IO SCHIAVO IN PUGLIA
Un giornalista si finge extracomunitario e scende nell'inferno pugliese, per smascherare i nuovi "schiavisti". Come sempre "cristiani".
Fabrizio Gatti, inviato del settimanale "L'espresso", è' un giornalista d'inchiesta; lo scorso anno fingendosi straniero immigrato in Italia senza permesso di soggiorno si lasciò recludere in un campo di concentramento per immigrati. Ecco il reportage di denuncia apparso su "L'espresso”.
Sfruttati. Sottopagati. Alloggiati in luridi tuguri. Massacrati di botte se
protestano. Diario di una settimana nell'inferno. Tra i braccianti stranieri
nella provincia di Foggia.
*
Il padrone ha la camicia bianca, i pantaloni neri e le scarpe impolverate. E'
pugliese, ma parla pochissimo italiano. Per farsi capire chiede aiuto al suo
guardaspalle, un maghrebino che gli garantisce l'ordine e la sicurezza nei
campi. "Senti un pò cosa vuole questo: se cerca lavoro, digli che oggi siamo a
posto", lo avverte in dialetto e se ne va su un fuoristrada. Il maghrebino parla
un ottimo italiano. Non ha gradi sulla maglietta sudata. Ma si sente subito che
lui qui è il caporale: "Sei rumeno?". Un mezzo sorriso lo convince. "Ti posso
prendere, ma domani", promette, "ce l'hai un'amica?". "Un'amica?". "Mi devi
portare una tua amica. Per il padrone. Se gliela porti, lui ti fa lavorare
subito. Basta una ragazza qualunque". Il caporale indica una ventenne e il suo
compagno, indaffarati alla cremagliera di un grosso trattore per la raccolta
meccanizzata dei pomodori: "Quei due sono rumeni come te. Lei col padrone c'è
stata". "Ma io sono solo". "Allora niente lavoro".
*
Non c'è limite alla vergogna nel triangolo degli schiavi. Il caporale vuole
una ragazza da far violentare dal padrone. Questo è il prezzo della manodopera
nel cuore della Puglia. Un triangolo senza legge che copre quasi tutta la
provincia di Foggia. Da Cerignola a Candela e su, più a Nord, fin oltre San
Severo. Nella regione progressista di Nichi Vendola. A mezz'ora dalle spiagge
del Gargano. Nella terra di Giuseppe Di Vittorio, eroe delle lotte sindacali e
storico segretario della Cgil. Lungo la via che porta i pellegrini al
megasantuario di San Giovanni Rotondo. Una settimana da infiltrato tra gli
schiavi è un viaggio al di là di ogni disumana previsione. Ma non ci sono
alternative per guardare da vicino l'orrore che gli immigrati devono sopportare.
*
Sono almeno cinquemila. Forse settemila. Nessuno ha mai fatto un censimento
preciso. Tutti stranieri. Tutti sfruttati in nero. Rumeni con e senza permesso
di soggiorno. Bulgari. Polacchi. E africani. Da Nigeria, Niger, Mali, Burkina
Faso, Uganda, Senegal, Sudan, Eritrea. Alcuni sono sbarcati da pochi giorni.
Sono partiti dalla Libia e sono venuti qui perché sapevano che qui d'estate si
trova lavoro. Inutile pattugliare le coste, se poi gli imprenditori se ne
infischiano delle norme. Ma da queste parti se ne infischiano anche della
Costituzione: articoli uno, due e tre. E della Dichiarazione universale dei
diritti dell'uomo. Per proteggere i loro affari, agricoltori e proprietari
terrieri hanno coltivato una rete di caporali spietati: italiani, arabi, europei
dell'Est. Alloggiano i loro braccianti in tuguri pericolanti, dove nemmeno i
cani randagi vanno più a dormire. Senza acqua, né luce, né igiene. Li fanno
lavorare dalle sei del mattino alle dieci di sera. E li pagano, quando pagano,
quindici, venti euro al giorno. Chi protesta viene zittito a colpi di spranga.
Qualcuno si è rivolto alla questura di Foggia. E ha scoperto la legge
voluta da Umberto Bossi e Gianfranco Fini: è stato arrestato o espulso perché
non in regola con i permessi di lavoro. Altri sono scappati. I caporali li hanno
cercati tutta notte. Come nella caccia all'uomo raccontata da Alan Parker nel
film "Mississippi burning". Qualcuno alla fine è stato raggiunto. Qualcun altro
l'hanno ucciso.
