I difetti di Berlusconi sono stati pericolosi soprattutto perché condivisi

 

La riflessione sull’Italia d’oggi è necessariamente severa. Ma possiamo correggerci. E forse tra noi ne sta crescendo il desiderio. Meglio, però, se esso non è arrogante e fazioso, ma plurale, e capace di produrre unità e umile chiarezza.

 L’aggressività dei toni di Berlusconi non è una novità, come non è una novità la sua cultura politica populista, non idonea a interpretare qualità e equilibrio delle istituzioni democratiche. Né sono nuove le deformazioni cui sottopone la realtà storica, si tratti del comunismo (che non è più “il problema”), delle tradizioni religiose (più complesse ed esigenti di quanto egli le consideri), di profili e di quanti hanno governato l’Italia negli ultimi 150 anni (e qui  le sue dichiarazioni di essere stato “il migliore” hanno superato il ridicolo per entrare nel patetico), o di realtà economiche e sociali, per le quali il suo protagonismo di grande comunicatore lo porta a privilegiare gli spunti della propaganda e a trascurare quelle esigenze solidaristiche più diffuse e sofferte che sarebbero la base più forte per una mobilitazione effettiva delle energie del paese.

“Novità” non sono le uscite compiute da Berlusconi nell’ira delle ultime settimane. Ma se mai lo è il contesto diverso in cui esse si propongono. Non sono Santoro e Travaglio a minacciare popolarità e consenso del presidente del consiglio, ma piuttosto la condotta del presidente stesso, la cui autorevolezza politica sta diventando il problema italiano maggiormente visibile.

Chi ha “colpa” di questa situazione, sgradevole a giudizio di non pochi e obiettivamente pericolosa per moltissimi?

Non si deve rispondere: “Berlusconi”, argomentando che, poiché è indubbiamente “lui” il protagonista degli ultimi 15 anni, sarebbe assurdo cercare un altro responsabile della nostra disastrata situazione nazionale. No, non si deve cadere in una interpretazione falsificante la realtà, del tipo di quelle che Berlusconi ci propina. Sbaglieremmo a farne il “capro espiatorio”. Berlusconi, come non è affatto il grande statista che ama dirsi, così neppure è autore sufficiente dei guai italiani, così lunghi ed umilianti come li viviamo. Non è il creatore della situazione che ora si sintetizza nel suo nome; di essa è solo il maggiore protagonista e utilizzatore. 

In un certo senso, Berlusconi è soprattutto un “rivelatore” di limiti che esistono diffusi e radicati tra noi. Le sue capacità di valorizzarli, interpretarli e utilizzarli a proprio vantaggio si erano collaudate in un “preambolo” economico e comunicativo almeno ventennale e poi, dal 1994, con un impegno politico diretto assunto in difesa schietta dei suoi interessi, con uno strumento originalmente partitico ma, fin dall’inizio, intensamente estraneo alla Costituzione repubblicana. E’ un pezzo di storia della società italiana, nel quale hanno operato e si sono fusi sotto la sua direzione, altri soggetti politici e culturali che hanno concorso potentemente nella creazione politica, sia pure corruttiva e abortiva, che è giusto definire “berlusconiana”. Berlusconi ne è il punto d’arrivo più coagulante e stabilizzante per virtù sue proprie; ma che non avrebbe potuto imporsi e durare nella vita politica e istituzionale italiana, senza essere riconosciuto e adottato da una quantità di soggetti dotati di vita propria, cioè di interessi ed idee, esistenti ben prima di Berlusconi e della sua “discesa” in politica.

Ma Berlusconi sta riuscendo a convincere ancora la maggioranza di italiani di essere l’uomo giusto da cui essere guidati? O l’interpretazione che egli dà della sua azione e comunicazione politica viene ora rivelando che proprio “qualcosa di Berlusconi” gli impedisce di svolgere con profitto le sue alte funzioni, e che pertanto occorre prepararsi, o almeno farsi disponibili, ad alternative e sostituzioni?

Il desiderio di novità sostanziali, immaginabili da trovare e provare solo in un tempo che sia “dopo Berlusconi”, a me pare cominci a crescere in strati profondi della società italiana. Ma sarebbe molto utile e più fecondo che questa “anticipazione” (dobbiamo pensare seriamente a un’“Italia dopo Berlusconi”) avesse nel suo interno, anche minoritaria ma avvertibile, una consapevolezza che i difetti di Berlusconi sono stati pericolosi soprattutto perchè condivisi, e che non si può denunciarli come “negativi” senza riconoscere che la loro “negatività” è stata non poco partecipata.

