Italia, settant’anni di razzismo
Il 14 luglio 1938 a Roma faceva molto caldo; il giorno seguente la temperatura
sarebbe salita ancora, fino a superare i 33 gradi. Nella seconda parte della
giornata, cominciò a circolare il nuovo numero de Il Giornale d’Italia,
quotidiano pomeridiano della capitale, che recava già la data del giorno
seguente. In prima pagina, le colonne di destra erano interamente dedicate a un
lungo documento, articolato in dieci punti - come fosse una nuova esternazione
divina - e intitolato Il fascismo e i problema (sic) della razza. Una breve
premessa segnalava che il testo costituiva «la posizione del Fascismo nei
confronti dei problemi della razza». Con ciò la popolazione italiana veniva
pubblicamente informata (o meglio: notificata) che il fascismo (ossia: non
semplicemente Benito Mussolini o il governo, ma l’intera struttura divinizzante
partito-ideologia-Stato-Nazione) aveva una “posizione” ufficiale sui “problemi
della razza”. Il carattere totalitario del regime la rendeva vincolante, quanto
meno nei suoi principi generali. Il giorno dopo (il 15 luglio) il documento fu
pubblicato da tutti gli altri quotidiani.
Poiché il 26 luglio i giornali riferirono i nomi di dieci professori e
assistenti universitari che avevano “redatto o aderito” al decalogo, esso è
stato spesso ridenominato «Manifesto degli scienziati razzisti». Questa
definizione è però fuorviante, per via del fatto che, di là dalle responsabilità
tecniche di scrittura, il documento fu appunto presentato come “posizione del
Fascismo” e non come posizione di un gruppo di intellettuali. Oggi poi sappiamo
con certezza che proprio Mussolini ne sollecitò la stesura e ne indicò la linea.
Pertanto è di gran lunga più adeguato parlare di «Manifesto fascista della
razza» o «Manifesto del razzismo fascista». Altrimenti, volenti o no, si depista
la conoscenza e si nega la storia.
Secondo alcuni volumi e siti web, compreso it.wikipedia.org, ai dieci docenti
universitari che avevano ufficialmente “redatto o aderito” al decalogo, vanno
aggiunte alcune centinaia di personalità «che aderirono ufficialmente al
manifesto oppure sostennero pubblicamente le leggi razziali fasciste». Questa
affermazione è erronea, nella sua prima parte. All’epoca infatti non vi fu
alcuna raccolta di sottoscrizioni al “Manifesto”. E però è vero che molti
giovani e molti intellettuali (e in particolar modo tanti intellettuali giovani)
scelsero di divenire, a seconda dei casi, teorici, o divulgatori, o
propagandisti del razzismo e dell’antisemitismo.
In effetti il vocabolo “razza” aveva fatto la sua comparsa nel corpus
legislativo nazionale almeno all’inizio del Novecento (ossia prima del
fascismo), con riferimento alle popolazioni della colonia Eritrea. Esso dapprima
aveva un significato quasi solo nomenclatore, ma ben presto iniziò ad avere un
portato discriminatorio. Del 1921 - ossia sempre prima della “marcia su Roma” -
è l’affermazione del governatore di quella colonia sul «prestigio che deve
circondare la razza dominante di fronte all’elemento indigeno». Nel ventennio
fascista il suo utilizzo si intensificò, dapprima connesso direttamente (ma non
con esclusività) alla politica demografica e poi legato al primato dei bianchi
sui neri e progressivamente a quello degli ariani-cattolici sugli ebrei (ma già
nel giugno 1919 Mussolini si era già scagliato sul suo giornale contro gli ebrei
capitalisti dell’ovest e bolscevichi dell’est, «legati da vincoli di razza ...
contro la razza ariana»).
Nel 1927 il
dittatore annunciò di voler “curare” la “razza italiana”; nel 1935 scrisse: «Noi
fascisti riconosciamo l’esistenza delle razze, le loro differenze e la loro
gerarchia»; l’anno seguente (a Etiopia conquistata) il ministro della stampa e
propaganda Galeazzo Ciano ricordò: «È necessaria una netta separazione fra razza
dominante e razza dominata»; nei primi mesi del 1937, il decreto legge contro le
convivenze “razzialmente miste” in Etiopia e i provvedimenti governativi con
misure demografiche furono pubblicamente motivati con le dizioni
interscambiabili di «per l’integrità della razza» e «per la difesa della razza».
Il 5 gennaio 1937 il sottosegretario agli Esteri Giuseppe Bastianini chiese a
tutte le rappresentanze diplomatiche italiane di riferire su «entità, ...
caratteri, ... importanza, ... attività economiche, … tendenze politiche, …
criminalità, … attività illecite, ... stampa» delle varie comunità ebraiche; e
nel giugno di quell’anno il dittatore, in un articolo non firmato, tornò a
presentare gli ebrei come una “razza”, nonché come «un riuscitissimo esempio di
razzismo».
Il «Manifesto fascista della razza» del 14 luglio 1938 ebbe lo scopo di
rafforzare il razzismo “anticamita”, dandogli una solida (così si riteneva)
strutturazione ideologica, e di esplicitare quello “antisemita”, integrandolo
con il primo. Ciascun punto del decalogo recava un titolo, la cui successione
era: «1, Le razze umane esistono. 2, Esistono grandi razze e piccole razze. 3,
Il concetto di razza è concetto puramente biologico. 4, La popolazione
dell’Italia attuale è di origine ariana e la sua civiltà ariana. 5, È una
leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici. 6, Esiste ormai
una pura razza italiana. 7, È tempo che gli Italiani si proclamino francamente
razzisti. 8, È necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d’Europa
(Occidentali) da una parte gli Orientali e gli Africani dall’altra. 9 Gli ebrei
non appartengono alla razza italiana. 10, I caratteri fisici e psicologici
puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo». Con
ciò il razzismo e l’antisemitismo iniziarono a far parte ufficialmente della
vita del “bel Paese”. Seguirono le leggi antiebraiche e nuove leggi contro il
temuto “meticciato” tra bianchi e neri e per la «difesa del prestigio di razza».
L’Italia divenne insomma a tutti gli effetti uno Stato razziale, un Paese
razzista.
Non sappiamo ancora se la temperatura romana di questo 14 luglio 2008 risulterà
altrettanto bollente. Ma nulla può uguagliare il bollore suscitato, in questo
anno settantesimo dal varo di quel decalogo razzista, dall’udire parlamentari
italiani pronunciare frasi quali «l’associazione a delinquere tipica delle
famiglie ebraiche», o «sono ancora alla ricerca, qualcuno me lo segnali se lo
conosce, di un ebreo in Italia con un lavoro regolare». Scusate, mi accorgo di
aver citato malamente: in verità le due frasi contengono il vocabolo “rom” e non
le parole “ebraiche” o “ebreo”; ma vi è poi differenza?