Hic sunt leones. Le “terre di nessuno” dell’impero.

“Un punto in mezzo al niente
un mondo in un mondo
intorno a un mare maledetto di cemento
che a cento all'ora centomila treni navigano in corsa”

Assalti Frontali – “Terra di nessuno

I – Il pianeta dei naufraghi

Qualche anno fa, il sociologo Serge Latouche coniò la definizione “pianeta dei naufraghi” per descrivere la condizione di quelle comunità dell’Africa subsahariana letteralmente devastate da quella che lui chiama “occidentalizzazione del mondo”. Si tratta di comunità espulse dalla sfera della circolazione capitalistica, completamente escluse dalla “megamacchina tecnoeconomica transnazionale, là dove i benefici sociali, politici ed economici della modernità-mondo sono quasi inesistenti”[1]. Se in passato i componenti di queste comunità erano sottoposti allo sfruttamento della manodopera migrante e potevano sperare nel lavoro di alcuni di loro in Europa o in altre città dell’Occidente, oggi, per gli abitanti del pianeta dei naufraghi, anche questa prospettiva è caduta. Questa invisibile gemeinschaft, in altri termini, non è più sostenuta dalle rimesse del lavoro immigrato e finisce per essere composta da “marginali integrali” –come li definisce Latouche- quasi fosse una “discarica di materiale umano”, potremmo aggiungere noi. Queste comunità, per sopravvivere, riciclano i rifiuti della modernità, tanto che le stesse materie prime consistono in oggetti di recupero (come accade per gli scudi dei Papua della Nuova Guinea, fatti con la lamiera dei bidoni, alle capanne costruite con cartelloni pubblicitari in Mauritania, agli specchi ricavati dalle lamiere delle vecchie auto in alcuni villaggi della Sierra Leone). Per sopravvivere, gli esclusi dalla megamacchina si affidano a reti di mutua assistenza e si organizzano in “enclavi sociali”, nelle quali sono del tutto assenti sia qualunque forma di istituzione statale che di autogoverno, sostituite da milizie armate al servizio degli interessi economici multinazionali. Questo pianeta dei naufraghi è, letteralmente, un non-luogo, privo di una connotazione territoriale e politica. Esso si replica a macchia di leopardo seguendo le rotte della guerra: in Darfur, la regione occidentale del Sudan ridotta a un immenso campo profughi, sono ammassate in condizioni disperate oltre due milioni e mezzo di persone, nei villaggi del Nord Uganda ve ne sono un milione e mezzo e mille di loro muoiono ogni settimana, due milioni sono abbandonati nei campi profughi afghani di Peshawar, 300.000 in quelli dei Saharawi nel deserto algerino. Queste persone per il capitale non esistono perché non producono nulla – meglio, non producono beni di consumo-, ci appaiono, parafrasando Foucault, che definì la follia “assenza di opera”, una gigantesca comunità di folli, condannata a riprodursi, come eccedenza inguardabile della società dei produttori, finché le enclavi che fisicamente la contengono hanno una qualche residua funzione da assolvere, sia essa la delimitazione di aree di confine strategiche o un’opportunità di investimento per le multinazionali “umanitarie”, per le quali questa eccedenza folle prodotta dalla globalizzazione torna, transitoriamente e paradossalmente, a produrre ricchezza. Quest’ultimo riferimento all’industria umanitaria può suonare come una provocazione. Tuttavia esso ci mostra come anche l’eccedenza folle possa essere messa a profitto attraverso la mercificazione dei corpi, attraverso la trasmutazione dei dannati della terra dalla condizione di produttori a quella di prodotti. Come in ogni ciclo produttivo, infatti, la regola per ottimizzare il profitto richiede la possibilità di recuperare al mercato anche i prodotti di scarto. Bene, il pianeta dei naufraghi ci ricorda che questa regola è applicabile anche agli esseri umani: quando l’eccedenza non può essere irreggimentata nella regolazione dei flussi migratori, essa viene posta a decantare nelle terre di nessuno e in qualche modo messa a valore. Torna, per esempio, a produrre profitto attraverso l’azione parassitaria degli “aiuti umanitari”. Si stima che per il solo Darfur sia stato stanziato circa un miliardo di dollari negli ultimi 12 mesi, ma questa massa di danaro si è tradotta solo in minima parte in infrastrutture e i benefici reali, per quei 2 milioni di profughi, sono stati impercettibili. Tuttavia questo live aid permanente mette in moto un complesso meccanismo di donazioni, trasporti, sinergie tra istituzioni e capitale privato, crea “nuove professionalità”, sempre più appannaggio non più del volontariato ma di vere e proprie holding, che in molti casi offrono i propri “servizi” tanto al settore bellico che a quello del peace building.

