I respingimenti e
la Costituzione
Il ministro Maroni si è recentemente vantato di aver posto fine agli sbarchi di
barconi provenienti
dalla Libia, «riducendo nei primi tre mesi del 2010 del 96 per cento il numero
degli sbarchi rispetto
al 2009, mentre rispetto al 2008 c'è stata una riduzione del 90 per cento». A
prima vista una buona
notizia, che testimonia della efficienza della politica di contrasto alla
immigrazione clandestina
messa in atto da questo governo. Peccato che questi dati nascondano altre,
preoccupanti, verità.
La prima è che concentrarsi sul respingimento degli sbarchi
come forma principe di contrasto alla
immigrazione irregolare può dare molta visibilità mediatica ma di fatto riduce
di molto la portata
dell'azione di contrasto. Secondo dati di varia fonte, incluse le questure, la
maggior parte degli
immigrati che sono irregolarmente nel nostro paese non utilizza più i barconi,
ma varchi di frontiera
non sufficientemente controllati. Molti entrano addirittura regolarmente, con un
visto turistico poi
lasciato scadere. Per non parlare del fatto che le stesse norme sui permessi di
soggiorno producono
la loro quota di irregolari, nella misura in cui basta perdere il lavoro e
rimanere in Italia anche se
non se ne è trovato velocemente un altro per diventare automaticamente
irregolari.
La seconda verità è che i cosiddetti respingimenti di
fatto condannano gli aspiranti immigrati a
tornare in un paese, la Libia, che non dà alcuna garanzia di rispetto dei
diritti umani. Non è un caso
che proprio per questo è stata aperta una procedura contro il nostro paese
presso la Corte Europea di
Strasburgo. Nessun paese, infatti, dovrebbe obbligare una persona a
tornare in un paese dove la sua
vita, dignità, integrità fisica sono messe in pericolo. Vale per gli
uomini come per le donne, con la
specificità aggiuntiva, nel caso di queste ultime, che il rischio di essere
stuprate è all'ordine del
giorno. Infine, se i disperati dei barconi sono una quota minoritaria degli
irregolari, rappresentano
invece la quota largamente maggioritaria dei rifugiati e richiedenti asilo.
Secondo i dati dell'Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), oltre il 75% delle
domande di chi ha
richiesto asilo o lo status di rifugiato nel 2008 è stato avanzato da persone
arrivate con i barconi. La
cosa non deve stupire. Chi è nelle condizioni di dover fuggire dal proprio paese
di solito non ha
accesso facilmente a documenti come un passaporto o un visto.
Esiste inoltre, nel nostro come in altri paesi, un
pregiudizio negativo nei confronti di alcune
nazionalità e provenienze. Per cui è quasi automatico che un irakeno o
un afgano in fuga dal proprio
paese si vedano rifiutare il visto di ingresso o vengano respinti alle frontiere
cui si sono presentati
legalmente. L'unico modo che hanno per poter arrivare a presentare la domanda di
asilo è entrare
illegalmente. Si aggiunga che, sempre secondo l'Unhcr, l'80% dei rifugiati e
richiedenti asilo vive
nel sud del mondo, in particolare in Africa, che quindi si fa carico in modo
sproporzionato, rispetto
ai paesi ricchi, dei bisogni di chi è in fuga dal proprio paese. Non sorprende
che una parte di questi
prima o poi cerchi di penetrare la fortezza dei paesi ricchi. La riduzione del
90% degli sbarchi ha
significato anche il dimezzamento, tra il 2008 e il 2009, delle richieste di
asilo. Non è una buona
notizia. Segnala infatti che l'opera di respingimento ha colpito proprio i
più vulnerabili, coloro che
avevano qualche ragione, certo da verificare, per chiedere protezione.
Ciò è in stridente contrasto
con l'articolo 10 della Costituzione che definisce il diritto d'asilo in termini
molto ampi, persino più
ampi di quelli delle convenzioni internazionali (è sufficiente non poter
esercitare nel proprio paese
le libertà democratiche). In ogni caso le norme internazionali stabiliscono che
una volta presentata
una domanda d'asilo occorre sospendere i processi di espulsione al fine di poter
espletare tutti gli
accertamenti necessari. Accertamenti che ovviamente non possono essere
effettuati da guardie
costiere in qualche affrettato interrogatorio a persone esauste, che non sanno
esprimersi nella nostra
lingua e spesso non hanno documenti. Non è una questione di buonismo. E'
una questione di criteri
minimi di civiltà e di osservanza, prima ancora dei trattati internazionali,
della Costituzione italiana.
Chiara Saraceno la Repubblica 19
aprile 2010