I laiconi, gli atei devoti e la fine perversa della modernità
La teologia di Benedetto XVI pretende il monopolio dell'umano
Il ritorno alla sfiducia antropologica di Agostino
Il garbo è il sale del confronto. Non solo perché - di questi tempi! - preserva
il bene dell'urbanità. C'è di più: nasce dall'onestà con cui si sanno
raccogliere le sfide e persino le inquietudini che le ragioni altrui recano alle
nostre. È appunto con questo garbo riconosciuto da Giuliano Ferrara ( Il Foglio
, 5 dicembre) che va soddisfatta anche la cortesia da lui chiesta a «laiconi»
come Scalfari o il sottoscritto: provate a capire l'enciclica sulla speranza.
Senza pretendere che il papa dica ciò che vorreste sentirvi dire. Magari «nella
forma rassicurante di un compromesso o dialogo all'insegna dello scambio» con
una Chiesa costretta, per accogliere «furbamente» la modernità, a rinunciare
all'intemporalità della propria missione.
Sgombriamo pure il sospetto di scambi e furbizie. Sollevato forse con garbo, ma
certo ancor più con innegabile ironia da parte di un ateo assurto agli onori
della gerarchia. Spesso ricambiata con una devozione più zelante di quella dei
credenti che le prove della fede le patiscono davvero. Stiamo ai fatti: niente
rinunce o inciuci compromissori. Né pretesi e né subiti. Forse non ne sarò
personalmente all'altezza, ma è di dialogo che stiamo parlando. Tra una
coscienza moderna che al mondo e all'uomo guarda col disincanto
dell'emancipazione illuministica da verità e valori della tradizione teologica.
E una fede impegnata a testimoniare se stessa riconoscendo però anche la
plausibilità scientifica, filosofica ed etica di un simile approdo. Né
scientista e né ideologico, ma critico.
È di questo dialogo alto, rispettoso e costruttivo - ce n'è un altro? - che
anche la recente enciclica non riesce ad essere fermento. Essa infatti conferma
la «fine perversa» cui sarebbe condannata la modernità che dalla grazia, fede e
speranza donate da Dio - «Dal dono della grazia consegue che l'uomo abbia
speranza in Dio» (Tommaso) - è passata alla loro alternativa: scienza, filosofia
postmetafisica, saggezza terrena, solidarietà civile. Una conferma appunto.
Giacchè una simile condanna ad una deriva di «nichilismo paralizzante e sterile»
il papa l'aveva già pronunciata: «Privo del suo riferimento a Dio», l'uomo non
solo non può rispondere alle domande che agitano «il suo cuore riguardo al fine
e al senso della sua esistenza». Egli - non ha esitato a concludere Benedetto
XVI - non può neppure «immettere nella società quei valori etici che soli
possono garantire una convivenza degna dell'uomo» (3-11- 2006 ).
Nessuna pretesa di suggerire ai pastori come adempiere alla loro missione. E
ancor meno che si facciano promotori delle ragioni e dei valori dell'incredulità
moderna. Ma perchè ridurli a «desolazione dell'angoscia che conduce alla
disperazione»? (ibidem). Questa è più di una mancata promozione. È una parodia
denigratoria che quasi si stenta a capire. È antitetica ad altre - e alte -
sensibilità teologiche: «L'uomo ha imparato a badare a se stesso in tutte le
questioni importanti senza l'ausilio dell'"ipotesi di lavoro: Dio" (…) ed è
semplicemente falso che solo il cristianesimo abbia una soluzione» (Bonhoeffer).
Di più: è una teologia che finisce per alimentarsi delle ceneri di ciò che è
umano. Perdendo così almeno un po' di quel «qualcosa di amabile (…) conforme
alla peculiare natura del cristianesimo» che proprio Kant, nello scritto citato
dall'enciclica, ammoniva comunque a non smarrire. È la teologia che induce a
vedere nei Dico la minaccia alla dignità umana. E a tenere la salma di Welby
fuori dal tempio. Non senza ragioni giuridiche, certo. Ma anche senza slancio di
carità umana e ancor meno profetica.
Certo: chi fa parte del popolo di Dio saprà giudicare con senso della fede e
della Chiesa ben più avvertito. Ma forse non si deve stentare poi molto per
rinvenire in questa teologia non tanto il «dialogo leale» col mondo
innegabilmente annunciato dal Vaticano II, quanto un ritorno ad Agostino. Alla
sua pretesa che, grazie al circolo vizioso che presuppone già per fede ciò che
poi la ragione trova, Cristo sia - come si legge anche nell'enciclica - il «vero
filosofo». Nonché alla sua sfiducia antropologica, che lo induceva persino ad
irridere come superba vanità la non sottomissione all'autorità delle Scritture e
della Chiesa. Mentre lui, proprio e solo mediante questa sottomissione, riusciva
a placare la disperante angoscia ( desperatio ) in cui si sentiva precipitare di
fronte alle domande filosofiche sul senso della nostra vita.
Come la teologia agostiniana, anche quella del papa nega alla mente e al cuore
dell'uomo ogni sapere-saggezza capace di evitare il naufragio interiore ed
etico-politico. Vuole tutto per sé: la vera filosofia, la vera scienza, il vero
illuminismo. In breve: il monopolio di ciò che è autenticamente umano. Un lusso
che ormai nessuna teologia adulta può concedersi. Giacché la modernità è
precisamente questo: l'epoca in cui la fede ha di fronte le plausibili ragioni
dell'emancipazione dalla tradizione platonico-cristiana. E chi coltiva con
sobrietà critica e saggezza solidale un simile approdo, si trova di fronte non
solo fanatismo religioso o culto esteriore, ma anche una fede sorretta da
sollecitudine di carità e giustizia, nonché dallo spessore e dal travaglio di
una teologia pensosa che con la modernità si confronta in modo autentico.
Vogliamo provare veramente a sgombrare il campo da ogni parodia dell'incredulità
e della fede? Dagli estremismi integralisti o ideologici che offendono la
realtà? Questa è la precondizione del dialogo tra le ragioni plausibili che
credenti e non credenti sanno portare nella sfera pubblica. Quello che papa
Ratzinger - per tacere dei cardinali Ruini e Schönborn - sono tutt'altro che
intenzionati a praticare. E che invece la rettitudine intellettuale e la laicità
non temono. Anzi: ci educano a coltivare.
Un dialogo rispetto al quale - sia detto sempre col garbo di chi sa che ognuno
fa seriamente con la propria ricerca - un'alternativa particolarmente perspicace
non sembra offrirla neppure l'ateismo devoto. Un accostamento magari suggestivo.
Ma destinato, se non a smarrire, certo a svilire le testimonianze più alte e
feconde che sia l'incredulità che la fede - e proprio nella modernità - hanno
saputo e sanno ispirare.
Post scriptum. Ferrara teme non a torto i passi di danza spesso eseguiti, anche
da illustri politici, intorno a temi religiosi. Bene: niente giri di valzer. Ma
qualche volta, direttore, ci piacerebbe dibattere non solo della sua devozione,
ma anche del suo ateismo. Non lo escluda: se testimoniato con onestà, spesso si
rivela un fuoco purificatore e bene accetto anche per chi, con onestà non
minore, chiede a Dio di rivelargli il Suo volto.
Orlando Franceschelli il Riformista 8.12.07