Israele parli anche con chi vuole distruggerci


Come le volpi del racconto biblico di Sansone, legate per la coda a un'unica torcia in fiamme, così
noi e i palestinesi ci trasciniamo l'un l'altro, malgrado la disparità delle nostre forze. E anche quando
tentiamo di staccarci non facciamo che attizzare il fuoco di chi è legato a noi - il nostro doppio, la
nostra tragedia - e il fuoco che brucia noi stessi. Per questo, in mezzo all'esaltazione nazionalista
che travolge oggi Israele, non guasterebbe ricordare che anche quest'ultima operazione a Gaza, in
fin dei conti, non è che una tappa lungo un cammino di violenza e di odio in cui talvolta si vince e
talaltra si perde ma che, in ultimo, ci condurrà alla rovina
. Assieme al senso di soddisfazione per il
riscatto dello smacco subito da Israele nella seconda guerra del Libano faremmo meglio ad ascoltare
la voce che ci dice che il successo di Tsahal su Hamas non è la prova decisiva che lo Stato ebraico
ha avuto ragione a scatenare una simile offensiva militare, e di certo non giustifica il modo in cui ha
agito nel corso di questa offensiva. Tale successo prova unicamente che Israele è molto più forte di
Hamas e che, all'occasione, può mostrarsi, a modo suo, inflessibile e brutale.
Allo stesso modo il successo dell'operazione non ha risolto le cause che l'hanno scatenata. Israele
tiene ancora sotto controllo la maggior parte del territorio palestinese e non si dichiara pronto a
rinunciare all'occupazione e alle colonie. Hamas continua a rifiutare di riconoscere l'esistenza dello
Stato ebraico e, così facendo, ostacola una reale possibilità di dialogo. L'offensiva di Gaza non ha
permesso di compiere nessun passo verso un vero superamento di questi ostacoli. Al contrario: i
morti e la devastazione causati da Israele ci garantiscono che un'altra generazione di palestinesi
crescerà nell'odio e nella sete di vendetta. Il fanatismo di Hamas, responsabile di aver valutato male
il rapporto di forza con Tsahal, sarà esacerbato dalla sconfitta, intaserà i canali del dialogo e
comprometterà la sua capacità di servire i veri interessi palestinesi.
Ma quando l'operazione sarà conclusa e le dimensioni della tragedia saranno sotto gli occhi di tutti
(al punto che, forse, per un breve istante, anche i sofisticati meccanismi di autogiustificazione e di
rimozione in atto oggi in Israele verranno accantonati), allora anche la coscienza israeliana
apprenderà una lezione. Forse capiremo finalmente che nel nostro comportamento c'è qualcosa di
profondamente sbagliato, di immorale, di poco saggio, che rinfocola la fiamma che, di volta in
volta, ci consuma.
È naturale che i palestinesi non possano essere sollevati dalla responsabilità dei loro errori, dei loro
crimini. Un atteggiamento simile da parte nostra sottintenderebbe un disprezzo e un senso di
superiorità nei loro confronti, come se non fossero adulti coscienti delle proprie azioni e dei propri sbagli. È indubbio che la popolazione di Gaza sia stata "strozzata" da Israele ma aveva a sua disposizione molte vie per protestare e manifestare il suo disagio oltre a quella di lanciare migliaia
di razzi su civili innocenti. Questo non va dimenticato. Non possiamo perdonare i palestinesi,
trattarli con clemenza come se fosse logico che, nei momenti di difficoltà, il loro unico modo di
reagire, quasi automatico, sia il ricorso alla violenza.

Ma anche quando i palestinesi si comportano con cieca aggressività - con attentati suicidi e lanci di
Qassam - Israele rimane molto più forte di loro e ha ancora la possibilità di influenzare
enormemente il livello di violenza nella regione, di minimizzarlo, di cercare di annullarlo. La
recente offensiva non mostra però che qualcuno dei nostri vertici politici abbia consapevolmente, e
responsabilmente, afferrato questo punto critico.
Arriverà il giorno in cui cercheremo di curare le ferite che abbiamo procurato oggi. Ma quel giorno
arriverà davvero se non capiremo che la forza militare non può essere lo strumento con cui spianare
la nostra strada dinanzi al popolo arabo? Arriverà se non assimileremo il significato della
responsabilità che gli articolati legami e i rapporti che avevamo in passato, e che avremo in futuro,
con i palestinesi della Cisgiordania, della striscia di Gaza, della Galilea, ci impongono?

