I barbari della
porta accanto
Se tutti fossero come il signor Franz Liebhard, Gian Antonio Stella non avrebbe
potuto scrivere il
suo libro Negri froci giudei & Co . L’eterna guerra contro l’altro , ma
il mondo sarebbe più
vivibile. Nel 1917, il signor Liebhard si chiamava ancora col suo vero nome —
posto che ne esista
per ognuno di noi uno «vero» — ossia Reiter Róbert e scriveva, in ungherese,
ardue poesie
sperimentali su riviste d’avanguardia. Alcuni anni dopo scriveva, firmandosi
Robert Reiter — ossia
alla tedesca e non più secondo l’uso magiaro di anteporre il cognome — liriche
in tedesco, un po’
meno ardite. Dall’inizio degli anni Quaranta, ha cominciato a scrivere —
assumendo il nome di un
amico minatore morto in un incidente, Franz Liebhard — tradizionali poesie,
sempre in tedesco e in
rima, che parlano di boschi, fiori e cieli stellati ed è divenuto un poeta della
minoranza tedesca del
Banato, in Romania (dalla quale proviene Hertha Müller, premio Nobel di
quest’anno), oggi
pressoché scomparsa. Come dice lui stesso, ha imparato «a pensare e a sentire in
più popoli».
Chissà come Franz Liebhard, Reiter Róbert e Robert Reiter si sopportavano a
vicenda, se vivevano
bene insieme o se si guardavano in cagnesco, come facevano, in quelle terre
multietniche e
multiculturali, ungheresi, tedeschi, romeni, serbi e così via, vicini di
casa pronti a scannarsi alla
prima occasione e convinti, ognuno, di essere l’unica nazionalità legittima di
quei Paesi e in ogni
caso la migliore. Ogni gruppo, ricorda Stella nel suo libro — che
è un potente, ferocemente ilare e
doloroso dizionario o prontuario universale di tutte le ingiurie, odi e
pregiudizi nei confronti del
diverso d’ogni genere — si ritiene superiore a tutti gli altri, che disprezza e
respinge.
I barbari, egli ricorda, sono dappertutto e la loro presenza illecita
comincia dovunque davanti alla
porta di casa; per i vecchi di Rialto gli unici veneziani autentici sono
loro, che si considerano il
centro del mondo, mentre già oltre il Ponte de la Libertà che porta in
terraferma ci sono «gli altri» e
sarebbe meglio che non ci fossero. D’altronde pure la Cina si è sempre
considerata il centro del
mondo e non solo i nazisti o i bianchi in genere, ma pure i neri loro vittime
hanno elaborato teorie e
miti di superiorità razziale e culturale; tutto ciò ha portato a violenze
inenarrabili sotto ogni cielo e
in ogni tempo, inflitte certo generalmente dai più forti, ma anche dai più
deboli quando ne hanno
avuta la possibilità. Persecutori e perseguitati sono talora le stesse persone,
in momenti diversi e in
rapporto a persone diverse; quasi all’inizio del libro Stella pone, con uno di
quei caustici colpi d'ala
di cui è maestro, la persecuzione feroce subita, da parte degli inglesi, dai
boeri, peraltro conosciuti
quali feroci segregazionisti e persecutori dei neri.
Ogni popolo, ogni cultura, ogni angolo di rione, ogni chiesa si macchiano
di queste turpitudini, in
cui dalla comica stupidità all’efferata crudeltà il passo è talora breve;
il diverso, deriso o anche
massacrato, dimostra Stella, non è solo lo straniero ma può essere l’abitante
della stessa provincia,
che parla il medesimo dialetto ma con qualche sfumatura differente. Stella e
Rizzo hanno scritto un
celebre libro sulla casta dei politici; ogni gruppo si costituisce come una
casta, chiusa alle altre.
In un acutissimo saggio José Angel Gonzalez Sainz ha analizzato i meccanismi e i
dispositivi con
cui si creano nella testa delle persone i sentimenti e i modi di percepire gli
altri, gli estranei.
Lo stupidario del razzismo non basta; rischia di rendere il suo lettore
compiaciuto della propria
apertura di mente e della propria civiltà rispetto alle litanie dell’odio, della
paura e della povertà di
spirito e di non preoccuparsene troppo. Resta la domanda, posta dal titolo di un
libro di
Cernyševskij che era caro a Lenin: Che fare?
Anzitutto, per fare realmente i conti con questo dramma, occorre sapere che
nessuno è immune da
pregiudizi verso l’altro, anche se non lo sa. I razzisti dicono che i neri
puzzano e i liberali sanno che anche i bianchi, per i neri, puzzano.
È già qualcosa, ma non basta. Ognuno di noi ha dentro di
sé,
anche inconsapevolmente, il suo diverso da rifiutare o il momento in cui, magari
per un attimo,
rifiuta qualche diverso; occorre sapere che, almeno in qualche momento di caduta
spirituale e intellettuale, anche noi riteniamo a priori qualcuno più puzzolente
degli altri.
È questo il peccato mortale che ci insidia e tranne qualche
rarissimo santo — ma forse anche lui — ognuno è un
peccatore.