*
Adesso è la stagione dell'oro rosso: la raccolta dei pomodori. La
provincia di Foggia è il serbatoio di quasi tutte le industrie della
trasformazione di Salerno, Napoli e Caserta. I perini cresciuti qui diventano
pelati in scatola. Diventano passata. E, i meno maturi, pomodori da insalata.
Partono dal triangolo degli schiavi e finiscono nei piatti di tutta Italia e di
mezza Europa. Poi ci sono i pomodori a grappolo per la pizza. Gli altri ortaggi,
come melanzane e peperoni. Tra poco la vendemmia. Gli imprenditori fanno finta
di non sapere. E a fine raccolto si mettono in coda per incassare le sovvenzioni
da Bruxelles. "L'espresso" ha controllato decine di campi. Non ce n'e' uno in
regola con la manodopera stagionale. Ma questa non è soltanto concorrenza sleale
all'Unione Europea. Dentro questi orizzonti di ulivi e campagne vengono
tollerati i peggiori crimini contro i diritti umani.
*
Non ci vuole molto per entrare nel mercato più sporco dell'Europa agricola.
Qualche nome inventato da usare di volta in volta. Una fotocopia del decreto
di respingimento rilasciato un anno fa a Lampedusa dal centro di detenzione
per immigrati. E la bicicletta, per scappare il più lontano possibile in caso di
pericolo. Il caporale che pretende una ragazza in sacrificio controlla la
raccolta dei perini a Stornara. Uno dei primi campi a sinistra appena fuori
paese, lungo il rettilineo di afa che porta a Stornarella. Meglio lasciar
perdere. Per arrivare fin qui bisogna pedalare sulla statale 16 e poi infilarsi
per dieci chilometri negli uliveti. Il borgo è una piccola isola di case
nell'agro. Alla stazione di Foggia, Mahmoud, 35 anni, della Costa d'Avorio,
aveva detto che quaggiù la raccolta, forse, è già cominciata. Lui, che dorme in
una buca dalle parti di Lucera, è senza lavoro: lì a Nord i pomodori devono
ancora maturare. Così Mahmoud campa vendendo informazioni agli ultimi
arrivati in treno. In cambio di qualche moneta.
*
Oggi dev'essere la giornata più torrida dell'estate. Quarantadue gradi,
annunciavano i titoli all'edicola della stazione. Sperduta nei campi appare
nell'aria bollente una stalla abbandonata. E' abitata. Sono africani. Stanno
riposando su un vecchio divano sotto un albero. Qualcuno parla tamashek, sono
tuareg. Un saluto nella loro lingua aiuta con le presentazioni. La
segregazione razziale è rigorosa in provincia di Foggia. I rumeni dormono
con i rumeni. I bulgari con i bulgari. Gli africani con gli africani. E' così
anche nel reclutamento. I caporali non tollerano eccezioni. Un bianco non ha
scelta se vuole vedere come sono trattati i neri. Bisogna prendere un nome in
prestito. Donald Woods, sudafricano. Come il leggendario giornalista che ha
denunciato al mondo gli orrori dell'apartheid. "Se sei sudafricano resta pure",
dice Asserid, 28 anni. E' partito da Tahoua in Niger nel settembre 2005. E'
sbarcato a Lampedusa nel giugno 2006. Racconta che è in Puglia da cinque giorni.
Dopo essere stato rinchiuso quaranta giorni nel centro di detenzione di
Caltanissetta e alla fine rilasciato con un decreto di respingimento. Asserid ha
attraversato il Sahara a piedi e su vecchi fuoristrada. Fino ad Al Zuwara, la
città libica dei trafficanti e delle barche che salpano verso l'Italia. "In
Libia tutti gli immigrati sanno che gli italiani reclutano stranieri per la
raccolta dei pomodori. Ecco perché sono qui. Questa è solo una tappa. Non
avevo alternative", ammette Asserid: "Ma spero di risparmiare presto qualche
soldo e di arrivare a Parigi". Adama, 40 anni, tuareg nigerino di Agadez, ha
fatto il percorso inverso. A Parigi è atterrato in aereo, con un visto da
turista. Poi gli è andata male. Dalla Francia l'hanno espulso come lavoratore
clandestino. Ed è sceso in Puglia, richiamato dalla stagione dell'oro rosso.
