I sovrani del corpo
Il disegno di legge sul testamento biologico approvato in Commissione e
attualmente in votazione
al Senato - che ieri ha confermato l'impossibilità di sospendere l'idratazione e
l'alimentazione
forzate a prescindere dalla volontà del paziente anche quando è espressamente
nota - non introduce
affatto nel nostro ordinamento il testamento biologico o, come preferisce
chiamarlo, la
«dichiarazione anticipata di trattamento». Al contrario lo esclude sotto più
aspetti che equivalgono
ad altrettante negazioni dei principi di libertà e dignità della persona
stabiliti dalla nostra
Costituzione.
La sua norma più assurda, concepita chiaramente per volontà di rivalsa sulla
conclusione del
dramma di Eluana Englaro, è l'articolo 3 comma 6: «Alimentazione e idratazione,
nelle diverse
forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di
sostegno vitale
fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della
vita. Esse non possono
formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento». È con questo gioco
di parole,
chiamando «forme di sostegno vitale» e così escludendo dalla dichiarazione
anticipata quelli che
sono chiaramente trattamenti sanitari, che questa norma tenta di aggirare il
divieto costituzionale
che taluno sia ad essi sottoposto obbligatoriamente.
Ma la truffa non cambia la natura delle cose: a questi trattamenti o forme, se
si preferisce, di
sostegno vitale, dice l'articolo 32 della Costituzione, nessuno può essere
obbligato.
C'è in proposito una questione che è di solito trascurata. Nel dibattito
svoltosi sull'idratazione e
sull'alimentazione forzata l'opinione pubblica si è divisa tra chi considera
queste pratiche dei
trattamenti terapeutici e chi le ritiene equivalenti al dar da bere agli
assetati e da mangiare agli
affamati. Ma la Costituzione non parla di «trattamenti terapeutici», bensì, più
genericamente, di
«trattamenti sanitari», cioè di interventi che richiedono l'assistenza di
personale sanitario,
l'apposizione di sonde o sondini, la somministrazione di preparati farmacologici
e simili.
Ciò che insomma la Costituzione intende garantire, escludendo il carattere
«obbligatorio» di tali
interventi, è che non si possa essere «trattati» contro la propria volontà.
Dovremo domani
pretendere sempre, se questo principio costituzionale sarà violato, di morire
nel nostro letto per non
rischiare, una volta ricoverati in ospedale, di essere catturati da una macchina
e di essere sottoposti,
senza il nostro consenso, a idratazione e ad alimentazione forzate?
Ma c'è un secondo aspetto, più grave, di incostituzionalità e prima ancora di
immoralità
dell'idratazione e dell'alimentazione forzata. Queste pratiche, se non
consentite dall'interessato,
ledono non solo il diritto della persona di rifiutare trattamenti sanitari non
graditi, ma anche l'habeas
corpus e l'immunità da torture.
Negano non solo la libertà di autodeterminazione, secondo la bella massima
di John Stuart Mill che
«sul proprio corpo e sulla propria mente ciascuno è sovrano», ma ancor prima il
diritto all'integrità
personale. Dobbiamo infatti pur chiederci quali siano le condizioni di
vita che l'idratazione forzata
impone a una persona in coma irreversibile.
I sedicenti difensori della vita dovrebbero riflettere seriamente su questo
problema. Il disegno di
legge, si è visto, dice che alimentazione e idratazione sono, in qualsiasi
forma, «finalizzate ad
alleviare le sofferenze». Ma qui il gioco di parole è decisamente intollerabile.
Come si può dire che
simili trattamenti «alleviano le sofferenze» e non che, semmai, le moltiplicano
e le prolungano
senza fine?
Giacché i casi sono due. O la persona in coma irreversibile, come ritiene la
scienza medica
prevalente, è priva di qualsiasi forma di coscienza e sensibilità; e allora la
cessazione
dell'accanimento è imposta dal dovere, richiesto dall'articolo 32 della
Costituzione oltre che dalla
massima morale kantiana secondo cui nessuna persona può essere trattata come una
«cosa», di «non
violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Oppure quella
persona, come hanno
dichiarato molti «difensori della vita», conserva un qualche tipo di sensibilità
o di vitalità
consapevole; e allora il suo mantenimento in vita artificiale sarebbe ancor più
atroce, infinitamente
più atroce.