Il confronto politico non può fare a meno di un certo tasso di polemica, ma la polemica è un fattore di vittoria reale e realmente feconda solo se intrecciata a grandi e essenziali “verità”, cioè riconoscimenti autocritici puntuali quanto necessari, e riconoscimenti di meriti dell’avversario. Bisogna dare un contenuto molto forte e comunicativo alle “formalità” di cui vive l’etichetta parlamentare, preziosa come via che ci introduca all’etica, all’interesse a capire il punto di vista altrui, al rispetto dei suoi diritti, e, anche, dei suoi bisogni, o di quelli di cui si fa portatore nell’Aula deputata a parlarne e a prendere le relative decisioni. Tutto all’opposto di sostituire la “forma” della politica con il mito devastante dell’antipolitica più qualunquistica.

Per questo, ormai, istruzione e livello di competenze, in una cittadinanza democratica, sono un valore sociale e politico, rinunciare al quale è cosa pericolosissima per tutti: e qui scuola e sistema mediatico avrebbero funzioni vitali. Ma anche il livello dell’etica media e delle persone più comuni è un dato di costume senza del quale le democrazie non possono vivere in salute e garantire livelli di efficacia.

Berlusconi certamente non va linciato (non deve esserlo nessuno), ma una “resistenza al suo stile politico”, sobria ma effettiva, è condizione previa e determinante per uscire in piedi e bene come cittadini di una democrazia plurale, complessa ma ordinata e dignitosa, quindi “rispettosa” di tutti e ciascuno. Berlusconi non va seguito nel “magistero illusorio” che egli si attribuisce quando proclama “agli italiani piaccio così”. Forse è indispensabile opporre almeno domande del tipo: “fino a quando?”, “e se proprio ora è così, è sicuro che sia un bene per tutti e anche per lei?”; opporglielo in pubblico, se se ne hanno le occasioni e la forza, ma innanzitutto domandarselo nella propria interiorità, e sostenerlo sempre, con pacatezza, nel proprio ambiente di vita. 

Nella società italiana ci sono varie tradizioni che possono alimentare una capacità di resistenza. Le tradizioni di moralità sono tutte ben viste nel “Comitato di liberazione nazionale” che è in formazione contro l’occupazione berlusconiana del nostro territorio mentale; ma le condizioni molto evolute (nonostante tutto) della nostra convivenza storica richiedono che lo stile della condotta di resistenza e liberazione dalla occupazione berlusconiana sia forte ma non urlato, sobrio e visibilmente coerente. Per questo un ruolo importante può essere assunto dalle componenti che, senza essere clericaleggianti, siano espressive di tradizioni cristiane indipendenti e lontane da costumi e pensieri illustrati oggi da Berlusconi con battute e sortite di cui parliamo troppo e che sono espressive di fragilità profonde, più da curare che da demonizzare. Ma come curarle in Berlusconi, se prima non le abbiamo corrette dentro di noi? 

Ma un’etica civile che si nutra di tradizioni cristiane è oggi in difficoltà nel nostro paese anche per la conflittualità e le incertezze che esistono in ambito ecclesiale circa l’interpretazione dell’aggiornamento conciliare sul grande tema di come si debba intendere, proporre e testimoniare la “vita cristiana”. Come i conflitti di orientamenti fanno la debolezza delle coalizioni politiche, così la conflittualità religiosa in atto tra noi determina una scopertura etica crescente nella vita sociale italiana, con conseguenze gravissime per la qualità della vita pubblica.

La vitalità del concilio e dei suoi doni, ove accettati e valorizzati con fiducia e umiltà, ci fa pensare che la situazione pesante delle cronache attuali possa venire migliorata dal miglioramento che ci pare “inevitabilmente in arrivo” tra i cristiani da una interpretazione risanante e costruttiva delle ricezioni conciliari. Esse (e solo esse) hanno l’autorità per proporre a quanti si dicono cattolici osservanti una sintesi di doverosa severità verso se stessi, di solidarietà e generosità con gli altri, di rispetto di tutte le persone e dei loro diritti, dell’equità e della legalità agite con scrupolo nelle relazioni sociali. 

 

Gigi Pedrazzi     Adista Segni Nuovi, 116    2009