"Questo è l'accampamento tuareg più a nord della storia", ride Adama. Ma c'è
poco da ridere. L'acqua che tirano su dal pozzo con taniche riciclate non la
possono bere. E' inquinata da liquami e diserbanti. Il gabinetto è uno
sciame di mosche sopra una buca. Per dormire in due su materassi luridi
buttati a terra, devono pagare al caporale cinquanta euro al mese a testa.
Ed è già una tariffa scontata. Perché in altri tuguri i caporali trattengono
dalla paga fino a cinque euro a notte. Da aggiungere a cinquanta centesimi o un
euro per ogni ora lavorata. Più i cinque euro al giorno per il trasporto nei
campi. Lo si vede subito quanto è facile il guadagno per il caporale. Alle due e
mezzo del pomeriggio arriva con la sua Golf. E la carica all'inverosimile.
"Davvero questo è africano?", chiede agli altri davanti all'unico bianco.
Nessuno sa dare risposte sicure. "Io pago tre euro l'ora. Ti vanno bene? Se è
così, sali", offre l'uomo, calzoncini, canottiera e sul bicipite il tatuaggio di
una donna in bikini ritratta di schiena.
*
Si parte. In nove sulla Golf. Tre davanti. Cinque sul sedile dietro. E un
ragazzo raggomitolato come un peluche sul pianale posteriore. Solo per questo
trasporto di dieci minuti il caporale incasserà quaranta euro. I ragazzi lo
chiamano Giovanni. Loro hanno già lavorato dalle 6 alle 12,30. La pausa di due
ore non è una cortesia. Oggi faceva troppo caldo anche per i padroni perché
rinunciassero a una siesta. Giovanni si presenta subito dopo, guardando
attraverso lo specchietto retrovisore: "Io John e tu?". Poi avverte: "John è
bravo se tu bravo. Ma se tu cattivo...". Non capisce l'inglese né il francese. E
questo basta a far cadere il discorso. Ma il pugnale da sub che tiene bene in
vista sul cruscotto parla per lui. Amadou, 29 anni, nigerino di Filingue, rivela
lo stato d'animo dei ragazzi: "Giovanni, oggi è venerdì e non ci paghi da tre
settimane. Ormai stiamo finendo le scorte di pasta. Da quindici giorni
mangiamo solo pasta e pomodoro. I ragazzi sono sfiniti. Hanno bisogno di carne
per lavorare". I tre euro l'ora promessi erano solo una bugia. Ma Giovanni
promette ancora. Quando risponde dice sempre: "Noi turchi". Anche se la targa
della macchina è bulgara. E per il suo accento potrebbe essere russo oppure
ucraino. "Ti giuro su Dio", continua il caporale, "oggi arrivano i soldi e vi
paghiamo. Tu mi devi credere. Io lavoro come te a Stornara. Non prendo in giro i
miei colleghi". Giovanni abita alla periferia. Un villino di mattoni sulla
destra, a metà del rettilineo per Stornarella. Quasi di fronte a un'altra stalla
pericolante senz'acqua, riempita di materassi e schiavi.
*
La Golf stracarica corre e sbanda sulla stretta provinciale per Lavello. Il
contachilometri segna 100 all'ora. Una follia. Alle prime aziende agricole del
paese, Giovanni svolta a destra dentro una strada sterrata. Altri due chilometri
e si è arrivati. Si prosegue a piedi, in fila indiana. Il campo è tra due
vigneti. Questi pomodori vanno raccolti a mano. Quando il padrone vede arrivare
il gruppo di africani, imita il verso delle scimmie. Poi dà gli ordini con gli
insulti resi celebri dal vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli: "Forza
bingo bongo". Nello stesso istante un furgone scarica nove rumeni. Tra loro tre
ragazze, le uniche nella squadra. Si lavora a testa bassa. Guai ad alzare lo
sguardo: "Che cazzo c'è da guardare? Giù e raccogli", urla il padrone
avvicinandosi pericolosamente. Si chiama Leonardo, una trentina d'anni. E'
pugliese. Indossa bermuda, canottiera e occhiali da sole alla moda come se fosse
appena rientrato dalla spiaggia. Da come parla è il proprietario dell'azienda
agricola. O forse è il figlio del proprietario. Si occupa della manodopera. Una
sorta di comandante dei caporali. La sua azienda è a una decina di chilometri,
alle porte di Stornara. Proprio sulla strada che Giovanni percorre per portare
gli schiavi al campo. Leonardo si fa aiutare da un altro italiano, il caporale
dei rumeni. Uno con la maglietta bianca, i capelli lunghi e i baffetti curati.
