INTERVISTA A PADRE SORGE

 

Da qualche mese i vescovi parlano, e parlano tanto. Parlano per affrontare gli argomenti sui quali Sorge si augurava intervenissero?

«La mia preoccupazione era, ed è, che, aldilà degli interventi sui problemi par­ticolari, i nostri vescovi esprimano una valutazione etico e religiosa sui proble­mi di fondo della difficile transizione del paese. Sulla grave emergenza de­mocratica (non basta dire che la devolu­tion recentemente varata è poco solidale); sull’implicazione della laicità (riconoscendo anche di fatto ai fedeli laici la loro responsabilità ed evitando anche solo la apparenza di cercare il favore dei potenti di turno). E sulle due princi­pali culture politiche che si confronta­no in Italia, non basta dire che sono en­trambe legittime perché democratiche; ai fedeli e ai laici preme sapere qual è più conforme alla Dottrina sociale della Chiesa: quella liberale o quella sociale e popolare?».

Parlano anche i politici: all’improvviso cristianesimo e Stato hanno l’idea di marciare a braccetto verso le elezioni. È un cammino democraticamente corretto?

«Non solo sono perplesso, ma contra­riato dalla ostentazione con cui, da qualche tempo, da una parte e dall’altra, si moltiplicano gli “incontri cordiali” tra leader politici e autorità religiose. Da un lato, mi fa piacere sapere che il mon­do laico oggi riconosce l’importanza so­ciale della religione. Lo sostiene ufficialmente perfino l’articolo 52 del trat­tato costituzionale europeo. D’altro lato vedo il pericolo gravissimo di vicendevole strumentalizzazione sia da parte dello Stato, sia da parte della Chiesa. Anche per questo, i frequenti inviti uffi­ciali a tenere lezioni e prolusioni, rivol­ti da istituzioni ecclesiastiche o da mo­vimenti cattolici a vertici istituzionali o a rappresentanti di partito (tutti di una medesima tendenza politica) può dare l’impressione che si stia instaurando in Italia un neo-collateralismo maschera­to».

Credo di capire: prolusione all’Università Lateranense di Casini, cardinale Ruini al fianco, e Fini invitato dall’Azione Cattolica all’incontro nazionale di Loreto, un anno fa. Ma dietro le maschere cosa c’è?

«È un dato che una certa borghesia, fi­no a ieri diffidente se non ostile alla Chiesa, adesso teorizza la necessità di una “religione civile”. Alludo ai così det­ti “atei devoti”. Ripeto: è positivo che og­gi si riconosca l’importanza sociale del­la religione e il suo statuto pubblico. Ma c’è il rischio che i partiti e lo stato si servano della religione a fini politici e che la Chiesa, a sua volta, si serva della politica a fini religiosi. Sarebbe una forma nuova e più sofisticata della vecchia “cristianità”, quando il trono e l’altare, la croce e la spada, si sovrapponevano. Sarebbe uccidere la profezia della Chie­sa e ridurre la religione a fenomeno culturale. Il Concilio Vaticano II ha defini­tivamente superato questa concezione strumentale dei rapporti tra Stato e Chiesa. La Chiesa - lo dice la costitu­zione Gaudiun, et Spes - non pone la sua speranza nei privilegi che l’autorità civile può offrire; anzi, deve essere pronta a rinunciare anche all’esercizio dei diritti legittimamente acquisiti se, usandoli, dovesse perdere di credibili­tà».

Lei dice che l’Europa ha riconosciuto l’utilità sociale della religione: l’impressione suscitata dalle polemiche sul rifiuto di considerare nello statuto le radici cristiane del continente, fanno pensare il contrario...

«Era prevedibile che la citazione delle “radici cristiane” non sarebbe entrata nell’articolato della costituzione, anche perché avrebbe potuto causare delicati conflitti interpretativi nel caso - per esempio - dell’ammissione in Europa di paesi di cultura e religione diversa - co­me la Turchia -. Il Preambolo, invece, essendo di natura storica e culturale, sembrava a molti il luogo adatto per ri­cordare l’influsso esercitato dal cristia­nesimo sulla nascita e la crescita dell’ Europa e sulla sua civiltà, senza con ciò ne­gare l’apporto di altre culture, come quella ebraica, greco-romana, islami­ca, illuminista. Cancellare il cristianesi­mo dalla storia europea equivale a can­cellare l’Europa. Ma nonostante il man­cato richiamo esplicito le radici cristia­ne in realtà sono ben presenti nel tratta­to costituzionale. Infatti, i valori fon­danti sui quali si basa l’Unione, elencati all’articolo 2 (dignità della persona umana, solidarietà, responsabilità sussi­diaria) sono tutti di origine religiosa e cristiana, anche se ormai divenuti laici. La loro presenza nel Trattato vale mol­to più del riconoscimento formale delle radici cristiane».

Si è detto che la candidatura di Bottiglione alla Commissione europea sia stata respinta proprio per il suo insistere sulle radici cristiane. Lo stesso Bottiglione lo ha ripetuto tante volte lamentando che una presenza portatrice di valori cristiani non piaceva al laicismo di certi paesi. Davvero questo il motivo della bocciatura del Ministro?

«Buttiglione non ha convinto con le sue risposte su diverse questioni la commissione esaminatrice. Per esempio: in tema di immigrati o di richiesta di asilo. Sul giudizio negativo della commissione ha pesato il fatto che Berlusconi non goda buona fama in Europa ed essere ministro del suo governo non ha certo giovato. Non si può escludere che le sue rigide dichiarazioni abbiano fatto il resto. Ma non è davvero il caso di farne un martire».