Ecco che, allora, questo ciclo infernale ci ricorda che uomini e donne sono divenuti l'unica risorsa rinnovabile disponibile sul pianeta e, in effetti, la stessa odissea dei migranti non è che uno degli aspetti più eclatanti della mercificazione dell'essere umano, ci svela brutalmente il senso della nuova sovranità biopolitica esercitata dal capitale sulla società. Messo a valore è l'individuo nella sua totalità, mente e corpo, e sul suo sfruttamento intensivo si gioca l'annullamento della sua soggettività, la sua riduzione a merce. L’eccedenza folle produce profitto invisibile.

II – Isole nella rete

Di questa strategia di sparizione messa in scena dal capitale è comunque vittima una parte sempre più consistente della stessa società dei produttori, in particolare quella che Marx chiamò, ai tempi della sferragliante locomotiva dello sviluppo, “esercito industriale di riserva”. Come è noto, su questa definizione egli costruì una sorta di “teoria della popolazione operaia”, basata sul principio di pericolosità che il capitale assegnava a certe categorie di produttori: l’operaio della grande industria, costituitosi come soggetto politico forte tra le mura della fabbrica, andava sospinto verso la sfera della povertà diffusa, doveva divenire un forza produttiva di riserva sempre disponibile e pronta a essere mobilitata secondo i fabbisogni del ciclo di accumulazione. Ciò avrebbe determinato la sua “sparizione” come soggetto. Sappiamo poi come questo desiderio inconfessabile prodotto dall’intelligenza capitalistica si sia scontrato con la macchina fordista e il formidabile ciclo di lotte dell’operaio massa. Ma oggi, nel passaggio dalla società industriale a quella postindustriale, il capitale globale mostra di nutrire la medesima ambizione e si dispone, attraverso delocalizzazione, flessibilità e mobilità del lavoro, a mettere in moto un nuovo esodo della residua popolazione operaia verso il territorio invisibile della povertà assoluta. Questa “terra di nessuno” del lavoro –dalla quale sono state bandite tutele, dignità e garanzie per chi produce- ha da tempo una rete di laboratori diffusi, come le maquilas, sorta di fabbriche "usa e getta" a capitale straniero che godono di extraterritorialità. L'enorme bacino da cui esse attingono mano d'opera è stato creato ad arte da decenni di spietate politiche economiche (targate G8, Wto, Fmi, Banca Mondiale), attraverso progetti di sviluppo (Alca, Nafta, Plan Colombia e Plan Puebla-Panama) aventi come unico obiettivo la distruzione delle economie locali, in particolare il settore agroalimentare, e che hanno costretto i campesinos all'abbandono delle terre al fine di indirizzarli forzatamente verso il settore manifatturiero. In tutta l’America Centrale le maquilas – nate nelle “aree di libera produzione” degli anni settanta- sono ormai migliaia: vi lavorano quasi 500.000 persone, di cui tre quarti donne,  e questo settore rappresenta il 58,7% delle esportazioni del Salvador, il 47,2% dell'Honduras, il 58% del Nicaragua, il 18% del Guatemala e del Messico. Solo 45 delle 1.212 maquilas censite che operano in America centrale, contano una sezione sindacale: vi si lavora con turni di 11-14 ore, con il cottimo come regola, gli straordinari spesso obbligatori, la paga base nel migliore dei casi di 60 centesimi di dollaro l'ora. In questi gironi infernali si producono le Nike griffate Michael Jordan, che nelle vetrine occidentali vantano un prezzo di vendita tra i 150 e i 200 dollari e per le quali il suo produttore prende circa 20 cent a paio, o le magliette dei Los Angeles Lakers con il n. 34 di Shaquille O'Neal sulle spalle, che nei negozi non è possibile comprare a meno di 150 dollari e per le quali una maquiladora prende 29 centesimi di dollaro. Il salario del produttore, in altri termini, è pari allo 0,2 per cento del prezzo di vendita del prodotto al pubblico del “primo mondo”. Queste enclavi destinate alla produzione di beni di esportazione, che utilizzano mano d'opera a bassissimo costo per potere essere competitive sul mercato mondiale, nascono in territori invisibili, scorporati dalla fisionomia geografica e politica dello stato di cui fanno parte. Sono zone promosse da interessi privati e protette dai governi, nelle quali vige una “normativa” del lavoro diversa da quella valida per il resto del paese, nelle quali gli investimenti delle imprese non contribuiscono allo sviluppo economico e sociale del territorio in cui si installano, non introducono innovazioni tecnologiche, né qualificano i lavoratori, ma instaurano un rapporto predatorio, di rapina, con la forza lavoro. Anche questi lavoratori sono in qualche modo dei naufraghi, sospinti dalla corrente della globalizzazione su isolotti inaccessibili come penitenziari.