Il terzo italiano è probabilmente il compratore del raccolto. Magro. Capelli
biondi corti. Telefonino appeso al petto in fondo a una catena d'oro. Parla con
un forte accento napoletano. Parcheggia il suo Suv e si fa subito sentire.
Qualcuno ha appoggiato per sbaglio le cassette piene sulle piante di pomodoro. E
lui grida come un pazzo: "Il primo che rimette una cassetta sulle piante, com'è
vero Gesu' Cristo, gliela spacco sulla testa". I tre italiani sudano. Ma solo
per il caldo. Oltre a
sorvegliare i loro schiavi, non fanno assolutamente nulla.
*
Giovanni va a recapitare altri braccianti. Poi torna due volte con i
rifornimenti d'acqua. Quattro bottiglie di plastica da un litro e mezzo da far
bastare nelle gole di 17 persone assetate. Sono bottiglie riempite chissà dove.
Una zampilla da un buco e arriva quasi vuota. L'acqua ha un cattivo odore.
Ma almeno è fresca. Comunque non basta. Due sorsi d'acqua in oltre quattro ore
di lavoro a quaranta gradi sotto il sole non dissetano. La maggior parte dei
ragazzi africani non ha nemmeno pranzato né fatto colazione. Così ci si arrangia
mangiando pomodori verdi di nascosto dai caporali. Anche se sono pieni di
pesticidi e veleni. E forse è proprio per questo che sulla pelle, per giorni,
non comparirà più nemmeno una puntura di zanzara.
*
Leonardo vuole sapere com'è che in Africa ci siano i bianchi. Gira tra le
schiene curve come un professore tra i banchi. E dà il permesso a Mohamed, 28
anni, un ragazzo della Guinea. Per smettere di lavorare o parlare, qui bisogna
sempre chiedere il permesso. Mohamed sa bene perché ci sono i bianchi in
Sudafrica. E' laureato in scienze politiche e relazioni internazionali
all'Università di Algeri. Parla italiano, inglese, francese e arabo. E risponde
rimanendo in ginocchio, davanti a quell'italiano che confessa senza pudore
di non aver mai sentito parlare di Nelson Mandela. "Avete capito?", ripete dopo
un pò Leonardo agli altri due italiani: "In Italia quelli chiari stanno al Nord
mentre noi al Sud siamo scuri. In Africa invece al Sud sono bianchi e questi qua
del Nord sono neri".
*
L'incidente accade all'improvviso. Michele è il più anziano tra i rumeni.
Ha una sessantina d'anni, i capelli grigi. Sta caricando cassette piene sul
rimorchio del trattore. Il legno è troppo sottile, è secco. E una cassetta si
sfonda rovesciando dodici chili di pomodori. Michele non fa in tempo ad
abbassarsi a raccoglierli. Leonardo, con la mano chiusa a pugno, lo colpisce.
Una sventola sulla testa. "Stai attento, coglione", urla, "credi che noi stiamo
ad aspettare mentre tu butti le cassette?". Michele forse chiede scusa. E'
troppo stanco e offeso per parlare ad alta voce. "Scusa un cazzo", continua
Leonardo, "devi stare più attento". Ci fermiamo tutti a guardare. Una ragazza si
alza in piedi per protesta. Quello con l'accento napoletano accorre come una
furia: "Giù, non è successo niente. Giù o stasera non si va a casa finché non
si finisce". Come se questi ragazzi avessero una casa.
*
Michele ritorna a caricare il rimorchio aiutato da altri rumeni. Ma dopo
mezz'ora è ancora seduto a terra. Si tiene la testa. Perde molto sangue dal
naso. Un suo compagno di lavoro spreme un pomodoro maturo per bagnargli la
fronte. Cosa ha fatto lo spiega a Leonardo l'uomo con i baffetti curati: "Ho
dovuto spaccargli una pietra in mezzo agli occhi. Ho dovuto. Quello stronzo se
l'è presa con me perché tu prima l'hai picchiato. E poi perché stasera non ci
sono i soldi per pagarli. Ma che c'entro io? Lui ha raccolto una pietra e io
gliel'ho tolta dalle mani. Tu pensa se un rumeno di merda mi deve minacciare".
Leonardo sorride.
