Ipazia, la donna che osò sfidare la Chiesa
in difesa della scienza
Il convegno Due
giornate dedicate alla filosofa-astronoma martire in nome del libero pensiero
L’eroina Morì nel IV secolo d.C. per mano delle armate cristiane: voleva
«insegnare a pensare»
Ospitiamo in questa pagina un articolo di Mariateresa Fumagalli, storica della
filosofia, che anticipa i temi dei quali parlerà al convegno dedicato a Ipazia
il prossimo 20 aprile a Milano.
Avvolta nel suo mantello Ipazia percorreva, libera e armata dalla ragione, le
strade di Alessandria d’Egitto nel V secolo, parlando dell’Essere e del Bene,
della inessenzialità delle cose materiali, della fragilità della vita, della
bellezza della meditazione ai molti che la riconoscevano maestra di pensiero e
di vita. «Atena in un corpo di Afrodite». Era naturale che qualcuno si
innamorasse di lei e Ipazia con un gesto da filosofa «cinica» per disilludere
l’innamorato mostrava le sue vesti intime macchiate del sangue mestruale a
indicare lo «squallore della vita» e la verità dell’amore che deve superare il
corpo.
Cosa insegnava Ipazia ammirata anche dai suoi allievi cristiani? In una città dove pagani, cristiani e ebrei convivevano non sempre in pace? È quasi impossibile saperlo con certezza: degli scritti di Ipazia, matematica astronoma e filosofa soprattutto, seguace della scuola di Platone e di Plotino nella turbolenta Alessandria d’Egitto di quei secoli, nulla è rimasto. Paradossalmente quasi tutto quel che sappiamo del suo insegnamento lo apprendiamo dal suo allievo cristiano Sinesio, divenuto in seguito vescovo, ma non per questo meno filosofo. Sinesio la chiama «madre sorella e maestra» e nelle sue opere giovanili rispecchia probabilmente i temi del pensiero di Ipazia che si ispirava a sua volta a Plotino e, sembra, al suo allievo Porfirio. Un altro cristiano (chiamato Socrate Scolastico per distinguerlo da quello antico, il maestro di Platone) scrive che Ipazia «con la magnifica libertà di parola e di azione che le veniva dalla sua cultura si presentava in modo saggio davanti ai capi della città e non si vergognava di stare in mezzo agli uomini perché a causa della sua straordinaria sapienza tutti la rispettavano profondamente...». Dunque le cose erano un po’ più complicate di quel che appare nell’immagine convenzionale di Ipazia martire predestinata che in nome del libero pensiero e «in difesa della scienza sfida la chiesa». Per prima cosa c’è da chiedersi «quale scienza e quale chiesa»? La scienza e la filosofia insegnata da Ipazia e dai neoplatonici, erano saperi congeniali a una religione della salvezza fondata sui valori dello spirito come il cristianesimo. Molti storici definiscono del resto la religione cristiana una forma di platonismo.
Quanto
alla religione cristiana oramai istituzionale, è vero, dopo gli editti di
Costantino e Teodosio – la chiesa non era allora il corpo accentrato e potente
che diverrà, e viveva conflitti interni violenti, divisa in nestoriani, ariani
e altre sette. Niente di paragonabile alla forza organizzata e al pensiero
solido della chiesa romana di un millennio dopo ai tempi di Galileo (paragone
certamente anacronistico ma irresistibile a quanto pare). Da dove nasceva allora
il conflitto che opponeva filosofi e cristiani?
«La divisione non avveniva fra monoteismo e politeismo» (E.R. Doods) come siamo
abituati a credere: sia i filosofi pagani che quelli cristiani (Clemente,
Origene, Gregorio Nisseno) pensavano che Dio fosse incorporeo, immutabile e al
di là del pensiero umano. Per entrambi l’etica era «assimilazione a Dio»; si
trattava tuttavia di sapienti che leggevano in parte gli stessi libri e
assimilavano la virtù alla ragione.
UOMINI
COLTI, UOMINI SEMPLICI
Ma una differenza c’era: la filosofia neoplatonica parlava agli uomini colti,
mentre il Vangelo si rivolgeva ai «semplici», notava il pagano Celsio con
disprezzo e il cristiano Origene con orgoglio. È in mezzo a questi «semplici» o
«illetterati» che Ipazia trova i suoi nemici, cristiani che si rifugiavano per
forza di cose nella fede cieca diventando strumento dei più fanatici come del
resto aveva già notato ai suoi tempi, allarmato S. Gerolamo. È una storia che
si ripete. La massa degli illetterati e dei diseredati non aveva difese contro
la angoscia che invadeva le menti, agitava i sogni , annullava le speranze di
quei tempi duri. Alessandria, come e più di altre città di quei secoli, viveva
in una situazione di incertezza materiale e politica, timore di guerre, perdita
di identità, caduta del benessere, scomparsa del senso del bene comune, in una
età segnata dall’angoscia. Rancori profondi e paure indistinte armavano le mani
di coloro che erano in grado solo di ubbidire alle voci più estreme ascoltando
i suggerimenti di chi nutriva progetti personali di potere. Una donna che
andava sola per le vie annunciando la bellezza della filosofia, ossia la via
della liberazione attiva dalle passioni e i modi della contemplazione, era il
bersaglio naturale dell’odio che nasceva dalla paura. Ipazia parlava in
pubblico infrangendo antiche leggi scritte e non scritte , sconvolgeva
pericolosamente le misere certezze che i capi suggerivano: insegnava a
pensare, proprio lei, una donna, quell’essere che Aristotele aveva insegnato
essere un uomo «diminuito» e inferiore...
La politica aggiunse legna al fuoco: Cirillo vescovo di Alessandria, celebre
teologo, nemico del governatore imperiale Oreste a sua volte vicino a Ipazia,
ispirò o forse ordinò l’omicidio terribile della filosofa. Nel 1882 Cirillo di
Alessandria fu dichiarato da Leone XIII Santo e Dottore della Chiesa.
Mariateresa Fumagalli l’Unità 13.4.10