III – La guerra dei mondi

Lo scenario nel quale affiorano il “pianeta dei naufraghi” e le “isole di produzione servile” è quello  della guerra globale permanente. E’ lo scenario subentrato prepotentemente, all’indomani dell’11 settembre, al soft power della globalizzazione di fine secolo, che aveva tentato di trasformare l'intero pianeta in un immenso mercato, alimentato dallo sfruttamento intensivo della forza lavoro del  sud del mondo e dalla spoliazione sistematica delle sue risorse. Ora il capitalismo ha eletto la guerra permanente a unico elemento di governance mondiale e il mondo - soprattutto i suoi pezzi più poveri- è divenuto un sconfinato campo profughi, sorto attorno ai flussi di mano d'opera mobilitati verso quelle aree dove i signori della terra decidono di impiantare insediamenti produttivi, a basso costo e alto profitto.

Questo mutamento di scena si è consumato nel passaggio dalla ricerca della normalizzazione economica e della stabilità politica a quella della perpetuazione strategica della instabilità. Al capitale, fin qui, non era mai convenuto che la guerra si protraesse oltre certi limiti. L’inizio del primo conflitto mondiale fu determinato dalla necessità capitalistica di rimuovere l’ingombro costituito dai vecchi imperi alla libera circolazione delle merci e alla globalizzazione dei mercati, e la sua fine, più che dalla sorte dei combattimenti sul campo, scaturì dalla urgenza delle elité capitalistiche di mettere a profitto i nuovi assetti geopolitici che andavano delineandosi. Nel 1917, a guerra ancora in corso, i vari Rockfeller, Vanderbilt, Carnegie, Brown-Harriman, Dillon-Reed – in una parola, la grande finanza di Wall Street, che pure si era ingrassata con i profitti dell’economia di guerra- fremevano di sperimentare le prospettive che avrebbe dischiuso l’internazionalizzazione capitalistica, e i loro centri studi già mettevano a punto le linee guida dalle quali sarebbe nata la “pace” della conferenza di Parigi del 1919. Certo, faceva gola l’enorme business della ricostruzione post-bellica, alle banche d’affari non sfuggiva la ghiotta opportunità di profitti rappresentata dalle onerosissime riparazioni economiche per i danni di guerra comminate alle potenze sconfitte, Germania in testa. Ma più di ogni altra cosa stimolava gli appetiti delle elité la possibilità di estendere ovunque i distretti della circolazione capitalistica. E difatti, nel ventennio che seguì alla fine della prima guerra mondiale, le nascenti multinazionali estesero i loro mercati fin dove era possibile, contribuendo in maniera determinante, tra l’altro, a costruire quel mostro economico e bellico con il quale Hitler scatenò poi la seconda guerra mondiale. Ma ancora una volta, quando il pericolo che la dittatura nazista si estendesse sul pianeta divenne reale, il cervello capitalistico si mise al lavoro per costruire la “pace”: i War and peace studies, coordinati dal Council on Foreign Relations durante gli anni di guerra, sono