*
Si smette solo quando il sole va a nascondersi dietro i monti Dauni. Michele sta
meglio. I rumeni si raccolgono intorno al loro caporale. Giovanni scatta una
foto ai suoi ragazzi. Serve per i pagamenti e per scoprire se qualcuno scappa
dal gruppo. Poi fa firmare il registro con le ore lavorate. Oggi si finisce
prima del solito. Il perché lo racconta il caporale ad Amadou, in macchina
durante il ritorno: "Ci sono in giro i carabinieri". Giovanni segnala un campo
di pomodori lungo la strada: "Vedi qua? Questo pomeriggio i carabinieri sono
venuti a prendere dei miei ragazzi. Io lavoro anche qui. Africani come te e
rumeni. Li hanno portati via per il rimpatrio. Ma non avere paura, il campo
dove lavorate voi", dice indicandosi le spalle come se avesse i gradi, "è
controllato dalla mafia". Succede spesso quando è giorno di paga. A volte
sono gli stessi padroni a chiamare vigili, polizia o carabinieri e a segnalare
gli immigrati nelle campagne. Basta una telefonata anonima. Così i caporali
si tengono i loro soldi. E la prefettura aggiorna le statistiche con le
nuove espulsioni.
*
Amadou però fa notare che nemmeno oggi i ragazzi verranno pagati: "Tu sei
musulmano?", chiede Giovanni: "Sì? Allora io ti giuro su Allah che la prossima
settimana vi pago tutti. E se avete bisogno di carne, ti giuro che vi invito
tutti a casa mia. Ovviamente la prossima settimana. Quando potrete pagare la
carne".
*
Il 14 maggio 1904 qua vicino la polizia attaccò una manifestazione di
braccianti. C'era anche il giovane Giuseppe Di Vittorio. Morirono in quattro
quel giorno. Tra le vittime Antonio Morra, 14 anni, amico d'infanzia del futuro
leader sindacale. Adesso le proteste vengono spente prima che possano
dilagare. I caporali agiscono come una polizia parallela. Gli imprenditori si
rivolgono a loro se ci sono problemi. A cominciare dall'imposizione delle
regole: "Domani mattina vengo a prendervi alle cinque", annuncia Giovanni dopo
aver scaricato i suoi passeggeri. Sono quasi le dieci di sera ormai. Calcolando
una doccia improvvisata con l'acqua del pozzo e la misera cena, restano appena
cinque ore di sonno. I ragazzi africani spiegano subito le sanzioni. Chi
si presenta tardi, una volta al campo viene punito a pugni. Chi non va a
lavorare deve versare al caporale la multa. Anche se si ammala. Sono venti euro,
praticamente un giorno di lavoro gratis.
*
Una cinquantina di chilometri più a nord, stesse storie. La carta stradale
indica Villaggio Amendola. Era un borgo agricolo. Ora è solo un paese fantasma
riempito da immigrati rumeni e bulgari ridotti in schiavitù. Come l'ex
zuccherificio di Rignano o il Ghetto che la sera, al suono della township music,
sembra Soweto. Al Villaggio Amendola perfino la chiesa abbandonata è stata
riempita di materassi. Qui il cento per cento degli abitanti non è italiano.
Tutti raccoglitori. E tutti stranieri. Tranne una. Giuseppina Lombardo, 51 anni.
Viene dalla Calabria. Per gli agricoltori del posto è una santa donna. Lei e il
suo amico tunisino che si fa chiamare Asis sono capaci di mettere insieme una
squadra di raccoglitori di pomodori in meno di mezz'ora. Giuseppina e Asis con
gli schiavi ci campano. L'unico pozzo di Villaggio Amendola è loro. L'acqua è
inquinata ma la vendono ugualmente: cinquanta centesimi una tanica da 20 litri.
Anche l'unico negozio del borgo è loro. Hanno bottiglie di minerale, se uno
proprio non vuole perdere la giornata per la dissenteria. E hanno carne e
pollame: "A prezzi maggiorati del cento per cento e di dubbia qualità", dicono
gli abitanti. Non è facile infiltrarsi come immigrato in questo ghetto e vincere
la paura dei suoi prigionieri. Perché Asis, come tutti i caporali, non perdona
chi parla. Lui e la sua compagna qui sono l'unica legge. Chi c'era si ricorda
bene cosa è successo la settimana di Pasqua del 2005. Quel pomeriggio un ragazzo
rumeno, 22 anni, arrivato da appena quattro giorni, torna al Villaggio Amendola
con i sacchetti della spesa. E' stato a Foggia e cammina davanti al negozio del
caporale con quello che si è procurato. Una bottiglia d'olio, un po' di pasta.