Quando il variopinto fumo dei proclami di vittoria dei politici si dissolverà, quando finalmente
comprenderemo il divario tra i risultati ottenuti e ciò che ci serve veramente per condurre
un'esistenza normale in questa regione, quando ammetteremo che un intero Stato si è
smaniosamente autoipnotizzato perché aveva un estremo bisogno di credere che Gaza avrebbe
curato la ferita del Libano, forse pareggeremo i conti con chi, di volta in volta, incita l'opinione
pubblica israeliana all'arroganza e al compiacimento nell'uso delle armi. Chi ci insegna, da anni, a
disprezzare la fede nella pace, nella speranza di un cambiamento nei rapporti con gli arabi. Chi ci
convince che gli arabi capiscono solo il linguaggio della forza ed è quindi quello che dobbiamo
usare con loro. E siccome lo abbiamo fatto per così tanti anni, abbiamo dimenticato che ci sono
altre lingue che si possono parlare con gli esseri umani, persino con nemici giurati come Hamas.
Lingue che noi israeliani conosciamo altrettanto bene di quella parlata dagli aerei da combattimento
e dai carri armati.
Parlare con i palestinesi. Questa deve essere la conclusione di quest'ultimo round di violenza.
Parlare anche con chi non riconosce il nostro diritto di vivere qui.
Anziché ignorare Hamas
faremmo bene a sfruttare la realtà che si è creata per intavolare subito un dialogo, per raggiungere
un accordo con tutto il popolo palestinese. Parlare per capire che la realtà non è soltanto quella dei
racconti a tenuta stagna che noi e i palestinesi ripetiamo a noi stessi da generazioni. Racconti nei
quali siamo imprigionati e di cui una parte non indifferente è costituita da fantasie, da desideri, da
incubi. Parlare per creare, in questa realtà opaca e sorda, un'alternativa, che, nel turbine della guerra,
non trova quasi posto né speranza, e neppure chi creda in essa: la possibilità di esprimerci.

Parlare come strategia calcolata. Intavolare un dialogo, impuntarsi per mantenerlo, anche a costo di
sbattere la testa contro un muro, anche se, sulle prime, questa sembra un'opzione disperata. A lungo
andare questa ostinazione potrebbe contribuire alla nostra sicurezza molto più di centinaia di aerei
che sganciano bombe sulle città e sui loro abitanti. Parlare con la consapevolezza, nata dalla visione
delle recenti immagini, che la distruzione che possiamo procurarci a vicenda, ogni popolo a modo
suo, è talmente vasta, corrosiva, insensata, che se dovessimo arrenderci alla sua logica alla fine ne
verremmo annientati.

Parlare, perché ciò che è avvenuto nelle ultime settimane nella striscia di Gaza ci pone davanti a
uno specchio nel quale si riflette un volto per il quale, se lo guardassimo dall'esterno o se fosse
quello di un altro popolo, proveremmo orrore. Capiremmo che la nostra vittoria non è una vera
vittoria, che la guerra di Gaza non ha curato la ferita che avevamo disperatamente bisogno di
medicare. Al contrario, ha rivelato ancor più i nostri errori di rotta, tragici e ripetuti, e la profondità
della trappola in cui siamo imprigionati.

 

David Grossman, scrittore israeliano       la Repubblica  20 gennaio 2009
 

 

 

«Olmert ha sbagliato, la sua guerra non è stata giusta»

intervista a Yossi Sarid a cura di Umberto De Giovannangeli


È tornato ai suoi, affollatissimi, corsi universitari. Ma non è venuto meno a quella passione civile e
a quel coraggio intellettuale che lo ha portato per molti anni ad essere il leader riconosciuto della
sinistra pacifista israeliana: parliamo di Yossi Sarid, fondatore del Meretz, più volte ministro nei
governi a guida laburista. Oggi, Yossi Sarid è una voce fuori dal coro, la voce dell’Israele che non
crede nella «guerra giusta»
di Gaza.
«No - afferma deciso Sarid - quella condotta a Gaza non è stata una guerra giusta. È semmai una
guerra terapeutica che libera da inibizioni morali, guerra fatta per roteare gli occhi. Per questo è
ancora più pericolosa».