un esempio formidabile di pianificazione capitalistica e costituirono la base teorica sulla quale furono istruite le conferenze di Postdam, Teheran e Yalta. Del resto, non sempre si presta la dovuta attenzione al fatto che a conflitto ancora in corso, nel 1944, con la Conferenza di Bretton Woods –che portò alla costituzione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale- e, l’anno successivo, con la Conferenza di San Francisco – da cui nacquero le Nazioni unite- il capitale si muoveva già risolutamente verso l’imposizione di un modello di sviluppo incardinato sul New Deal americano e alimentato da un sistema di scambi commerciali formalmente liberi ma dominati dall’onnipotenza del dollaro. Dunque, da una parte si perseguiva l’obiettivo di promuovere lo sviluppo economico e ricreare un sistema di scambi multilaterali in condizione di stabilità e, dall’altra, con la fondazione delle Nazioni unite, si cercava di costruire un dispositivo di controllo sovranazionale di questo sistema. Il secondo dopoguerra nasceva all’insegna di questa gigantesca macchina di “normalizzazione” capitalistica la quale però, ben presto, dovette confrontarsi con la rigidità del blocco socialista costruito dall’Unione Sovietica. La cosiddetta guerra fredda nasce proprio attorno all’impossibilità di gestire, con le sole armi dell’economia, la stabilità postbellica e la dottrina del containment e della deterrenza nucleare ne sono la testimonianza più eclatante. Il contenimento militare dell’Urss, in altri termini, bloccò la proliferazione globale liberista e assegnò agli Usa, detentori del primato negli armamenti, un ruolo guida anche sul piano economico. Basti pensare che lo stesso processo di unificazione monetaria europeo, avviato negli anni ‘70, non riuscì a emanciparsi dalle strutture di controllo allestite dagli Stati uniti –Nato in testa- e i successivi tentativi di integrazione e cooperazione dovettero passare per la Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione e l’impatto della Ostpolitik prima di arrivare alla svolta di Maastricht. Tuttavia, in quegli stessi anni, le spinte verso la globalizzazione non smettevano di esercitare la loro pressione sullo stesso establishment  americano. La strategia della Trilateral, ad esempio, è un tentativo di rovesciamento radicale, un riassemblaggio della westernization sull’asse delle tecnologie dell’informazione che prelude all’esplosione della new economy e incorona la diplomazia –e dunque la comunicazione- a nuovo moltiplicatore capitalistico in grado di dischiudere le porte dei mercati globali e di assegnare agli Stati uniti una supremazia ben più duratura di quella assicurata da mille testate nucleari. Quando, nel ’89, l’ormai logoro blocco sovietico implode e si inabissa per sempre, i giochi sembrano fatti: alla penetrazione capitalistica si aprono le praterie senza fine dell’est e la globalizzazione promette opportunità inimmaginabili. Il soft power è il nuovo conio dell’impero.

