Ipazia,
quando talebani erano i cristiani
E’ un tempo, il nostro, di crististi e teocon, in cui agli opposti
estremismi si sono sostituiti, o
sommati, gli opposti spiritualismi. L’onda d’urto della caduta del muro di
Berlino ha provocato,
negli orfani delle ideologie, un fall out di conversioni alla
confortante forza dell’autoritarismo
ecclesiale. C’era urgente bisogno che la laicità si procurasse un
simbolo: un’icona degli ideali di
tolleranza, di non faziosità, di rifiuto delle fedi e delle ideologie pervasive.
L’ha trovato in un’eroina di quindici secoli fa: la filosofa
Ipazia, matematica e astronoma,
cattedratica nell’antica accademia platonica di Alessandria, massacrata dal
fanatismo della prima
Chiesa cristiana, celebrata in un crescendo di libri, biografie, spettacoli. E
tuttavia la sua storia,
narrata dallo spagnolo Alejandro Almenábar in un film campione d’incassi,
Agorà, rischiava di non
essere mai visibile in Italia, Stato laico sulla carta ma ancora e sempre
condizionato dall’esistenza al
suo interno di quello della Chiesa. Nell’autunno scorso, un appello per la
sua distribuzione aveva
raccolto molte firme, a riprova che l’opportunismo non è un fenomeno di massa e
che la maturità
politica dei cittadini, non solo laici ma anche cattolici, è maggiore di quella
di chi gestisce il potere,
in questo caso culturale.
Fatto sta che il veto, pur non esplicito, è caduto, e il film uscirà il 23
aprile. Per l’imbarazzo della
Chiesa, che vi vedrà un proprio vescovo, e in seguito santo, Cirillo di
Alessandria, presentato come
un fanatico terrorista, un violento e un assassino, e i propri adepti non
dissimili ma anzi
volutamente assimilati agli integralisti islamici: nei tratti stereotipi, nei
comportamenti, nei discorsi
e perfino nell’accento. Un geniale rovesciamento: i primi cristiani
equiparati alle fasce estreme di
quell’Islam che l’odierna propaganda cristiana avversa estendendo alla religione
stessa l’accusa di
«intrinseca malvagità».
In effetti, quando nel 392 Teodosio emanò una legge speciale
contro i culti pagani nel tollerante
Egitto, i quadri dirigenti del Cristianesimo, divenuto religione di Stato,
intrapresero una
mobilitazione punitiva proprio nella capitale della cultura ellenica dov’era
nata e insegnava Ipazia.
All’origine dell’ostilità di Cirillo era, più che la misoginia o l’odio
confessionale, l’invidia specifica
il bizantino Suidas - per la sua influenza politica. Era una partita a tre
quella che si giocava
per il potere ad Alessandria tra l’antica élite pagana, stretta alla
rappresentanza del governo
imperiale, i dirigenti cristiani che volevano soppiantarla e la comunità
giudaica, prima lobby
dominante, ora gruppo di pressione rivale. Il primo atto dell’episcopato di
Cirillo fu il pogrom
antiebraico, che precederà l’attacco all’establishment pagano, incarnato
in Ipazia.
Contro il doppio obiettivo, Cirillo aveva strumentalizzato le frange
intolleranti del deserto di Nitria,
«cui si dava nome di monaci ma che tali in realtà non erano», scrive Eunapio,
bensì fanatici
miliziani «che apertamente compivano e assecondavano crimini innumerevoli e
innominabili».
Questi talebani che avevano già distrutto e saccheggiato il
Serapeo vent’anni prima, sotto Teofilo,
zio e predecessore di Cirillo, sono gli stessi che tenderanno un agguato al
corteo di Ipazia e la
trucideranno «spogliandola delle vesti, facendola a brandelli con cocci aguzzi e
spargendo per la
città i pezzi del suo corpo brutalizzato», secondo lo storico cristiano Socrate;
«incuranti della
vendetta divina e umana», aggiunge il pagano Damascio.
La rappresentazione della violenza fondamentalista dei parabalani cristiani del
futuro monofisita
Cirillo è il punto di forza del film. Il suo maggiore merito è quello di
far riflettere sulla vocazione
estremista e sugli eccessi della Chiesa alle origini del suo potere,
riaccendendo un dibattito diffuso
nei secoli in cui un’intellettualità ecclesiastica esisteva e discuteva.
Perché nell’immensa fortuna
storica e letteraria della vicenda di Ipazia, cavallo di battaglia
dell’anticlericalismo illuminista da
Voltaire a Gibbon, ha avuto un ruolo più che ampio la cultura ecclesiastica,
anche ma non solo
riformata: se il primo editore delle fonti sul suo assassinio fu il protestante
Wolf e il suo più
appassionato difensore l’anglicano Kingsley, è stata quasi tutta cattolica la
rievocazione letteraria di
Ipazia, dalla torinese Diodata Saluzzo Roero a Leconte de Lisle, da Péguy a
Luzi.
In campo erudito, con la rilevante eccezione del giansenista
Tillemont, prudente e giustificatorio,
l’ala modernista del cattolicesimo ha analizzato spregiudicatamente le cause
politiche del misfatto
di Cirillo. E ha anche chiarito la reale personalità di Ipazia. Il suo profilo e
il suo sacrificio, così
importanti nella storia della politica e del pensiero, nel film sono
accattivanti ma troppo
semplificati, fino a essere tacciabili di quello stesso ideologismo di cui la
figura dell’antica filosofa
dovrebbe essere la negazione. Se vogliamo davvero renderle omaggio,
invece, non dobbiamo
perdere l’occasione di leggere la sua storia in modo non settario, ma
autenticamente laico.
Silvia Ronchey La Stampa 14 aprile 2010