Credo che i miei genitori mi abbiano dato un formidabile vaccino contro ogni
razzismo, proprio
perché non mi hanno mai detto che non bisogna essere razzisti, così come non mi
hanno mai detto
che non si pranza in gabinetto, ma semplicemente col loro modo di essere — di
lavorare, divertirsi,
volersi bene, litigare, parlare — creavano un mondo in cui era impensabile
essere razzisti o portarsi
gli spaghetti al cesso. Tutto ciò vale più di ogni predica. Ma non sono
sicuro che, se fossi
ripetutamente derubato da qualcuno appartenente a un determinato gruppo, non mi
lascerei andare
stupidamente a un’indistinta ira verso tutto il suo gruppo. Solo se
mi rendo conto di correre anch’io
il rischio di rientrare nello stupidario dei fanatici posso combatterlo
realmente; altrimenti cadrei
anch’io nella loro presunzione di incarnare la civiltà contro i barbari e ciò
vale ovviamente per tutti.
Ogni convivenza, inoltre, è difficile; non a caso tanti matrimoni naufragano e
non solo quelli fra
bianchi e neri. Essa esige non solo il nostro rispetto dell’altro, del diverso
arrivato fra noi (chi sono
poi questi noi?), ma anche il suo rispetto nei nostri confronti. Se un mio
vicino provenisse da una
cultura in cui si passa la notte a far baccano, io avrei qualche problema e
dovremmo fare entrambi
uno sforzo, io di sopportare un po’ di più il chiasso e lui di farne un po’
meno. Ma soprattutto non si
può ignorare la possibilità di conflitti reali tra sistemi di valori
inconciliabili, fra i quali è inevitabile
scegliere con decisione: rispetto a me, al mio sistema di valori, un nazista
fautore della Shoah è
indubbiamente un «diverso», ma in questo caso la sua diversità è
inaccettabile e devo assumermi la
dolorosa responsabilità di combatterla.
La diversità, ha scritto Predrag Matvejevic, non è di per sé ancora un valore,
né la mia né quella
dell’altro, ma il suo valore dipende dal rispetto che essa ha — o non ha —
nei confronti della
dignità di tutti gli uomini. Non c'è da vergognarsi ma neppure da
inorgoglirsi di essere «diversi» (da
chi?). Chi è stato ingiustamente perseguitato tende inoltre a considerarsi tale
anche quando non lo è
più, sentendosi gratificato da tale qualifica. Ma in tal modo, osserva Glissant
— grande scrittore
nero discendente di schiavi — si rimpicciolisce e perde signorilità nei rapporti
col mondo.
L’uguaglianza, è stato spesso osservato, può essere pericolosa e totalitaria,
può implicare il
livellamento di tutte le civiltà, cultura e tradizioni costrette a uniformarsi a
un unico modello, quello
della società più forte; nel nostro caso, al modello occidentale. Ma proprio
perché condanniamo le
infamie commesse dall’Occidente — le guerre e le persecuzioni religiose, la
tratta degli schiavi, il
colonialismo, la Shoah perpetrata da una delle più grandi nazioni
d'Europa — non possiamo
abdicare a quei principi universali in base ai quali condanniamo quelle infamie.
Ad esempio,
nessuna cultura altra o diversa può farci deflettere dal principio della pari
dignità di ogni essere
umano a prescindere dalla sua identità etnica, culturale, sessuale o religiosa.
Le minoranze, specie
quelle nazionali, hanno bisogno di leggi che le tutelino ma senza ledere il
principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini.
È sconcertante, ad esempio, che nel Québec, ha ricordato
Charles Taylor, la legge
101 sulla scuola vieti sostanzialmente ai francofoni e agli immigrati di
iscrivere i loro figli a scuole
di lingua inglese, mentre lo consente ai canadesi anglofoni.
Per evitare l’eterna guerra contro l’altro, una politica responsabile deve
cercare di evitare il crearsi
di situazioni di conflitto che esasperino i pregiudizi, i risentimenti, le paure
e le conseguenti
violenze. Domani, ad esempio, il numero di immigrati — ossia di nostri
concittadini del mondo
giustamente desiderosi di sfuggire a un destino orribile — potrebbe divenire
così grande da rendere
materialmente impossibile l'accoglienza, al di là di ogni stolido e crudele
pregiudizio; se tutti i
dannati della terra arrivassero in Italia, non sarebbe fisicamente possibile
accoglierli tutti e sarebbe
una tragedia.
Sul nostro futuro — sul futuro dell’umanità — incombe la minaccia di questa
tragedia. Nessuno,
credo, è così geniale da sapere come stornarla. Nel frattempo, un modo di
arginare l’eterna guerra
contro l’altro sarebbe quella di considerare come «altri» tutti, compresi noi
stessi. Potremmo
prendere esempio da un’anziana donna del Banato di cui ho parlato in un mio
libro, nonna Anka.
Questa donna, figlia di quella terra multiculturale straziata dall’odio di tutti
contro tutti, parlava
male di tutte le nazionalità della sua terra, compresa quella che considerava
più sua, la serba.
Diceva peste e corna di tutti i diversi e di tutti gli altri, ma sapendo di
essere anche lei una diversa,
un’altra e di meritare alcune di quelle strapazzate. Aveva ragione, perché
siamo tutti dei lazzaroni e
in questo riconoscimento della comune miseria ci può essere più concreta
fraternità che nei bei
discorsi politicamente corretti in cui tutti, i diversi e i non diversi, vengono
elogiati come brave
persone.
Claudio Magris Corriere della Sera 30
novembre 2009