IV – La guerra dentro

Ma per l’ennesima volta la storia prende un altro corso. La globalizzazione si rivela ben presto incapace di normalizzare il mondo in chiave neoliberista. Le politiche finanziarie dell’Fmi e della Banca Mondiale in Latino America (fondate sull’imposizione della parità col dollaro, sulla privatizzazione delle risorse naturali –gas e acqua in primo luogo-, sullo sfruttamento intensivo della manodopera a basso costo) determinano ben presto una situazione di crisi e instabilità (in Argentina, Bolivia, Ecuador, Colombia); la new economy esplode nella più gigantesca bolla speculativa dei tempi moderni; l’approvvigionamento delle fonte energetiche diviene un moltiplicatore di conflitti regionali; i mercati occidentali iniziano a fare i conti con un gigante, la Cina, dagli intollerabili ritmi di crescita e da un aggressività sempre più marcata. In una parola, la crisi diviene la cifra del nuovo capitale globale, sua condizione costituiva, fonte di nuovi conflitti e generatrice di nuovi soggetti antagonisti. Ora, come da questa crisi si sia passati a uno stato di guerra dichiarato e generalizzato sarebbe qui troppo lungo discorrere nei singoli passaggi. Sicuramente, però, se l’11 settembre ha inaugurato ufficialmente le ostilità, i prodromi di questa dichiarazione di guerra all’umanità stanno tutti nella dèbâcle delle funzioni normalizzatrici della globalizzazione di fine secolo. Il capitale in crisi, ancora una volta, tenta di riprodursi attraverso la crisi stessa e la guerra è la forma più feroce e distruttiva che la crisi può assumere. La necessità della guerra, in altri termini, è inscritta nella natura di una crisi che non è né congiunturale né ciclica ma legata alla forma stessa del dominio. Non stiamo, cioè, parlando semplicemente di crisi di sovranità, ma di un comando che non può esprimersi se non come potenza distruttrice, se non come “guerra pura”. Quando la guerra, fino all’età moderna, è stata periodicamente agìta – ingaggiata secondo la regola aurea del sangue e del suolo, Blut und Boden - la ‘guerra pura’, paradossalmente, è entrata in una condizione di quiete momentanea e imperscrutabile, tornando a rintanarsi nella politica ma pronta a rimettersi in moto non appena alla guerra guerreggiata succedeva la pace.
Il fatto che la guerra, nell’era degli stati nazione, sia stata definita come “prosecuzione della politica con altri mezzi”, pertanto, indica sostanzialmente che a essa si faceva ricorso in base a criteri di opportunità o di necessità, in cima ai quali vi era la considerazione della potenza militare dell’avversario. Per quanto i rapporti di forza potessero essere sbilanciati, la semplice possibilità di poterli considerare testimoniava di una sostanziale simmetria tra i soggetti in campo, che potevano vantare prerogative dello stesso tipo, a partire dal fatto che l‘esercizio della reciproca sovranità risiedeva sul possesso di territori distinti, che non potevano essere violati se non attraverso il ricorso alle armi. Le fortificazioni erette nei secoli, dalla muraglia cinese alla cortina di ferro, sono una maestosa testimonianza di questa simmetria, che nella sua forma estrema ha portato al bipolarismo della seconda metà del secolo scorso, regolato dalla contrapposizione sistemica tra patto di Varsavia e Patto Atlantico; dispositivi che oltre a perimetrare lo spazio in base all’occupazione di territorio ambivano a garantirne la sicurezza. Ora questo meccanismo è saltato e la guerra, da opzione “eccezionale” per la risoluzione dei conflitti e delle controversie internazionali, è divenuta regola costituente, costituzione formale e materiale dell’impero. La guerra, senza bisogno di filtri e mediazioni, produce società. Se questo è vero, il perseguimento, da parte dell’impero, dell’instabilità permanente è una conseguenza inevitabile, uno statu quo non da occultare ma da rendere pubblico, da far condividere, da imporre come condizione ineliminabile con cui occorre convivere. Guerra e instabilità sono dunque divenuti un binomio inscindibile dell’architettura