E’ patetico
parlare o protestare contro «l’ingerenza dei vescovi». È tempo di
modificare l'analisi e il linguaggio per mettere a fuoco quanto sta
accadendo nel nostro paese. Siamo infatti davanti all'intreccio intimo
tra i meccanismi democratici e la loro rivendicazione da parte della
gerarchia ecclesiastica per la promozione della sua dottrina.
Quali sono le conseguenze di questa strategia per la funzionalità della
nostra democrazia? Non si sta alterando il rapporto tra il principio
della cittadinanza costituzionale e il suo uso strumentale in vista
delle richieste di una parte di cittadini che si affidano
all'autorevolezza della Conferenza episcopale? Non si tratta infatti più
soltanto dell'utilizzo dell'apparato legale dello Stato per favorire o
bloccare questa o quella iniziativa di legge, ma ora si contesta
esplicitamente il sistema elettorale come tale.
L'operazione è legittima eppure insidiosa. In democrazia non solo ogni
critica è giustificata e benvenuta, ma nel caso specifico della legge
elettorale ci sono state molte, condivise, ampiamente ragionate critiche
al sistema elettorale vigente. Tuttavia nel caso dell'intervento Cei,
nel contesto della sua rivendicazione della «intrattabilità dei valori»,
viene il sospetto che la preoccupazione della Chiesa non sia tanto la
funzionalità della democrazia quanto i vantaggi/svantaggi che derivano
immediatamente per la rappresentanza politica della sua strategia
pubblica. La democrazia sta a cuore soltanto quando serve ai «valori»?
L'altra faccia di questa realtà è la sicurezza con cui i vertici della
Conferenza episcopale italiana enunciano le loro direttive a nome di
tutti i cattolici italiani. Senza preoccuparsi della presenza di
orientamenti diversi nella stessa comunità ecclesiale. Sappiamo infatti
che tra i credenti ci sono linee differenti di strategia (non
necessariamente di dottrina), ma sono zittite o mortificate. Soprattutto
politicamente disinnescate. L'ultimo argomento usato contro di esse è la
tesi che «non si possono separare i valori, scegliendone qualcuno e
rinunciando agli altri». Una volta questo si chiamava «integralismo» che
rende difficile trovare punti di convergenza con i concittadini che la
pensano in modo diverso. Ma non è questa l'essenza della democrazia?
Senza bisogno di aggiungere l'aggettivo «laica»?
In realtà da mesi ormai il dibattito su democrazia e laicità si è
incattivito. Se vogliamo ricominciare a discutere, dobbiamo fare
chiarezza su alcuni punti preliminari. Innanzitutto, la gerarchia deve
abbandonare il lamento sulla presunta esclusione dei cattolici dalla
«sfera pubblica» o dal «discorso pubblico» - affermazione che è contro
ogni evidenza. (Quando poi sento lamentare «l'esclusione di Dio»
personalmente rimango turbato. Ma questa è una riflessione soggettiva:
prendo atto che molti miei concittadini ritengono opportuno mettere in
campo Dio).
Il dialogo tra laici e cattolici è diventato una finzione. Soprattutto
da quando i cattolici si proclamano i «veri laici» e degradano a
«laicisti» chi non la pensa come loro. Si dialoga quando si parte dal
presupposoto che gli interlocutori hanno reciprocamente «buone ragioni»
su cui confrontarsi, e sono disposti magari a cambiare opinione.
Dialogare non è elencare i propri convincimenti per dire che sono
«intrattabili», o addirittura nella convinzione di possedere «i valori»
che la controparte non possiede e che è quindi rappresentata come un
pericolo per l'integrità morale della nazione. Con questi presupposti
non ha senso dialogare.
Nessuno contesta al cattolico e/o credente la piena legittimità di
comportarsi come tale pubblicamente e quindi di avanzare ragioni che
danno rilevanza politica alle sue esigenze identitarie. Ma quando queste
esigenze/pretese assumono pubblicamente la forma enfatica della «non
negoziabilità dei propri valori», allora nascono serie difficoltà per la
democrazia.
In democrazia «non negoziabili» sono soltanto i diritti fondamentali,
tra i quali al primo posto c'è la pluralità dei convincimenti,
pubblicamente argomentati. A essa deve essere subordinato l'impulso di
far valere i propri valori (per quanto soggettivamente legittimi) nei
confronti degli altri cittadini. Di questa concezione della democrazia
non c'è traccia nelle dichiarazioni della Cei. Ma è soltanto su questi
presupposti che ha senso aprire lo spazio al confronto - anche duro -
delle ragioni che sono condivise o che dividono, e quindi alle regole
del gioco democratico.
Ma le regole hanno valore in sé, non possono essere costruite su misura
per vincere
GIAN ENRICO RUSCONI La
Stampa 20/2/2008 |
|