Il testimone che parla con "L'espresso" è convinto che Asis abbia considerato
quel gesto una ribellione al suo controllo. I rumeni raccontano di aver visto
poco dopo due uomini affrontare il nuovo arrivato. Uno, secondo i testimoni, è
parente di Asis. Con una spranga lo centrano in mezzo alla testa. Un
colpo solo. Poi trascinano il corpo sanguinante e semisvenuto su un furgone.
Nessuno al villaggio rivedrà più quel ragazzo.
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Lo stesso accade il 20 luglio di quest'anno. Il giorno prima Pavel, 39 anni, ha
una discussione con Giuseppina Lombardo. Gli sono caduti quindici euro nel
negozio e lei crede che glieli abbia rubati dalla cassa. Pavel in Romania faceva
il cuoco per 150 euro al mese. Dal 20 marzo 2004, quando è arrivato in Puglia,
sopporta violenze e angherie. Lo fa per mandare quanto risparmia alla moglie e
alla sua "fata", la figlia studentessa, che ha 15 anni. Pavel ha braccia veloci.
L'anno scorso è riuscito a riempire fino a 15 cassoni al giorno: 45 quintali di
pomodori, lavorando dall'alba a notte. Con il cottimo a 3 euro a cassone, era
una buona paga secondo lui: tolti il trasporto al campo e la tangente per il
caporale, Pavel riusciva a guadagnare anche 25 o 30 euro al giorno. Ma il 20
luglio Asis gli impedisce di ripetere il record. Qualcuno gli ha riferito che
Pavel ha protestato per la faccenda dei soldi e per lo sfruttamento dei
braccianti. Il tunisino lo colpisce nel sonno, in una giornata senza lavoro,
alle due del pomeriggio. Pavel si protegge la testa con le braccia. La sbarra di
ferro gli rompe le ossa e apre profonde ferite nella carne.
*
Lui è sicuro di non essere stato ucciso soltanto per l'intervento dei suoi
compagni di stanza. Ma lo lasciano lì a sanguinare sul materasso fino all'una
di notte. Gli altri stranieri hanno troppa paura di Asis. Anche di chiamare
la polizia e correre il rischio di essere rimpatriati. Alle otto di sera
qualcuno finalmente telefona di nascosto all'ospedale. L'ambulanza e una
pattuglia dei carabinieri, al Villaggio Amendola, arrivano soltanto cinque ore
dopo. Così è andata, secondo la denuncia.
*
Il 31 luglio Pavel viene dimesso dall'ospedale di Foggia. E' stato operato da
appena quattro giorni. Ha quasi due mesi di prognosi. Ferri e chiodi nelle ossa.
Le braccia ingessate. Medici e infermieri lo consegnano alla polizia, violando
il codice deontologico. E in questura lo trattano da clandestino. Anche se dal
primo gennaio 2007 tutti i rumeni potrebbero essere cittadini dell'Unione
europea. Con le braccia immobilizzate, Pavel non riesce a impugnare la penna. Il
"Primo dirigente dottoressa Piera Romagnosi", siglando la notifica del decreto
di espulsione, scrive che lui "si rifiuta di firmare". Anche la prefettura di
Foggia va per le spicce: nel decreto di espulsione annota che Pavel è
"sprovvisto di passaporto". Un'aggravante. Eppure Pavel il passaporto ce l'ha.
Alla fine, non trovando alternative, un ispettore gli dona dieci euro. E una
macchina della questura lo riporta al Villaggio Amendola. Lo scaricano davanti
al negozio di Giuseppina e Asis. Il tunisino se ne occupa subito. Vuole
dimostrare a tutti chi comanda. Minaccia Pavel e lui va a rifugiarsi in un
casolare a un chilometro dal villaggio. Qualche connazionale gli porta in
segreto un po’ di pane e da bere. Dopo nove giorni di dolori e sofferenze un
amico rumeno riesce a contattare un avvocato di Foggia, Nicola D'Altilia, ex
poliziotto al Nord. L'avvocato trova il casolare. Incontra Pavel e lo riporta
immediatamente in ospedale. Le ferite sono infette. Il bracciante rumeno è
grave. Denutrito. Viene ricoverato per setticemia. Il resto è cronaca degli
ultimi giorni. Il 21 agosto Pavel è di nuovo dimesso dall'ospedale. Va in
questura a completare la denuncia contro il caporale tunisino e la sua complice
italiana, che era riuscito a presentare al posto di polizia del pronto
soccorso soltanto il 14 agosto. Lo accompagna l'avvocato che l'ha salvato. Ma
dopo una giornata in questura, la Procura fa arrestare Pavel come immigrato
clandestino: non ha rispettato il decreto di espulsione che, così è scritto,
lo obbligava a lasciare l'Italia dall'aeroporto di Roma Fiumicino. Non importa
se in quelle condizioni comunque non avrebbe potuto viaggiare. Lo costringono a
dormire su una panca di legno nelle camere di sicurezza. Nonostante le
operazioni, le ossa rotte e le ferite ancora fresche.
