava che la croce si rivelasse non
solo un emblema sacro
alla fede, ma anche al sentimento nazionale (oggi «identità»); una sorta
di doppia legittimazione
celebrata da tutta un´iconografia nella quale il Duce saluta il crocifisso con
il saluto romano.
E a questo punto, sempre con molta garbata spigliatezza e profondità, Clara
Gallini ridà vita ad altre
due piccole grandi vicende che di nuovo dimostrano come dietro alle immagini e
alle parole che
definiscono lo status dei simboli ci sono le decisioni degli uomini, le loro
lotte, le loro leggi.
Dunque racconta il ritorno delle due imponenti croci che per ragioni di restauro
archeologico, alla
chetichella, le amministrazioni laiche e anticlericali che governarono Roma dopo
il 1870 avevano
tolto da due celebri monumenti; e che nel 1924 e nel 1926, su spinta
clerico-fascista, vennero di
nuovo e in pompa magna innalzate sulla torre del Campidoglio e nel Colosseo.
Ora, considerato l´impeto di tanti odierni crociati, un po´ preoccupa che dopo
quasi un secolo possa
riscatenarsi una manipolazione bellica di simboli che sono sacri, ma anche
perché ciascuno
dovrebbe portarseli nel cuore, o condividerne la più mite e dolorosa ispirazione.
A questo proposito
vale segnalare ciò che si legge in testa al libro e cioè quanto avrebbe risposto
Antonio Gramsci,
rinchiuso nel carcere di Turi, quando una guardia entrò imbarazzata in cella con
l´ordine di apporvi
il crocifisso: «Se fosse una roba che puzza, direi di no. Ma come ci sto
io, ci può stare anche lui».
Tra poveri Cristi, d´altra parte, ci si intende sempre.
Filippo Ceccarelli la Repubblica
11 novembre 2009