Ieri sera, primo Marzo, abbiamo visto a via Caffaro l'importante film " UN MONDO A PARTE" (1988) di Chris Menges. Questo articolo, uscito oggi, può essere molto importante per chi ha partecipato al cineforum. Ed anche per chi non è venuto. Chissà perchè...... visto che l'apartheid si trova anche tra noi. Mah!
«Quando ho chiesto lavoro dei bianchi mi hanno risposto: fattelo trovare da
Mandela. È duro vivere così, siamo poveri». Si aggira intorno a un centro
commerciale cercando di vendere delle lunghe salsicciotte chiamate braaiwors,
avrà una ventina d’anni e riprende il suo girovagare nel parcheggio controllato
per pochi spiccioli da un ragazzo nella divisa di una delle onnipresenti società
private di sorveglianza. Il paesino di Hazyview disegna una delle vie d’accesso
al celeberrimo parco Kruger, nella provincia del Mpumalanga nel Sud Africa,
territorio in cui case sparpagliate si addossano caoticamente sulle colline per
chilometri e parole.
Il venditore ambulante tradisce un’amarezza, una rabbia, un qualcosa che la
terra liberata dall’apartheid appena 15 anni fa non può nascondere. Il divario
sociale ed economico tra neri e bianchi è enorme, sconcerta, in una terra di
straziante bellezza, dalle fortissime potenzialità, incredibile crogiolo di
etnie, lingue e culture. Molte ferite ancora chiedono di essere rimarginate.
Il Sud Africa, esteso quattro volte l’Italia, ad aprile avrà le sue quarte
elezioni democratiche e nel 2010 ospiterà i Mondiali di calcio. Come capita
dappertutto, e anche per attirare investitori, la scadenza sportiva spinge lo
Stato a mettersi a lucido, ammoderna le infrastrutture e la buona rete stradale,
amplia pure i piccoli aeroporti di cittadine che non avranno nemmeno una
partita, sta costruendo sei stadi: quello di Città del Capo avrà 60mila posti e
al momento è in piedi lo scheletro. La minoranza bianca, un tempo era un quinto
della popolazione, ora nemmeno quello, per quasi tutto il ‘900 ha confinato la
stragrande maggioranza nera in una sorta di gigantesco campo di lavoro forzato
secondo un modello di Stato razzista che un Hitler redivivo avrebbe gradito.
Con un’ideologia para-nazista, qui i bianchi divisero gli abitanti per razze:
loro in cima alla scala, con libertà e privilegi, nei gradini in fondo i neri,
senza diritti, soffocati da repressioni, restrizioni e leggi sanguinarie, in
mezzo tutti coloro che non rientravano nelle due categorie, i «coloured».
Nessuna zona veniva risparmiata. «No, neanche quassù nel remoto nord,
l’oppressione allentava la presa», sospira John, sui 50-55 anni, ora guida nel
parco del Kgalagadi, nel deserto del Kalahari. Ha la pelle troppo scura e un
sorriso troppo amaro per non aver sofferto il regime.
«Ho 29 anni e per fortuna la mia generazione non ha vissuto l’apartheid al
massimo della sua durezza – ricorda Erfaan Hassen – tuttavia lo rammento
benissimo. Da piccolo non potevo andare in quella bella spiaggia bianca a sud di
Città del Capo, mi era vietato». Erfaan, sposato, due figlie, musulmano, è un «coloured».
Scherza lui stesso, nel dirlo. Ha la carnagione molto nera. E due sorelle di
pelle chiara come il suo interlocutore italiano, aggiunge sorridendo come per
sottolineare la sterminata e artificiosa imbecillità di chi suddivise la
popolazione in razze. «Questa è la terra delle tante etnie. E di Nelson Mandela»,
rivendica con fierezza. «Quando uscì di prigione nel ’90, dopo 27 anni, tutti si
aspettavano parole di rabbia, un incitamento alla rivolta. Invece sorprese con
la sua calma, con il suo pensiero, aveva studiato Gandhi, e condusse il paese
fuori dall’apartheid evitando un bagno di sangue».
Nel ’94 l’«african tip», la punta estrema del continente, ebbe le sue prime
elezioni democratiche e uscì dall’incubo attraverso un’esperienza forse unica
nella storia, la Commissione della verità e della riconciliazione: chi aveva
torturato, ucciso, imprigionato impunemente poteva confessare in pubblico i
propri crimini e ottenere allora il perdono collettivo. Un lavacro psicologico e
politico che scosse l’intera nazione. C’è chi confessò. Molti no. Lo ricorda una
straziante mostra sull’attivista nero Steven Biko e sui tantissimi uccisi dalla
polizia, nello «Slave Lodge» di Città del Capo, edificio coloniale che
comprimeva in stanze buie centinaia e centinaia di schiavi alla volta e oggi è
un museo sulla schiavitù. Biko, arrestato nel settembre 1977 a Port Elizabeth,
morì per le botte e le torture. I poliziotti presunti responsabili e medici
troppo reticenti non hanno mai ammesso quell’assassinio legalizzato. Commenta un
pannello: se nessuno confesserà l’evidente verità resterà mutilata.
«Per quanto il nostro paese abbia grandissime possibilità e sia una democrazia,
il potere economico è rimasto in mano ai bianchi», osserva amaro Erfaan. Facile
constatarlo. I bianchi hanno alberghi, industrie. Nei parchi affollati da leoni,
elefanti, antilopi e altre bestioline che mandano in sollucchero i turisti i
visitatori di colore sono una percentuale minima o assenti. Nei distributori di
benzina, nei piccoli hotel e bed & breakfast, nella sorveglianza diurna e
notturna, nelle piantagioni di canna da zucchero, la manodopera è nera e a basso
costo.
Nel nord est del paese, nel Mpumalanga, provincia del KwaZulu-Natal, tanti si
spostano a piedi lungo le strade. Benché, ed è un’altra sfaccettatura di questo
complesso caleidoscopio, in un decennio e mezzo il paese abbia compiuto passi da
gigante. La squadra di rugby, simbolo della nazione, dal '94 è mista e
fortissima.
Secondo statistiche ufficiali il tasso di disoccupazione nel 2001 era sul 34%,
nel 2005 sul 26,9%, nel secondo semestre del 2008 era sceso al 23% con 4 milioni
e 110 mila disoccupati. Perché, per quanto da perfezionare, la democrazia
sudafricana è giovanissima e l’eguaglianza dei diritti resta una conquista
immensa. Lo rievoca una performance teatrale a Langa – con 80mila abitanti una
delle township (agglomerati ghetto creati per alloggiare la forza lavoro nera in
condizioni di mera sopravvivenza) intorno a Città del Capo.
Due attori, Monwabisi Sopitshi e Zamile Hlili, rivivono il momento del loro
primo voto: «Se metto una croce qui, il mio passato scomparirà», declama
Sopitshi, il più anziano. Poi alla sera in un baretto nel centro urbano il tg
informa che Obama ha telefonato al presidente sudafricano perché vuole venire in
visita ufficiale. Un anziano addetto alle pulizie e la signora dietro il banco
scattano a guardare la tv. «Ne siamo orgogliosi», esclamano. Poi l’uomo, un po’
acciaccato, forse avrà dolori alle ossa, riprende a pulire il pavimento.
Stefano Milian L’unità 2/3/09