*
Il giorno dopo si apre il processo, immediatamente rinviato a ottobre. Oltre ad
aver perso il lavoro, grazie alla legge Bossi-Fini Pavel rischia da uno a
quattro anni di prigione. Più di quanto potrebbe prendersi il suo caporale
che intanto resta libero. "Quell'uomo", racconta Pavel terrorizzato, "mirava
alla testa. Voleva uccidermi".
*
Qualche bracciante morto da queste parti l'hanno già trovato. Slavomit R.,
polacco, aveva 44 anni quando è stato bruciato il 2 luglio 2005 in un campo a
Stornara. Un caso irrisolto. Come quello di due cadaveri mai identificati
abbandonati a Foggia. Le scomparse sono un altro capitolo dell'orrore.
Nessuno sa quanti siano i lavoratori rumeni, bulgari o africani spariti. I
caporali, quando li ingaggiano o li massacrano di botte, non sanno nemmeno come
si chiamano. Gli unici casi sono stati scoperti grazie alle denunce
dell'ambasciata di Polonia. Hanno dovuto insistere i diplomatici di Varsavia. E'
dal 2005 che cercano notizie di tredici connazionali. Erano venuti a lavorare
come stagionali nel triangolo degli schiavi. E non sono più tornati a casa.
L'elenco compilato in agosto dal consolato sulle ricerche delle persone
scomparse non rende onore all'Italia. Su dodici "richieste indirizzate alla
questura di Foggia", l'ambasciata ha dovuto prendere atto che per nove casi non
c'è stata "nessuna risposta da parte della questura". Dopo mesi di inutile
attesa l'appello è stato girato al Comando generale dei carabinieri. E,
attraverso gli investigatori del Ros, la Procura antimafia di Bari ha finalmente
aperto un'inchiesta.
*
Nessuno sta invece indagando sulla morte di un bambino. Perché quello che
è successo apparentemente non è reato. Il piccolo sarebbe nato a fine settembre.
Liliana D., 20 anni, quasi all'ottavo mese di gravidanza, la settimana di
ferragosto arranca con il suo pancione tra piante di pomodoro. La fanno lavorare
in un campo vicino a San Severo. Né il marito, né il caporale, né il padrone
italiano pensano a proteggerla dal sole e dalla fatica. Quando Liliana sta male,
è troppo tardi. Ha un'emorragia. Resta due giorni senza cure nel rudere in cui
abita. Gli schiavi della provincia di Foggia non hanno il medico di famiglia.
Sabato 18 agosto, di pomeriggio, il marito la porta all'ospedale a San Severo.
La ragazza rischia di morire. Viene ricoverata in rianimazione. Il bimbo lo
fanno nascere con il taglio cesareo. Ma i medici già hanno sentito che il suo
cuore non batte più. Anche lui vittima collaterale. Di questa corsa disumana che
premia chi più taglia i costi di produzione.
*
L'industria alimentare campana paga i pomodori pugliesi da 4 a 5 centesimi al
chilo. Sulle bancarelle lungo le strade di Foggia i perini salgono già a 60
centesimi al chilo. A Milano 1,20 euro quelli maturi da salsa e 2,80 euro
al chilo quelli ancora dorati. Al supermercato la passata prodotta in Campania
costa da 86 centesimi a 1,91 euro al chilo. I pelati da 1,04 a 3 euro al chilo.