imperiale, cioè della sua costruzione logica, del suo ordine simbolico, che si fonda ora sul mantenimento del caos piuttosto che sul perseguimento dello stato di quiete universale. Presidiare il disordine, gestirlo, assicura il perpetuarsi della funzione poliziesca e, dunque, rinnova incessantemente l’autorità di colui che ha la forza per esercitarla. “Gli Stati uniti – scrive Alain Joxe[2] – si rifiutano di assumere una funzione protettrice nei riguardi dei loro ausiliari, amici o sottoposti. Non cercano di conquistare il mondo e di assumersi dunque la responsabilità delle società sottomesse. Non si pongono alla testa di un impero, ma si propongono come sistema che semplicemente si dedica a regolare il disordine attraverso norme finanziarie e spedizioni militari, senza il progetto di installarsi stabilmente sui territori conquistati”. In virtù di una totale asimmetria, e del suo uso strategico, l’uso della forza diviene essenzialmente di tipo poliziesco, sembra ribadire Joxe, anche quando provoca decine di migliaia di morti e la distruzione di interi paesi. Tra le pieghe di questa mescolanza inedita che sta alle radici della guerra ordinatrice si consuma, in nome di un bisogno indotto e artefatto di “sicurezza”, una degenerazione dispotica del carattere fondativo della polizia moderna, che già Benjamin descriveva essere “potere informe come la sua presenza spettrale, inafferrabile e diffusa per ogni dove”[3], e che ora, congedandosi definitivamente dal diritto, ambisce a regolare autonomamente e pervasivamente la società. E’ appena il caso di ricordare che la “guerra per il caos” non ha nulla di irrazionale ma risponde al soddisfacimento di istanze eminentemente politiche. La prima è quella del controllo. Una società permanentemente in guerra è facilmente ricattabile, giacché ogni sottrazione imposta alla sfera delle libertà trova una sua surrettizia giustificazione nella necessità di difendersi dal nemico di turno, sia esso il migrante, il “diverso” o il terrorista. Non c’è spazio per la democrazia quando la società è sotto assedio. La seconda è di tipo geopolitico. Se l’assetto planetario è instabile, non governabile con gli strumenti della politica, l’opzione marziale non incontrerà ostacoli nell’affermarsi come scelta necessaria e ogni intervento militare, in uno scenario globale, diverrà il presupposto per quello successivo. La terza è di carattere culturale. Se la guerra non si combatte più al fronte ma negli interstizi della vita quotidiana saremo tutti reclutati d’ufficio in qualità di sorveglianti, di sentinelle della nostra “normalità” minacciata. Un esempio estremamente pertinente, in questo senso, è il programma American Neighborhood Watch, varato un paio di anni fa negli Stati uniti, teso a insegnare alla “gente comune” come individuare il terrorista della porta accanto: “Alle comunità dei residenti verranno fornite informazioni che le metteranno in condizione di riconoscere i segni di una potenziale attività terroristica, […] trasformando questi stessi residenti in un fattore decisivo per l’individuazione, la prevenzione e la distruzione del terrorismo”.[4] Gli attentati di Londra del luglio scorso hanno conferito straordinaria vigore a questo sistema di delazione organizzata: il fatto che gli autori della strage fossero appunto “terroristi della porta accanto” – cittadini di Sua Maestà, migranti di terza generazione nati in suolo britannico – ha moltiplicato all’ennesima potenza l’effetto terrore. Il nemico è dentro di noi, è prodotto in qualche modo dalla nostra tolleranza, si riproduce nelle smagliature della democrazia e per combatterlo è necessaria una mobilitazione permanente della società civile. Questa cultura del sospetto ha come esito un paradosso spettacolare e cioè l’oscuramento, oltre che dei diritti civili, della informazione. Tutto ciò che concerne l’identità del potenziale nemico viene secretato per non fornire a quest’ultimo il “vantaggio della sorpresa”. Le gesta di un’armata di spettri sono protette dal silenzio del potere.
V – Intermezzo: l’imperatore invisibile
 

