Idratazione forzata
Ieri il Senato ha messo in minoranza Aldo Moro. È successo alle 11 e 30, minuto
più minuto meno.
C’era già stato il voto sulla nutrizione e l’idratazione artificiale, la
soluzione di compromesso del Pd
era stata respinta senza troppi complimenti. Nessun rifiuto del sondino, nemmeno
in casi
eccezionali, nemmeno se l’hai lasciato scritto con la vernice rossa sui muri di
casa. Applausi dai
banchi di destra, rumori, sospensione dei lavori. Alla ripresa il senatore
Marino evoca per l’appunto
Moro, e illustra un emendamento che riecheggia pressoché alla lettera quanto lui
disse in Assemblea
Costituente, durante la seduta del 28 gennaio 1947: «Ogni trattamento sanitario
può venire
rifiutato». Questo perché, aggiungeva Moro, viene qui in gioco una
questione di libertà individuale,
e dunque un limite al potere coercitivo dello Stato. Questione diversa
dal caso aperto sessant’anni
dopo attorno al corpo di Eluana Englaro: riguarda gli ammalati, non i moribondi.
E soprattutto riguarda uomini e donne in piena coscienza, capaci d’intendere e
volere. Riguarda la
possibilità di rifiutare un’aspirina così come un’amputazione, un
elettrocardiogramma così come il
trapianto del cuore. I costituenti dettero ragione a Moro, e scrissero l’art. 32
della Costituzione; i
senatori ieri gli hanno dato torto, con 148 no, 116 sì, 10 astenuti.
Che cosa è mai accaduto nelle nostre istituzioni, quale mutazione
antropologica ne colpisce gli
attuali inquilini, se perfino il cattolicesimo democratico viene espulso dalla
Repubblica italiana? Se
questa Repubblica, qui e oggi, rinnega i valori con cui a suo tempo venne
battezzata? Perché è
questa la prima conseguenza della legge in dirittura d’arrivo al Senato: una
patente
d’incostituzionalità.
La legge sul testamento biologico offende il diritto alla
libertà personale iscritto
nell’art. 13 della Carta, che significa anzitutto diritto di proprietà sul
nostro corpo, potere di
disporne. Offende il diritto alla salute sancito dall’art. 32, che a sua
volta implica il rifiuto delle
cure. Offende la dignità umana menzionata nell’art. 3, perché ciascuno dev’essere
libero di
scegliere dove si situi la misura di un’esistenza dignitosa. Con questa legge,
viceversa, d’ora in poi
chi disgraziatamente si trovasse nelle condizioni di Eluana dovrà restare appeso
al suo sondino per
tutti i secoli dei secoli. Di più: il voto altrettanto disgraziato su Aldo Moro
rischia di trasformare le
corsie d’ospedale in altrettante carceri, i pazienti in detenuti. Si dirà che lo
stesso art. 32 riserva
tuttavia alla legge il potere di disporre trattamenti sanitari obbligatori.
Errore: la legge può farlo
quando sussiste un interesse pubblico, un bisogno della collettività. Può
stabilire d’internare i folli o
i malati contagiosi, può imporre la vaccinazione obbligatoria, ma quale pericolo
reca al proprio
prossimo chi s’oppone alla nutrizione artificiale?
No, non c’è giustificazione alla cultura del divieto che soffia come un vento
sulle nostre esistenze,
sbattendole come panni stesi ad asciugare sul balcone. È un vento
potente, tal quale la parola del
cardinal Bagnasco: che il Parlamento faccia presto, ha detto lunedì.
Eccolo accontentato. E dunque
no alla ricerca sulle staminali, no ai matrimoni gay, no alla morte dignitosa,
no - perfino - ai
preservativi per difendersi dall’Aids. Non c’è scampo, né in camera da letto né
in camera mortuaria.
È la volontà del popolo che s’esprime attraverso questa selva di divieti? Se
così fosse, potremmo
quantomeno rassegnarci a un primato democratico. Ma proprio ieri un
sondaggio di Repubblica ha
rivelato che il 73,5% degli italiani è in disaccordo con Benedetto XVI quanto
all’uso dei
preservativi; e d’altronde non è affatto un caso se le chiese sono vuote, se la
popolarità del Vaticano
precipita più di Piazza Affari. Non precipita però la sua influenza,
perché quest’ultima s’allunga non
sui fedeli bensì sugli apparati, su chi sa che per ottenere un posto in
Parlamento, una poltrona in
Rai, una carica nei Cda che contano in Italia serve l’acqua santa. Per
l’appunto: idratazione forzata.
Michele Ainis La Stampa 26 marzo 2009