Informazione e
immigrati ancora troppi stereotipi
Il turning point è la strage di Erba, un fatto di cronaca nera che più
nera non si può. Ma anche un
fatto di ordinario razzismo: il primo sospettato dell’orrenda strage fu il padre
e marito e suocero marocchino di tre delle vittime.
È allora che, per iniziativa dell’Unhcr e della Fnsi
nasce la Carta di Roma. Lo stereotipo razzista entra nei fatti di
cronaca come la lama nel burro, complici la fragilità
culturale e l’imperativo categorico del giornalismo: vendere copie, vincere la
gara dell’audience,
giocare sulla paura. Poi c’è il tempo della rivolta: gli eventi di
Rosarno per i quali i grafici mostrano un picco di attenzione dell’opinione
pubblica che stacca persino gli eventi sportivi.
È così che matura il progetto di un osservatorio coordinato da
Mario Morcellini (La Sapienza, Roma) ma al
quale partecipano molti altri atenei, da Torino a Palermo: un network con
l’Alto commissariato Onu
per i rifugiati, con le associazioni, i politici, gli imprenditori che si
occupano dei problemi
dell’immigrazione per tenere sotto osservazione le testate giornalistiche, i
loro vizi e le loro virtù, in
bilico fra il mostro sbattuto in prima pagina, salvo poi a ricredersi e il
“buonismo” dietro cui si
nasconde un’altra insidia.
La spiega Mario Calabresi, direttore della Stampa: «Un punto
di vista
buono suona bene se si parla di immigrazione ma non suonerebbe bene se quella
benevolenza fosse
rivolta al potere politico». Vuol dire che non può essere quello l’approccio
corretto di chi fa il
mestiere del giornalista. Approccio corretto è, per esempio, «la normalità
della presenza dei
macedoni senza cui in Piemonte non si produrrebbe più Barolo» O la normalità dei
lavoratori
stagionali nella raccolta delle arance, dei pomodori, dell’uva.
Bad news and Good news vengono fuori dal
rapporto sul nostro mestiere. Cattivo, lo sottolinea
Laura Boldrini, è «l’atteggiamento acritico con cui si accolgono le
dichiarazioni istituzionali». Per
esempio: il ministro dell’interno Maroni che all’origine della rivolta di
Rosarno mette «la troppa
tolleranza verso i clandestini». Quando invece, il 70% dei braccianti avevano
regolare permesso di
soggiorno ma lavoravano in nero. Clandestini, quindi, i datori di lavoro. Per
esempio quando si
indica come obiettivo di contrasto agli ingressi irregolari Lampedusa: poche
migliaia di persone a
fronte dei 400mila l’anno di nuovi immigrati che arrivano. E ora si indica
Malpensa, «ma
all’aeroporto milanese sono pochissimi quelli che tentano l’ingresso
irregolare». Disperati sì ma
fessi no, verrebbe da dire, e lo spiega Claudio Martelli, che firmò da ministro
la prima legge
sull’immigrazione italiana: «Almeno la metà dei respinti di Lampedusa hanno
diritto all’ingresso
perché vengono da teatri di guerra mentre ve lo immaginate uno che tenta di
superare senza
documenti la barriera doganale di un grande aeroporto internazionale?».
Fra le cattive notizie Laura Boldrini ricorda un titolo di
Feltri: «Stavolta hanno ragione i negri». La
parola negro ha una storia ed è una storia di disprezzo. E verrebbe da
aggiungere un titolo tre volte
razzista: gli immigrati africani hanno di solito torto, fa notizia, quindi, che
abbiano ragione ma,
guarda caso, hanno ragione contro una popolazione del sud, «terroni», direbbe
Feltri.
Fra le notizie buone c’è, invece, l’attenzione alle spiegazioni sociali, di
contesto che una parte del
gionalismo ha cercato durante i giorni della rivolta (particolarmente elogiata
La Stampa):
l’erogazione dei finanziamenti Ue ai frutti lasciati sugli alberi, il prezzo
bassissimo pagato per le
arance al coltivatore. Fra le notizie buone c’è anche l’ingresso, nelle testate
nazionali, di giornalisti
e scrittori che parlano in prima persona della condizione degli immigrati, come
Igiaba Scego e
Amara Lakhous sulle pagine de L’Unità. Peccato, nota Concita De Gregorio, che
siano «cose che
non fanno notizia, così come da noi non fa notizia ciò che è importante nel
resto del mondo». In
Italia, «ha vinto il giornalismo del gossip - fa eco Marco Sassano -
eppure noi le inchieste le
sapevamo fare».
Jolanda Bufalini l'Unità 21 luglio 2010