Pensiamo all'orrore e al terrore di chi, sia pure in qualche barlume di
consapevolezza,
comprendesse, senza possibilità di comunicare in alcun modo, di essere
condannato per un tempo
infinito a rimanere prigioniero delle macchine che lo nutrono, senza potersi
muovere, né cambiare
posizione, né parlare o sentire o vedere.
C'è insomma una grammatica del diritto e una semantica del linguaggio legale che
nessun
legislatore può violare. Non è permesso giocare con le parole, chiamando
«alleviamento delle
sofferenze» quello che, se sofferenze ci fossero, sarebbe un incubo terribile, e
imponendolo come
obbligatorio a quanti lo rifiutano. Pensiamo al terrore nel quale
sarebbe costretto a vivere chi
subisse una simile condanna a questa prigionia cupa e spaventosa, senza scampo e
senza fine. Come
non vedere nell'imposizione di questo inferno, di questa solitudine tremenda, di
questa morte senza
fine, una violazione della dignità della persona e, soprattutto, dell'habeas
corpus e della libertà
personale garantite dall'articolo 13 della Costituzione secondo cui «la libertà
personale è
inviolabile... E' punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque
sottoposte a restrizioni
di libertà»?
C'è poi un terzo aspetto, forse il più insidioso, di incostituzionalità, oltre
che di interna
contraddittorietà della legge: la mancanza di un effettivo valore prescrittivo
delle stesse
«dichiarazioni anticipate di trattamento», da cui pure sono state escluse, a
scanso di equivoci,
l'idratazione e l'alimentazione artificiali. Benché l'articolo 4 le dichiari
«vincolanti», tali
dichiarazioni hanno infatti, in base all'articolo 7, il carattere di indicazioni
soltanto orientative: sono
solo, dice questa norma, «attentamente prese in considerazione dal medico
curante» e «valutate... in
applicazione del principio dell'inviolabilità della vita umana»; con la
conseguenza che «il medico
non può prenderle in considerazione» se sono «orientate a cagionare la morte del
paziente».
Ma allora a cosa servono queste dichiarazioni? Giacché i
medici, in contrasto con l'articolo 32 della
Costituzione repubblicana, ben potranno o addirittura dovranno ignorarle e
costringere il paziente a
subire trattamenti da lui non voluti. Servono, in realtà, a far sì che sia
disattesa la volontà del
paziente tutte le volte che mancano. «In assenza di dichiarazione
anticipata di trattamento», dice
infatti l'articolo 3 comma 5, «sono garantite tutte le terapie finalizzate alla
tutela della vita e della
salute, ad eccezione esclusiva di quelle configurate come accanimento
terapeutico». La
dichiarazione, aggiunge l'articolo 4 comma 3, «ha validità per cinque anni,
termine oltre il quale
perde efficacia».
E' qui che si manifesta l'intento truffaldino della legge. I medici non
solo potranno, ma dovranno
ignorare la volontà del paziente non manifestata nelle forme della dichiarazione
anticipata, cioè
nella stragrande maggioranza dei casi. Nessun valore avranno, per esempio, una
lettera nella quale
l'interessato avrà espresso chiaramente la sua volontà, o la testimonianza di
parenti od amici, o
qualunque altro tipo di dichiarazione orale, o comunque informale ma inequivoca
resa prima di
perdere coscienza.
Non avranno valore, se scadute, neppure le dichiarazioni anticipate, dato che,
si suppone, il paziente
potrebbe, dopo cinque anni, aver cambiato idea: dove non si capisce, al di là
del fatto che su
questioni di questa natura di solito non si cambia idea, perché mai, nel caso di
dichiarazioni scadute,
debba presumersi una volontà opposta del paziente e perciò la scelta di
mettergli le mani addosso
anziché quella di lasciarlo morire in pace, come avrebbe voluto, di morte
naturale. Capovolgendo il
senso del testamento biologico, queste norme trasformano insomma la
«dichiarazione anticipata» in
una sorta di prova legale, in assenza della quale si presume, arbitrariamente e
illogicamente, la nonvolontà
o la volontà contraria dell'interessato.
Ne consegue un quarto profilo di incostituzionalità del disegno di legge: la
lesione del principio di
uguaglianza stabilito dall'articolo 3 della Costituzione. Il diritto del
paziente al consenso informato
quale condizione della legittimità di qualunque trattamento sanitario è infatti
garantito dalla legge,
in conformità alla Costituzione, a tutte le persone vigili e consapevoli.
