Ipazia. La donna
che sfidò la Chiesa.
"Lo so,/per noi tutti che vi fummo insieme in quei tempi/ Alessandria vibra
ancora della sua febbre
fina/ e anche del suo un po' frenetico deliquio…". Così Sinesio di Cirene,
dotto poeta e ragionatore
alessandrino, ricorda la città della sua giovinezza. La città dove si era
consumata, fra la fine del IV
secolo e l'inizio del V, nell'incendio della più grande biblioteca
dell'Antichità, l'ultimo "sogno della
ragione greca": simbolicamente massacrata nel marzo del 414 nel corpo di
Ipazia. Essa fu
matematica e filosofa neoplatonica, commentatrice di Platone e Plotino, Euclide,
Archimede e
Diofanto, inventrice del planisfero e dell'astrolabio - secondo quanto ci
riportano le poche
testimonianze giunte fino a noi. Perché della sua opera, come di quella del
padre Teone, anche lui
grande matematico, non c'è rimasto nulla. Eppure quei frammenti bastano a
testimoniare la fama e
l'ammirazione di cui godeva questa donna, che in Alessandria teneva scuola di
filosofia.
La sua uccisione, scrisse Gibbon in Declino e caduta
dell'impero romano, resta "una macchia
indelebile" sul cristianesimo. Perché fu massacrata, pare, da una
plebaglia fanatica ma eccitata alla
vendetta, si dice, dal vescovo Cirillo. Fu vittima quindi di un gioco
per la conquista della
supremazia politica sulla città di Alessandria: ma il delitto inaugurava,
con l'epoca cristiana, l'orrore
della violenza che invoca il nome di Dio invano - per la verità in tutti i
luoghi e i tempi dove una
religione diventa istituzione di potere terreno. Era da poco in vigore
l'editto di Teodosio, con il
quale, nel 391, il cristianesimo era stato proclamato religione di stato.
Il Sinesio che ho citato è in realtà la voce di Mario Luzi, che nello splendido
piccolo dramma Il
libro di Ipazia, pubblicato nel 1978, fa dell'antico discepolo della
filosofa alessandrina il testimone
pensoso di un'epoca di trapasso, di tramonto e di nuova barbarie: "Città
davvero mutata, talvolta
cerco di capire/se nel tuo ventre guasto e sfatto/si rimescola una nuova vita/o
soltanto la
dissipazione di tutto./E non trovo risposta". E' questa voce di poeta che
prendiamo a guida di una
possibile riflessione sull'impotenza della filosofia, della ricerca di ragioni e
di luce anche per
l'azione, quando essa lascia il suo "luogo alto, dove annidare la mente"
e scende sulla piazza. Dove come
dice a Sinesio uno sconsolato amico - "l'intimazione della verità è un'arte
di oggi,/come la
persuasione lo fu di ieri".
"Agora", appunto, si intitola il film su Ipazia del
regista spagnolo
Alejandro Amenábar, finalmente in arrivo anche da noi. Si dice che sia "un
duro atto d'accusa
contro tutti i fondamentalismi religiosi", tanto duro nei confronti del neonato
potere temporale della
chiesa da aver subito addirittura ostacoli e ritardi alla sua programmazione nel
nostro Paese.
Vedremo: in attesa, può ben essere la splendida figura di questo vescovo
perplesso a guidarci nella
riflessione. "Il suo destino sembra esitare incerto sopra di lui".
Sinesio, neoplatonico lui stesso, fu davvero in seguito eletto vescovo di Cirene:
quando ancora era
indeciso fra i due mondi, ancora perduto nel sogno dell'armonia fra la ragione
che governa le cose
terrene e il soffio sottile di quelle divine. In un tempo in cui, invece -
proprio come nel nostro - "la
sorte della città è precaria/esige risoluzioni forti, parole chiare
all'istante./Occorrono idee brevi e
decise - oppure cinismo".
Ipazia poi è diventata simbolo di molte cose. Il contrasto fra
gli Elementi di Euclide e la Bibbia, ad
esempio - "le due summae del pensiero matematico greco e della
mitologia ebraico cristiana", come
scrisse Odifreddi". Oppure la possibilità provata che anche le donne sappiano
pensare, ed eccellere
addirittura nelle scienze matematiche: e se guardate in rete troverete ancora
parecchie, un po'
incongrue, difese del pensiero "al femminile" condotte in suo nome (mentre
parrebbe difficile dare
un sesso alla geometria euclidea).
Ma noi ancora per un poco preferiamo farci guidare, prima ancora che dalla voce
di Sinesio, da
quella del poeta che lo anima. Mario Luzi ci accompagna fino nella più segreta
stanza notturna di
Ipazia, dove questa donna che "vede lontano", lontano al punto che "una
luce d'aurora" promana da
"quei discorsi accesi da un fuoco di crepuscolo" - conduce la sua ultima
conversazione con Dio.
"Sono come sei tu. Perché io sono te./Te e altro da te". E' colta di
sorpresa, Ipazia: e oppone
resistenza: "Perché ti manifesti ora? Sono stanca/e mi credevo compiuta."
Terribile la risposta: "Non
lo sei ancora. C'è tutta l'enorme distesa del diverso,/del brutale, del
violento/contrario alla geometria
del tuo pensiero/che devi veramente intendere". Che devi veramente
intendere: Ipazia così, nella
perfetta fedeltà al suo essere, che è amore del vero, filosofia, ricerca, Ipazia
alla cui parola "si
addice la temperatura del fuoco" si avvia verso quello che già intravede
come l'estremo sacrificio.
"Non c'è ritirata possibile, Sinesio./ Qualcuno ci ha dato ascolto, in molti
hanno creduto/nella forza
redentrice della nostra voce di scienza e di ragione./Dobbiamo deflettere a
lasciarli al loro
disinganno?". E ancora, il poeta dà voce alla speranza che infine è quella
di tutti noi, degli sconfitti:
"La nostra causa è perduta, e questo lo so bene./Ma dopo? Che sappiamo del
poi?/Il frutto scoppiato
dissemina i suoi grani."
Ma non c'è scampo. Ipazia viene trascinata in una chiesa, e
fatta a pezzi. "Così finisce il sogno della
ragione ellenica./Così, sul pavimento di Cristo".
Ecco: Ipazia e la sua Idea sono emblemi di un tale spessore, di una tale
profondità intellettuale e
spirituale, e di un modo d'essere fatto di luminosa intransigenza (così diverso
da quello di Luzi,
benché altrettanto preso nel sentimento dell'assoluto), che fantastico a volte
potesse trattarsi di una
figura capace di incarnare una vera alternativa - in quegli anni - alla
dialettica indulgenza di
"Sinesio". Cioè di Luzi.
Un ultimo sconsolato lume di intelligenza illumina una scena che si restringe
paurosamente dopo
questa tragedia. Alessandria è un ricordo lontano, e anche l'urto dei mondi, la
trasvalutazione dei
valori lo sono. La scena si chiude su una Cirene rimpicciolita fino a coincidere
proprio con quella
tanto piccola e meschina che è la nostra di oggi: "Spesso me lo ripeto:/
senza un'idea di sé/ da dare o
da difendere/non si regna, si scivola a intrighi di taverna".
Roberta De Monticelli la Repubblica 9 aprile
2010