Indietro tutta
Non sorprende che Camillo
Ruini, il più autorevole dei nostri vescovi, intervenga così frequentemente
sulle scelte del governo italiano. C'è da chiedersi perché si permetta di farlo
ora. La gerarchia cattolica non ha mai accettato fino in fondo la separazione di
campo tra stato e chiesa. Non è una novità. È dal famoso «non expedit» che i
cattolici si sono sentiti addosso l'interdizione vaticana a partecipare alla
sfera politica ed è un merito della democrazia cristiana di De Gasperi essere
riuscita a far ritirare di fatto questa proibizione, lasciando alla destra o
alla disinvoltura di Craxi farsi portavoce dei principi e dei bisogni che
oltretevere erano cari. L'avere scomunicato nel dopoguerra chi votava comunista
aveva finito con il rivolgersi contro la stessa chiesa e dall'interno del suo
stesso gregge. E certo anche per la riflessione aperta dal Vaticano II, sebbene
dopo la morte di Giovanni XXIII e del tormentato Montini quel processo sia
andato lentamente chiudendosi. In ogni modo le relazioni tra stato e chiesa
parevano aver finalmente imboccato una strada corretta. Non che Giovanni Paolo
II non facesse sapere quel che pensava di molti aspetti della modernità, a
cominciare dalla controversa questione della libertà sessuale; ma i suoi
messaggi si indirizzavano al mondo, e non erano - mi sembra - un intervento
diretto nel fare quotidiano delle istituzioni pubbliche.
È dal suo tramonto che la chiesa ha ricominciato a ribadire
che il cattolicesimo non riguarda soltanto la coscienza del singolo ma è una
scelta obbligata dell'intera nazione italiana. Ed è da allora che la chiesa
ottiene dal governo, con la modesta correzione del capo dello stato, inchini e
nuovi privilegi (come la detassazione del suo immenso patrimonio immobiliare) e
riceve non solo dalla Casa delle libertà - è di ieri la «speciale convergenza»
registrata da Berlusconi e Ratzinger - ma dalla sinistra un ossequio che non
aveva neppure più sperato di avere.
Ed è questo, non la persuasione da parte della santa sede
di detenere la verità rivelata e di imporla a tutto l'universo, che fa scandalo.
Lo scandalo è tutto dalla parte della sfera statuale.
Era cominciato da prima della morte di Giovanni Paolo II,
ricevuto dal parlamento più che come un ospite di riguardo come il vero maestro
del paese, tanto che ormai una targa commemora l'ingresso di quegli augusti
piedi nella sede del potere legislativo. Oscar Luigi Scalfaro, credente sul
serio, non lo avrebbe mai permesso. È stato dunque un processo, una svolta tutta
interna alla scena politica. Forse l'inizio sta nella definizione sempre più
diffusa di quel pontefice come la massima autorità morale del nostro tempo -
aveva cominciato Massimo Cacciari, che del cristianesimo fa davvero tutto - ma
poteva essere un seppur smisurato omaggio. Ma poco tempo fa Giuliano Amato
apriva dalla sua posizione di laico di sinistra un discorso nel quale
riconosceva alla chiesa di Roma un alto magistero e l'additava in particolare
come modello di tolleranza.
Affermazione davvero temeraria da parte di un uomo così colto giacché non
occorre riandare alle crociate o all'inquisizione per ricordare che la
tolleranza non è stata certo la sua principale virtù. Basta rifarsi al
dopoguerra, dalle dirette pressioni esercitate su Dossetti poi sulla sinistra
cristiana e infine sullo stesso Franco Rodano fino al recente gesto di fastidio
con il quale GIovanni Paolo II allontanava da sé Leonardo Boss che gli si era
gettato in ginocchio davanti. Ad Amato sono seguite dichiarazioni più goffe da
parte dell'ex sinistra. Lasciamo stare Pera e Casini, l'ultimo dei due
distintosi per la differenza che fa tra laicità, ammessa, e laicismo,
condannato. Piero Fassino sentiva di colpo il bisogno di dichiarare che, essendo
stato educato dai gesuiti non poteva che provare sentimenti di venerazione per
la chiesa. Seguito rapidamente da Fausto Bertinotti che ha fatto sapere via
stampa di avere un problema tutto interiore con Dio, si è intrattenuto con i
vescovi sulla trascendenza e ieri l'altro dichiarava al
Corriere della sera
che soltanto la chiesa può essere ai nostri giorni un punto di riferimento
morale e che chi, come lui, riflette specialmente sull'uomo, non può non
riflettere anche su Dio. Il giorno seguente Piero Sansonetti, su
Liberazione,
glielo contestava in forma garbata con ragionamenti del tutto condivisibili.
Non so se questa improvvisa ondata di religiosità un po'
sia un modo poco elegante per acchiappare voti di centro, come candidamente
confessa Livia Turco, nel lodevole intento di toglierci di torno Berlusconi, o
se sia ormai così enorme nella cultura dei nostri leader, sinistra e destra per
una volta unite, la confusione di idee fra religiosità, cristianesimo,
cattolicesimo e chiesa. Termini dei quali uno solo ha una identità storica
indiscutibile ed è il cristianesimo, la religiosità essendo una inclinazione
psicologica, il cattolicesimo riflettendo solo una parte dei cristiani, e la
chiesa di Roma essendone soltanto l'espressione che più temporale di così non
potrebbe essere, con tutti i terrestri guai che alla temporalità sono connessi.
Quale che sia l'interpretazione autentica, la leadership
politica della sinistra o ex sinistra ci fa sapere che il suo revisionismo è
andato molto ma molto più in là di quanto sia stato fino a un paio di anni fa.
Fino a persuadersi, gli uni soddisfatti gli altri con preoccupazione, di essere
del tutto sprovvisti e incapaci di un'etica. E di avere scoperto di esserlo
sempre stati, come se il fatale illuminismo, con la dichiarazione che l'uomo è
peribile e deve a se stesso ogni responsabilità di quel che avviene o non
avviene in terra, non fosse stato una rivoluzione di ordine non solo culturale
ma morale nella storia europea. Come se l'azzeramento della modernità, l'attacco
alle illusioni della ragione rispetto alle ragioni non più del cuore ma
addirittura delle viscere avesse ormai debordato i limiti di una riflessione
critica per assumere il carattere di una esorcizzazione di tutto quel che è
successo fuori dai palazzi vaticani da Montaigne ai tempi nostri.
Francamente più che una crisi di cultura sembra una crisi
di ignoranza. Se non siamo, e non lo siamo, volgarmente progressisti, dobbiamo
ammettere che la storia non è tutta un andare avanti, che le regressioni
esistono, e che la riduzione della politica ai giorni nostri, forse in
particolare in Italia, fa di essa il più clamoroso e mediatizzato veicolo.
rossana rossanda il manifesto
20-11-05