Questo testo, escludendo di fatto che una persona possa lasciar detto di
non volere essere sottoposta,
in caso di coma irreversibile, a inutili trattamenti, nega questo diritto a una
specifica classe di
pazienti: i pazienti in coma i quali, solo perché in condizione di menomazione e
di inferiorità,
vengono così discriminati e sottoposti, contro la loro volontà, a interventi
invasivi e, forse, a torture
sanitarie obbligatorie.
Luigi Ferrajoli il manifesto 26 marzo 2009
“Una
barbarie Adesso lo Stato si crede Dio”
«Hanno i numeri e possono votare la legge che vogliono. E infatti non sono
stupito della direzione
che ha preso il Parlamento riguardo il testamento biologico. Lo sarò molto di
più se gli italiani
accetteranno questa norma antiscientifica e anticostituzionale. Per opporsi
avranno gli strumenti.
Potranno rivolgersi al Presidente della Repubblica e alla corte Costituzionale».
C'è chi lo critica per
non essere tornato come lui stesso aveva detto «nel silenzio e nell'anonimato».
«A chi mi contesta -
afferma Beppino Englaro - dico che ho sperato di non dover più affrontare la
questione delle libertà
fondamentali, perché credevo che dopo la mia esperienza terribile lo Stato
sarebbe andato verso una
legge che garantisse ad ogni cittadino la scelta di decidere per sé stesso. Non
è andata così per
questo non posso stare zitto. Al punto in cui siamo, parlare, da vero
socialista diventa un dovere
sociale. Agli altri invece chiedo di far sentire la loro voce per
protestare contro una legge barbara».
La storia terribile di Beppino Englaro oggi è anche il suo sostegno: «La mia
vicenda umana resta
dentro di me, profondamente, ma di questo non vorrei più parlare. La vita della
mia famiglia è stata
sotto gli occhi di tutti al pari di un reality. E' giusto che adesso rientri in
una sfera privata. Così
com'è giusto che io tenti in tutti i modi di tutelare me stesso dal rischio di
essere costretto a vivere
nelle stesse condizioni disumane in cui ha vissuto la nostra splendida creatura,
se mai mi venissi a
trovare nelle condizioni di non intendere e volere».
Dal giorno dell'incidente in auto di Eluana fino alla sua morte nella clinica di
Udine, è stato lui, il
padre, a tutelare da un vuoto legislativo le volontà della figlia. Oggi, con
l'approssimarsi di una
normativa sul testamento biologico che non include la nutrizione artificiale tra
le terapie che si
possono rifiutare, Englaro dice di essere costretto a tutelare se stesso: «Con
un testamento devo
avere la possibilità di specificare bene le mie scelte. Nessuno può
decidere per me, nemmeno lo
Stato che con questa legge si sostituisce a Dio. I credenti dicono che nessuno
fuorché il Signore può
decidere della vita di ognuno. Può forse farlo uno Stato che dovrebbe essere
laico?». Una domanda
che Englaro rivolge ai politici, mentre agli uomini di Chiesa ne pone altre:
«Che senso ha
continuare a ripetere che Eluana non era attaccata a una macchina? Viveva in una
situazione che
non esiste in natura. Aveva un tubo che le penetrava nel corpo e le pompava
forzatamente
l'alimentazione, una pratica non consentita dall'articolo 13 della Costituzione
che dice che per
trattamenti simili occorre il consenso del paziente. E io a una barbarie
simile, che lei aveva
espressamente detto non volere, mi sono opposto con tutte le mie forze».
Elena Lisa La Stampa 26 marzo 2009
Sequestro di
persona
Duemila anni fa, a Roma, un capo che vedeva in grande si rammaricò che il genere
umano non
avesse una testa sola, per poterla mozzare di netto con un colpo solo. Ieri, a
Roma, il Senato ha
decretato un colossale sequestro di persona: 60 milioni di corpi in un solo
colpo.
