I cattolici e l’accettazione del razzismo

La visita di Benedetto XVI alla Sinagoga ha potuto svolgersi anche perché vi è stata una promessa
(La Stampa 17 gennaio): « L’impegno è che mai più nessuno sia lasciato solo, come nel ’38 con le
leggi razziali». L’incontro è andato bene, ma, nonostante la buona volontà, «nessuno può dirsi
soddisfatto”» come La Stampa (18 gennaio) titola il bellissimo commento di Franco Garelli. A
fianco Lucia Annunziata spiega le ragioni e le radici dell’«imbarazzo celato per il Pontefice
tedesco».
La verità è che nessuno può sapere se quell’impegno – «mai più nessuno sia lasciato solo» – sarà
rispettato.
La questione va oltre il silenzio di un uomo solo; né si risolve con la constatazione che
molti rischiarono la propria vita per salvare quella di un altro. Certo: la solidarietà effettiva e
silenziosa di molti umili cittadini e religiosi fu un segno forse anche più grande del silenzio dei
vertici. Ma il fatto epocale resta: un popolo intero, e una cristianità, accettarono l’instaurazione di
leggi e di pratiche razziali che negavano in radice l’eguaglianza di tutti gli uomini.

È l’accettazione passiva – e per qualcuno, a tratti, la condivisione – del paganesimo razzista che ha
accompagnato quella tragedia culminata nelle razzie e nei lager. Per fanatismo interesse o paura, un
popolo intero (e un popolo cristiano!) soffocò la compassione.

Quella che porta a chiedersi «perché io sono io, e non sono uno di loro?», e a darsi una risposta
generosa e vera, che rovescia la domanda: «Non è così: perché io sono uno di loro».
La sfida tra egoismo e compassione, si ripete. Sandro Veronesi (la Repubblica 20 gennaio) la
ripropone di fronte all’immagine dei sopravvissuti e dei cadaveri di Port-au-Prince.
Nei giorni scorsi, pensando alle difficoltà che affliggono i rapporti tra i cattolici e i loro «fratelli
maggiori», mi chiedevo se anche oggi non stiamo lasciando solo qualcuno. Certo le violenze di
Rosarno hanno fatto levare qualche voce di protesta. Ma la diffusa insensibilità verso il dramma di
profughi, fuggiaschi, immigrati dai paesi poveri è troppo scandalosa e scava un solco
d’incomprensione che durerà secoli. Gli immigrati sulle barche o nei cassoni dei Tir non sono“altri”, sono “noi”.

Rivelano noi a noi stessi. È un fatto politico; riguarda cioè la convivenza civile,
l’intera nazione e la stessa Europa. Li lasceremo soli? O siamo dalla loro parte (pur con regole e
strumenti adeguati) o siamo corresponsabili di qualcosa che è molto simile alla tragedia del popolo
ebraico. Più che rivendicare le radici cristiane è urgente dimostrare che qualche frutto cristiano ci
sia ancora o possa nascere
; e domandarci se i rami del vecchio albero siano vivi e possano diventare
rifugio accogliente per chi ne ha bisogno.
O se radici e rami siano morti per avarizia e nostalgia.


Angelo Bertani       in “Europa” del 22 gennaio 2010