Eppure, nel ghetto di Stornara, nemmeno stasera che il mese e' quasi finito ci
sono i soldi per comprare un pezzo di carne. "Donald, non te ne andare", si fa
avanti Amadou, "Giovanni è molto arrabbiato con te perché hai lasciato il
gruppo. Ti sta cercando, vado a dirgli che sei qui". Nel fondo di questa
miseria, Amadou sa già con chi stare. Tra tanti uomini costretti a
inginocchiarsi, lui ha scelto i caporali. E' il momento di prendere la bici e
scappare. Nel buio. Prima che Giovanni decida di chiamare i suoi sgherri. E di
dare il via alla caccia nei campi.
*
Scheda:
I medici accusano: arrivano sani e si ammalano qui. Vivono in condizioni disumane. Proprio in questi giorni decine di abitanti del Ghetto, tra Foggia e Rignano, si sono ammalati di gastroenterite per le pessime condizioni dell'acqua. Ma anche quest'anno, l'Asl Foggia 3 ha rifiutato di mettere a disposizione strutture e ricettari per assistere gli stranieri sfruttati come schiavi nei campi. La denuncia è dell'associazione francese "Medici senza frontiere" che invece ha ottenuto la collaborazione dell'Asl Foggia 2 per l'assistenza sanitaria e umanitaria nel sud della provincia. Da tre anni un ambulatorio mobile di Msf visita le campagne tra Cerignola e San Severo. Come se la provincia di Foggia fosse un fronte di guerra. Ci sono un medico, un'assistente sociale e un coordinatore: quest'anno Viviana Prussiani, Carla Manduca e Teo Di Piazza. "Per il terzo anno consecutivo siamo stati costretti a continuare questo progetto", spiega Andrea Accardi, responsabile delle missioni italiane di Msf: "E ancora una volta nell'estate 2006 ci troviamo di fronte alla stessa situazione: gli stranieri arrivano sani e si ammalano a causa delle indecenti condizioni che trovano nelle campagne. Manca qualsiasi forma di accoglienza. Il sistema economico è totalmente ipocrita e vede la connivenza e il coinvolgimento di tutti gli attori. A partire dal governo e dalle istituzioni locali, ovvero Comuni e prefetture, fino ad arrivare alle Asl, alle organizzazioni di produttori e ai sindacati".
Nel 2005 Msf ha pubblicato il rapporto "I frutti dell'ipocrisia" sulle drammatiche condizioni degli immigrati sfruttati come schiavi non solo in Puglia. Perché, secondo il tipo di raccolto, situazioni simili si ripetono in Calabria, Campania, Basilicata e Sicilia. Le malattie più gravi sono state diagnosticate negli stranieri che vivono in Italia da più tempo, tra 18 e 24 mesi. Il 40 per cento dei lavoratori nell'agricoltura vive in edifici abbandonati. Oltre il 50 non dispone di acqua corrente. Il 30 non ha elettricità. Il 43,2 per cento non ha servizi igienici. Il 30 ha subito qualche forma di abuso, violenza o maltrattamento negli ultimi sei mesi. E nell'82,5 per cento dei casi l'aggressore era un italiano.
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Scheda: Padroni senza legge
Dietro il triangolo degli schiavi ci sono gli imprenditori dell'agricoltura foggiana e molte industrie alimentari. Piccole o grandi aziende non fanno differenza. Quando devono assumere personale stagionale per la raccolta nei campi, quasi tutte scelgono la scorciatoia del caporalato. Il compenso per gli stranieri varia da 2,50 a 3 euro l'ora (ai quali però vanno tolti tutti i "servizi" per il caporale). Anche per questo gli italiani sono scomparsi da questo tipo di lavoro. Solo una piccola minoranza degli agricoltori interpellati da "L'espresso" dice di pagare i braccianti da 4 a 4,50 euro l'ora. Ma sempre in nero e rivolgendosi a caporali. In Veneto e in Friuli un raccoglitore guadagna in media 5,80 euro l'ora più i contributi, se in regola. Oppure da 6,20 a 7 euro l'ora se ingaggiato in nero. La legge prevede una retribuzione ordinaria di 35 euro al giorno. Per favorire le assunzioni regolari, il governo ha abbassato i contributi che gli imprenditori devono versare di circa il 75 per cento. Mentre il contributo dell'8,54% che il bracciante deve dare all'Inps è rimasto inalterato. I controlli sono inefficaci o inesistenti. Nell'ultimo anno in provincia di Foggia soltanto un imprenditore, a Orta Nova, è stato arrestato per sfruttamento dell'immigrazione clandestina.
FABRIZIO GATTI
da "L'Espresso", 1 settembre2006