INFANTILIZZATI DAL COMMERCIO

Federico Ramini intervista Benjamin Barber

 

Nel 1995 scrivendo Guerra santa contro McMondo, Benjamin Barber anticipò di sei anni lo choc che l'America avrebbe provato poi con l'attacco alle Torri Gemelle: la scoperta che globalizzazione capitalista e radicalismo islamico possono rafforzarsi vicendevolmente. Tre anni fa, prima del collasso finanziario di Wall Street e della recessione globale, col suo ultimo saggio ha previsto l'implosione di un modello economico fondato sull'indebitamento. Ora che questo libro esce da noi - Consumati. Da cittadini a clienti (Einaudi, pagg. 492, euro 21) - il lettore italiano può scoprirvi molto più di una critica all'iperconsumismo. Barber è scienziato della politica oltre che dell'economia: il suo allarme riguarda la trasformazione della figura del cittadino, la perdita di libertà e sovranità, la privatizzazione della sfera pubblica. Sono i temi ai quali consacra la sua vita di militante della democrazia partecipativa, nella sede dell'associazione Demos dove lo incontro a NewYork

Professor, Barber, uno dei temi centrali di Consumati è la regressione allo stadio infantile verso cui il capitalismo moderno spinge i consumatori. Lei la definisce la sindrome di Peter Pan, Il fenomeno è mondiale, perché l'epicentro originario è qui in America?

«Perché uno degli aspetti affascinanti dell'America, nazione giovane, è una sorta d'innocenza originale: l'idea che qui tutto può ricominciare, un mito particolarmente importante per gli immigranti. Il Nuovo Mondo è sempre stato affascinato dalla gioventù, e questo è positivo. Il lato oscuro invece ha a che vedere con lo sfruttamento dell'ingenuità infantile. Nella sfera economica si assiste da tempo a una banalizzazione, un'infantilizzazione dei consumi, un istupidimento delle merci e anche dei prodotti culturali per far sì che siano appetibili agli adolescenti o ai bambini. In parallelo occorre dare potere economico agli adolescenti e ai bambini, perfino le carte di credito, per conquistare fasce di acquirenti sempre più precoci».

 Non è sempre stato nella natura del capitalismo, il voler creare nuovi mercati, nuove fasce di consumatori?

«Dalle sue origini il capitalismo occidentale ha avuto la capacità di soddisfare reali bisogni di massa, e quindi aveva un'utilità sociale, che si conciliava con l'arricchimento privato e l'accumulazione del capitale in mano alla borghesia industriale. Inoltre l'etica protestante della gratificazione differita esaltava la virtù del risparmio e questo favoriva l'investimento. Per 400 anni questo sistema ha funzionato così bene da sfociare in una situazione, dopo la seconda guerra mondiale, in cui gran parte del ceto medio nei paesi sviluppati aveva ormai soddisfatto tutti i suoi bisogni. Di fronte al rischio di una crisi della crescita il capitalismo ha operato una riconversione: si è messo a produrre bisogni ancora prima di produrre beni. Quello fu l'inizio dell'era del sovraconsumo, l'inaugurazione del nuovo ethos infantilista».

 Che ruolo gioca l'infantilizzazione del consumatore, o quello che lei definisce la trasformazione dell'adulto in un "adolescente"?

«Il capitalismo contemporaneo esalta lo spendere anziché il risparmiare, il vendere anziché l'investire. L'idea di servire la società è sostituita dall'edonismo, la centralità del piacere, il servire se stesso. Adolescenti e bambini diventano l'archetipo, il modello del consumatore ideale perché sono impulsivi, non riflettono a lungo prima di comprare. Perciò il marketing e la pubblicità hanno spostato le frontiere dei consumi verso fasce d'età sempre più basse: prima gli adolescenti, ora anche i bambini di tre anni».

 

È cambiato anche il consumatore adulto. Abbiamo la sindrome di Peter Pan, il mito dell'eterna giovinezza, incoraggiato dalla pubblicità e dall'entertainment.

«Sì, la beatitudine viene associata al restare anche in età adulta dei consumatori-bambini, egocentrici che dicono "io voglio" per sempre. E' un'operazione culturale di livellamento verso il basso. Il capitalismo entra in conflitto con sistemi di valori più antichi come le religioni, per esempio nella visione del ruolo parentale. Le religioni hanno sempre cercato di rafforzare l'autorità dei genitori. Per il capitalismo contemporaneo invece i genitori sono i "guardiani del cancello", degli ostacoli fra l'adolescente e il consumo. Di qui una pressione fortissima per abolire la disciplina parentale. Il capitalismo moderno è la combinazione di questi due ele­menti: l'invenzione di bisogni e l'infantilizzazione della società adulta».

Nel saggio Consumati lei non si ferma qui. Il passaggio successivo è la denuncia delle conseguenze per la democrazia.

«Nel capitalismo attuale la nostra identità primaria e soverchiante è quella di consumatore, non cittadino. Il ruolo dello Stato viene sminuito, svuotato, contestato. La stessa politica diventa marketing, i candidati si vendono come prodotti di largo consumo. Si consolida l'idea che l'unico modo attraverso cui noi esercitiamo una forma di potere, è quando compriamo».

 Questo è vero anche nella versione di sinistra, militante: tanti movimenti si propongono di cambiare il mondo operando sulle scelte di consumo. Slow Food c'insegna a promuovere lo sviluppo sostenibile quando facciamo la spesa alimentare. Fair Trade ci spinge ad acquistare il caffè e il cacao attraverso una filiera di commercio equo che by-passa le multinazionali e aiuta i contadini dei paesi in via di sviluppo. Eppure lei contesta anche questo.

«Perché anche questa è una favola per bambini, una favola a lieto fine, l'idea che si cambia il mondo attraverso il consumo privato. La scuola dei nostri figli, l'equilibrio climatico del pianeta, l'indipendenza energetica: in tutte queste sfere il cambiamento non può venire semplicemente da scelte individuali di spesa. E' l'ammissione di una disfatta, se noi ci ritiriamo nella sfera dell'azione privata - sia pure il consumo "verde" e terzomondista - e abdichiamo al nostro ruolo nella politica».

 Lei denuncia una distruzione del tessuto civico.

«E proprio il risultato della centralità del consumo. Razionalmente come consumatore io vado a fare la spesa all'ipermercato Wal-Mart perché lì tutto costa meno, ed è made in China. Così facendo collaboro alla distruzione di un tessuto sociale di piccolo commercio, piccolo artigianato, e trasformo le città americane in deserti civici».

 La sua ricetta è paradossale: ritornare al capitalismo delle origini?

«Il vero paradosso è che viviamo in un mondo dove chi ha il denaro non ha più dei bisogni reali, mentre chi ha ancora enormi bisogni insoddisfatti, non ha potere d'acquisto. Dobbiamo costringere il capitalismo alla sua vocazione primaria: soddisfare i bisogni materiali dove ci sono. È qui che c'è spazio per una nuova crescita, più sana ed equa. Non è l'illusione di un capitalismo altruista, bensì l'uso della molla del profitto al servizio delle domande più urgenti per l'umanità».

 

La Repubblica 15.03.2010