E' così vendicato l'oltraggio sacrilego della morte di una donna dopo soli
diciassette anni di
persistenza vegetativa, e riscritto il vocabolario italiano, dove pretendeva che
una sonda infilata in
gola o nella pancia di una persona fosse un trattamento terapeutico, una cura, e
non un'ordinaria
colazione. Vasta la maggioranza che ha realizzato l'impresa, ben più della
stessa ingente
maggioranza uscita dalle urne scorse, così da corrispondere, alla rovescia, alla
vastissima
maggioranza di cittadini italiani che dissente dal nuovo decreto, quando non ne
è atterrita o
scandalizzata. Quando se ne completasse il cammino, gli italiani, dal Presidente
della Repubblica
all'ultimo povero Cristo, finirebbero espropriati della libertà di
disporre del proprio corpo, cioè di
sé: e con gli italiani chiunque si trovasse ad agonizzare in Italia per
qualche circostanza di
passaggio. Era il paese della dolcezza del vivere, non è nemmeno un buon
paese per morire. Certo,
resta la Corte Costituzionale, finché dura. Resta il referendum: ma ai
referendum le Curie hanno
escogitato da tempo l'espediente - furbizia con cui soppiantare intelligenza -
che lo sventi. Se non si
riesca a impedirne l'attuazione, si promuoverà l'astensione: il quorum
proibitivo lavora per noi.
Furbizia è ormai la risorsa metodica. Fino a poco fa le Curie dicevano no a
qualunque legge sul fine
vita. Assediate dall'iniziativa laica e dalla pressione popolare, decisero
bruscamente di accettare che
la legge fosse fatta: a loro immagine, un'antilegge. L'altroieri il cardinal
Bagnasco ha chiesto che ci
si sbrigasse a farla. Vedete dunque che non è vero che questa Chiesa non creda
all'evoluzione. Ma
non è ai cardinali e ai vescovi che si devono muovere obiezioni di parole e di
coscienze. La legge è
l'opera di una classe politica molto votata, e del sostegno di un'altra parte
meno votata.
Quello che succederà d'ora in poi somiglierà a quello che succedeva finora. Che
pazienti, famigliari,
medici e infermieri faranno quando e come potranno il loro officio pietoso,
mutati solennemente in
fuorilegge. Finché un'altra donna, un altro uomo deciderà di sfidare
pubblicamente l'usurpazione
della legge, in nome della propria libertà e della Costituzione italiana, e
l'Italia assisterà di nuovo
col fiato sospeso a una coraggiosa agonia da una parte, e alle mene affannate
delle autorità riunite
dall'altra. L'Italia sta imparando dolorosamente a maneggiare in pubblico
questioni di vita e di
morte finora confinate, e anche protette, nelle corsie di ospedale e nelle
stanze da letto di case dalle
tende tirate.
Non sarà la stessa Italia, non lo è già. Cartelli esposti in pronti soccorsi e
ambulatori, in tante lingue,
dicono: "Noi non vi denunciamo". Tante lingue, due Italie, due cartelli opposti.
Anche nel
maneggiare ottimismo e trepidazione, sanità e malattia. A Bologna, un medico ha
sfidato i candidati
sindaco a esibire il loro certificato di sana e robusta costituzione fisica. Il
presidente del consiglio è,
buon per lui, ottimista e in forma, e tratta le malattie come allegre metafore.
Ma le metafore tratte
dalla malattia, e dalla biologia, sono brutte e pericolose. Se vuole prendersela
con l'America, faccia
pure; ancora meglio se volesse prendersela un po' con la Russia del suo amicone.
Ma se dice: «Il
virus americano», non va bene. C'è un odore di caccia all'untore, e anche
di peggio. Se vuole
prendersela con la magistratura, libero di farlo, salve obiezioni. Ma se dice
che «la magistratura - o
una sua parte - è una metastasi», offende imperdonabilmente una professione
importante e coloro
che la professano, e offende ancora più imperdonabilmente chi è ammalato di
cancro e sa nel
proprio corpo che cos'è una metastasi. Una sciagura, ma la sua, la mia, la
vostra sciagura. Con la
quale mi misuro io, ti misuri tu, si misura ciascuno a suo modo, espellendolo da
sé e combattendolo
come un nemico, sentendolo come una parte di sé, ignorandolo, vincendolo,
morendone. Si
prendano altrove le metafore, e anche le magistrature, e le Americhe. Si lascino
i virus e le metastasi
a chi sa, per sé o per i propri, di che cosa si tratti. La politica
professionale non è granché, anzi
spesso - per esempio oggi - è abbastanza disgustosa, ma non è «un cancro», «un
virus», «una
metastasi». E tanto meno l'Aids: il cui abuso metaforico e barzellettiere
surclassa tutte le altre
porcherie analoghe, peste contemporanea per chi ne parla senza esserne affetto,
senza pensare di
poterne essere affetto, senza pensare a chi ne è affetto, senza immaginare ogni
volta che apre bocca
di esserne affetto. Come si dovrebbe. Ora e nell'ora della nostra morte, amen.
Adriano Sofri la Repubblica 26 marzo 2009