I cattolici e le leggi. La chiesa che chiede più potere

Le gerarchie ecclesiastiche e il peso che i credenti vogliono avere nella vita pubblica
I concordati, quello di Mussolini e quello di Craxi, hanno introdotto molta confusione
La sincera e dolente tensione di due intellettuali come Giuseppe Alberigo e Pietro Scoppola


Numerosi sono oggi i dibattiti sui rapporti fra religione e politica in una età definita spesso postsecolare che, come tale, non potrebbe far propri i principii che hanno ispirato nei due ultimi secoli la condotta degli Stati liberali e democratici nei confronti delle chiese e, in modo particolare, della Chiesa cattolica. Sono spesso dibattiti elevati, che rivelano il bisogno di chiarezza su temi di primaria importanza che riguardano i fondamenti stessi dello Stato laico.
Innanzi tutto, è lo stesso concetto di postsecolare che andrebbe chiarito. Sotto la sua apparente neutralità, di riconoscimento cioè di un mero dato di fatto, si nascondono in realtà interpretazioni del passato e del presente e previsioni del futuro che assumono facilmente un carattere normativo. Società secolare è una società in cui le credenze religiose non costituiscono i presupposti dell´ordinamento istituzionale. Si tratta di un principio, proprio della società laica, che si è sviluppato nei due secoli precedenti al nostro sotto i segni del liberalismo, della democrazia, del socialismo, e anche del capitalismo, in quanto fondato sulla distinzione fra economia ed etica. Lo Stato laico non può dunque vivere che in un società secolarizzata. Dare per scontato che questa sia ormai alle nostre spalle significherebbe mettere in forse anche la laicità.
Carattere essenziale della società secolarizzata e laica è la netta distinzione fra spazio pubblico e potere pubblico. Il secondo è chiamato a garantire il primo proprio perché non si confonde con esso. L´aggettivo "pubblico", quando qualifica lo spazio, sta ad indicare che tutti hanno uguale diritto di fruirne liberamente, come individui e come associazioni, compresi ovviamente i credenti in una religione e le associazioni da essi create. Questo spazio è «utilizzato amplissimamente dalle gerarchie ecclesiastiche», come scrive Eugenio Scalfari nell´editoriale apparso ieri su Repubblica. Suonano perciò strane le proteste dei cattolici contro i supposti ostracismi di cui in Italia essi sarebbero vittime per quanto riguarda la presenza nello spazio pubblico. La storia ci mostra che mai come nei regimi liberali e democratici i cattolici, le loro associazioni e le loro istituzioni ecclesiastiche abbiano goduto, anche in Italia, dei frutti di quella libertà che il Sillabo aveva condannata. I cattolici, e soprattutto le gerarchie, hanno certo dovuto rinunciare agli antichi privilegi di cui godevano, ma si sono nello stesso tempo affrancati dalla sottommissione alle pretese dello Stato nei loro confronti (che un tempo si chiamavano maiestatica iura circa sacra). Residui del vecchio giurisdizionalismo, cioè della permanenza di interventi pubblici nelle cose di religione, si rilevano peraltro in alcune legislazioni liberali, compresa l´apprezzabile legge delle Guarentigie con la quale subito dopo il 1870 lo Stato italiano regolò i suoi rapporti con la Chiesa cattolica.
La distinzione fra spazio pubblico e potere pubblico rinvia a quella più generale fra pubblico e privato, dove il primo termine indica le istituzioni pubbliche e il loro potere cogente su tutti i cittadini. È questa una distinzione salutare, faticosamente conquistata, sulla quale si regge tutto l´edificio delle libertà personali, comprese naturalmente quelle religiose. Chi invoca una penetrazione del privato nel pubblico per dare più forza al privato non sembra rendersi conto che ciò significa anche penetrazione del pubblico nel privato, del quale viene così condizionata, e quindi limitata, l´autonomia.
Questo vale anche per la coscienza religiosa, che ha a sua volta bisogno di libertà per radicarsi ed esprimersi. In altre parole: se viene privatizzato il pubblico, viene contestualmente pubblicizzato il privato. Ma allora, basterebbe eliminare alcuni equivoci terminologici perché tutto funzionasse per il meglio?