Quale significato dare alla decisione di papa Ratzinger di revocare la speciale autonomia concessa da Paolo VI ai francescani di Assisi nel 1969?

«La comunione ecclesiale è un bene fondamentale da salvaguardare sempre. È il comando del Signore. I carismi sono al servizio della Chiesa, non contro. Quando mettono in crisi l’Istituzione, in realtà la purificano e la fanno crescere. E viceversa, I “no” dell’Istituzione purificano e rafforzano i carismi, anche quando fanno soffrire e riesce difficile capirli ed accettarli. Perché da lato non mi scandalizza la decisione del Papa e dall’altra i francescani hanno fatto bene ad obbedite. La profezia, quan­do è autentica non si spegne con de­cisioni amministrative. Piuttosto, accet­tandole, si ravviva».

Sono tornato dall’America Latina (continente che ospita la maggioranza dei cattolici nel mondo) dove sacerdoti, vescovi, perfino qualche cardinale, confessano di soffrire la gestione romano-centrica di una chiesa che non riconoscerebbe le realtà locali, e le emargina. E’ vero?

«La gestione romano-centrica si spiega con il primato affidato da Cristo a Pie­tro e ai suoi successori, e poi per il fatto che Roma è la sede dei papi. Una cosa, però, è il primato, un’altra il suo esercizio: centralismo romano, appunto. Il ministero dei successori di Pietro non fa del Papa il “padrone” della Chiesa, ma “il seno dei servi”. I vescovi non sono i rappresentanti del Papa, ma i successo­ti degli apostoli. La richiesta di una maggiore collegialità episcopale non mette in discussione il primato, ma al­cuni aspetti del modo di esercitarlo. Questo può cambiare, come ha detto Giovanni Paolo II. Papa Ratzinger, ap­pena eletto, ha fatto capire che intende proseguire il discorso sull’esercizio del ministero di Pietro nel senso di ricono­scere una maggiore corresponsabilità alle chiese locali. Aspettiamo un suo gesto concreto in questa direzione».

Bisogna dire che anche in America Latina la Chiesa si manifesta con approcci diversi nel rapporto coi fedeli: teologi della tradizione, teologi della liberazione. Semplificando: destra e sinistra.

In Italia succede più o meno la stessa cosa. Ai sacerdoti che affrontano i problemi della società accanto alla gente, si contrappongono altri religiosi: sui giornali, in tv, libri e prediche, sostengono l’obbligo del buon cattolico di appoggiare le destre travestite da centro. Come spiega le tenerezze verso i potenti del momento?

«A quanti rifuggono da un riformismo coraggioso e parlano dell’impegno poli­tico dei cattolici in termini di “moderatismo”, chiedo semplicemente che studi­no la dottrina sociale della Chiesa. Nel­la Rerum Novarum, di Leone XIII (pubblicata nel 1891) fino all’ultima enciclica sociale di Giovanni Paolo II, la Cen­tesimus annus (1991), la dottrina socia­le della Chiesa si è sempre dichiarata­mente schierata per la solidarietà e in favore dei più deboli. Quindi agli antipodi del liberismo classico e del neo-li­berismo odierno. Come si può sostene­re che i cattolici devono essere per defi­nizione “moderati”? La vocazione dei cattolici in politica non è affatto quella di formare l’ala “moderata” dei diversi schieramenti. Lo stile cristiano di fare politica - è vero - comporta il rispetto dell’avversario e lo sforzo di capirne le giuste istanze rifiutando di fare della politica l’assoluto; ma ciò non ha nulla a che vedere con il “moderatismo” della politica conservatrice. Il Vangelo è esi­gente e “rivoluzionario”. I cattolici in po­litica sono portatori di un modo riformista e solidale di intendere il servizio del bene comune: sempre attenti alle neces­sità dei meno favoriti, coerenti coi valo­ri della fede e aperti alla collaborazione con tutte le forze del cambiamento. Pur rispettando il “moderatismo” di chi milita in partiti conservatori di ispirazione neoliberista, una cosa però è certa: cen­to anni di dottrina sociale della Chiesa indicano chiaramente ai cattolici un cammino diverso».

Rodrigo Tomic, politico cattolico cileno, uno dei pochi a contrastare la morbidezza con la quale i compagni di partito in un primo tempo avevano accolto il colpo di stato di Pinochet, quasi sollevati della “minaccia socialista” del governo Allende, ha scritto: «Quando si vince con la destra, è la destra che vince. Tra giustizia e ingiustizia non esiste il centro». Trent’anni dopo queste parole valgono per ogni paese?

«Mi permetterei di correggere la frase di Tomic. Più esattamente direi: quan­do si vince con chi non è profondamen­te democratico, vince sempre la dittatu­ra (sia essa di destra o di sinistra). Pur essendo d’accordo che tra giustizia e in­giustizia non esiste il centro, tuttavia aggiungerei che tra l’una e l’altra esiste sempre la possibilità, anzi, il dovere, di lottare contro l’ingiustizia per far pro­gredire la giustizia».

Guardando le foto in bianco e nero dei politici cattolici che hanno governato l’Italia, da De Gasperi a Moro, e guardando le foto a colori degli uomini oggi la potere. Cattolici o cattolicanti, ha nostalgia del passato?

«Non del passato, ma degli uomini del passato. Ritengo ridicolo (oltre che of­fensivo per la loro memoria) che qual­che “cattolicante” oggi osi dichiararsene erede».

 

MAURIZIO CHIERICI     L’Unità 30.11.05