Un'immagine utilizzata dal cardinal Martino per definire la condizione di Gaza e della sua gente: Gaza,
ha sostenuto il cardinale, è un grande campo di concentramento. È una forzatura della realtà?

«No, non è una forzatura. A Gaza un milione e mezzo di esseri umani, la maggior parte dei quali
profughi abbattuti e disperati, vivono nelle condizioni di una gigantesca prigione, terra fertile per un
altro giro di bagni di sangue. Terra in cui giovani che non hanno futuro rinunciano facilmente al
loro futuro, che non possono scorgere all’orizzonte. Il fatto che Hamas possa essersi spinta troppo
oltre con i suoi razzi non è una giustificazione per la politica di Israele degli ultimi decenni, per la
quale si merita giustamente una scarpa irachena in fronte».
 

Considerazione durissima. Alla quale si potrebbe rispondere che nell’estate del 2005, Israele si è
ritirato unilateralmente da Gaza.

«La parola chiave resta sempre quella: unilateralmente. Israele ha preso tutte le decisioni più
importanti in questa chiave: il ritiro da Gaza, il tracciato della Barriera in Cisgiordania, la
realizzazione degli insediamenti, il continuo stop and go ai negoziati. E ora il cessate- il-fuoco nella Striscia. È come se la controparte non esistesse o non avesse voce in capitolo. Questo ha finito per delegittimare ogni controparte. E sulla delegittimazione dell’altro non si costruisce un percorso
negoziale».
 

Insisto: Israele afferma che è stato Hamas a violare la tregua, sparando missili contro il Sud
d’Israele.

«Il punto non è giustificare Hamas, cosa che mi guardo bene dal fare. Il punto è che è difficile far
credere che sia esistita una tregua a un milione e mezzo di persone che hanno continuato a vivere in
una gigantesca prigione. Cosa ci attendevamo da loro? Che prendessero le armi contro Hamas? Il
fatto è che in questi anni la cecità della nostra politica ha finito per rafforzare Hamas e i gruppi
radicali. E per spiegarle questo convincimento voglio raccontarle una storia…»
 

Quale storia, professor Sarid?
«La scorsa settimana ho parlato con i miei studenti della guerra a Gaza nel contesto di un corso
sulla sicurezza nazionale. Si è sviluppata una discussione appassionata, e uno studente, che si era
dichiarato "molto conservatore", mi ha detto: "Se io fossi (stato) un giovane palestinese avrei
combattuto ferocemente gli Ebrei, perfino col terrorismo. Chiunque ti dica delle cose differenti,
mente. Quelle parole mi hanno scosso nel profondo. Le sue osservazioni suonano familiari, le ho
già sentite nel passato. Improvvisamente ricordo: circa 10 anni fa erano proferite dal nostro ministro
della Difesa, Ehud Barak. Il giornalista di Ha’aretz Gideon Levy gli chiese allora, come candidato a
primo ministro, cosa avrebbe fatto se fosse nato palestinese e Barak, con franchezza, rispose: "Mi
unirei ad una organizzazione terroristica". E qui il cerchio si chiude…».
 

In che senso si chiude? «Io ho odiato tutti i terrorismi nel mondo, quale che fosse il fine delle loro
lotte. Comunque, sostengo ogni attiva rivolta civile contro ogni occupazione, e Israele è fra i più
deprecabili occupanti. E fino a quando varrà ciò che quello studente ha detto, "se fossi palestinese
combatterei gli Ebrei", e ammesso da Barak, "mi unirei ad un’organizzazione terroristica", non vi
sarà mai spazio per la pace, ma solo per nuove, devastanti "guerre terapeutiche", o per tregue
destinate a fallire se restano tali e non, come è necessario, la premessa di una vera strategia del
dialogo».

l'Unità 19 gennaio 2009