Purtroppo non è così. Le pressioni delle gerarchie cattoliche e dei loro fiancheggiatori politici e culturali quando chiedono maggiore presenza nello spazio pubblico mirano in realtà ad avere più spazio nel potere pubblico, basandosi sul doppio significato di "pubblico" che sopra ho cercato di delineare. In Italia i concordati, sia quello di Mussolini che quello di Craxi, hanno introdotto una confusione fra pubblico e privato che apre la strada alla nuove, pressanti, richieste della gerarchia ecclesiastica di provvedimenti normativi a proprio favore. Tali richieste, venuta meno la mediazione politica che la Democrazia Cristiana, pur entro certi limiti, sapeva di dover compiere, diventano sempre più insistenti, giovandosi da un lato della libertà che la Costituzione garantisce a tutti i cittadini e nello stesso tempo usufruendo dei privilegi assicurati dal Concordato e dalle molte leggi che, dal campo finanziario a quello scolastico, li vanno accrescendo. Sembra quasi che intorno alle dichiarazioni di alcune autorità ecclesiastiche aleggino le parole attribuite ai gesuiti dell´Ottocento nei confronti dei liberali: «Esigo da voi la libertà perché è nei vostri principii, ma ve la nego perché non è nei miei».
Del resto, è intorno allo stesso concetto di libertà che, su questo terreno, possono sorgere equivoci. Una cosa è la libertà della Chiesa cattolica, altra cosa è la libertà di coscienza dei singoli cittadini di fronte alle religioni. Quando la Chiesa cattolica come istituzione rivendica la propria libertà ha ben diritto di farlo, ma deve rispettare i limiti che all´esercizio di quella libertà sono posti dalla libertà assicurata a tutti i cittadini dalla Costituzione. Non possono cioè le norme e i precetti della Chiesa trasformarsi, direttamente o indirettamente, in norme dello Stato, che verrebbero in tal modo a violare l´eguaglianza di tutti di fronte alla legge, cioè a dare vita a nuovi privilegi.
Nelle discussioni sui rapporti fra religione e politica non dovrebbe dunque insinuarsi l´idea che si tratti di rapporti fra due poteri, come quelli fra papa e imperatore al tempo della lotta delle investiture. Questo immeschinisce il più delle volte il discorso attorno alla religione e ne mette ai margini gli agnostici e gli atei, i quali, forse intimiditi dal clima che prevalentemente li circonda, a loro volta esitano ad affrontare con i cattolici e gli altri credenti i sommi problemi attorno al mondo, all´uomo, al suo destino, alle sue paure e alle sue speranze, che sono comuni a tutta l´umanità e che hanno fornito alle religioni la base dello loro forza attraverso i secoli.
Esiste anche in Italia una tradizione di cattolici liberali e democratici che hanno fatto della coesistenza fra la loro fede, la libertà e la democrazia un problema di coscienza, non un problema di rapporto fra due poteri.
Se ammiriamo due grandi intellettuali cattolici di recente scomparsi, Giuseppe Alberigo e Pietro Scoppola, è perché cogliamo, nella loro opera storiografica e nella loro presenza sulla scena pubblica, la sincera e talvolta dolente tensione fra quei due poli presenti nel profondo del loro animo. Alberigo e Scoppola, pur così attenti al concreto dispiegarsi nella vita istituzionale e politica dell´attività religiosa, ci ricordano che, a monte delle relative norme giuridiche, esistono principii che le trascendono, i quali, ove fossero violati, metterebbero in crisi l´intero edificio dello Stato laico.
Ai fermi difensori della laicità viene talvolta opposta la goffa replica: «Ma allora anche voi siete dogmatici!». Chi muove questa accusa sembra incapace di distinguere fra dogma e fermezza di convinzioni nella difesa della libertà di tutti. Certo, chi pensa che la morale possa fondarsi solo su verità dogmaticamente affermate può sentirsi smarrito in un mondo in cui si cerca e si pratica l´eticità muovendo dall´opposto principio dell´autonomia della morale. Ma di fatto la laicità, frutto di un lungo e difficile percorso costato crisi di coscienza, sofferenze e talvolta roghi, basandosi sulla distinzione fra spazio pubblico e potere pubblico, assicura anche a chi la nega o la stravolge (ad esempio, opponendo al laico buono il laicista cattivo) condizioni di vita intellettuale, sociale e politica in cui egli può liberamente vivere ed esprimersi.

 

Claudio Pavone      Repubblica 3.12.07