Prima di tornare alle terre di nessuno è forse opportuno aprire una parentesi sul suo Signore, l’imperatore invisibile. Sulle colonne del prestigioso “Foreign Affairs”[5] Charles Krauthammer, editorialista della “Washington Post”, ha assicurato qualche tempo fa che il XXI secolo consacrerà l’affermazione planetaria dell’impero americano: “Dai tempi di Roma nessun paese è stato culturalmente, tecnicamente e militarmente tanto dominante”[6]. Affermazione sottoscritta da uno storico di fama come Paul Kennedy, che ha recentemente sottolineato come né la Pax britannica, né la Francia napoleonica, né la Spagna di Filippo II, né l'impero di Carlomagno, né, infine, lo stesso impero romano siano comparabili con quello americano; e infine ribadita dall’inossidabile Irving Kristol, che interrogandosi retoricamente sui destini americani si è chiesto: “Che senso ha essere la più grande e più potente nazione del mondo e non avere un ruolo imperiale? È un fatto inaudito nella storia umana. La nazione più potente ha sempre avuto un ruolo imperiale”[7]. Questo ci raccontano i grand commis che prosperano tra le fila dell’amministrazione Bush, i centri di studi strategici, gli analisti di geopolitica. Tuttavia, appare del tutto evidente che l’impero a stelle strisce del terzo millennio parli una lingua diversa da quella dei suoi predecessori, a partire dal fatto che esso non si accresce attraverso l’annessione di territori. Risulta pertanto problematico ragionare di “impero americano” nei termini classici se il metro è quello del possesso territoriale: sia l’impero romano che quello britannico avevano annesso fisicamente le terre conquistate al proprio territorio, sotto forma di colonie su cui insisteva la sovranità dell’imperatore. La colonia romana indicava una comunità insediata dal potere centrale in un determinato territorio e costituiva una respublica civium romanorum, un insieme di cittadini romani inviati in terre lontane per sfruttarne le risorse e, solo se necessario, assolveva le funzioni di presidio militare. D’altra parte, il colonialismo britannico, tra il XVIII e l’inizio del XIX secolo, fu veicolato dall’epopea mercantilistica delle compagnie coloniali, per le quali il possesso del territorio altrui era condizione necessaria per l’estrazione delle ricchezze, il cui controllo, sotto il profilo militare, era peraltro assicurato dagli eserciti privati delle stesse compagnie. Il moderno impero americano, invece, come è noto, non annette territori altrui, pur sfruttandone intensivamente e abusivamente le risorse. I confini geografici degli Stati uniti sono rimasti quelli di un secolo fa, se si considera che l’ultima annessione territoriale è quella dell’Arizona, avvenuta nel 1912[8]. Ciò non vuol dire, ovviamente, che gli Usa non abbiano avuto un formidabile ciclo colonialista, teorizzato dalla Dottrina Monroe (1823)[9] e realizzato forzando sempre più la frontiera verso ovest, al costo di un vero e proprio massacro delle popolazioni indiane native. Basti pensare che oltre la metà dell’attuale territorio degli Stati uniti è stato sottratto alle tribù indiane tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, quando in rapida successione furono colonizzati e inglobati come stati dell’Unione il Dakota, il Montana, l’Idaho, il Wyoming, lo Utah, l’Oklahoma, il New Mexico, l’Arizona.[10]

Ma se per la conquista del west si può parlare a ragion veduta di imperialismo, è pur vero, dicevamo, che essa risale alla fase costituente della stessa nazione americana e dunque non può spiegare il militarismo sfrenato dell’impero Usa di oggi. Chi vuole eludere il nodo del possesso di territorio sostiene allora che, una volta definita la fisionomia geografica e istituzionale del paese con l’annessione dell’Arizona, gli Usa si siano preoccupati soltanto di difendere, spesso ricorrendo ad attacchi preventivi, l’integrità dei loro confini e dei loro interessi sparsi per il mondo. In effetti, tutte le volte che gli americani sono intervenuti militarmente all’estero – a partire dalla guerra ispano-americana del 1898 – lo hanno fatto invocando la difesa della sicurezza del proprio popolo. Quando McKinley chiese al Congresso l’autorizzazione per entrare in guerra con la Spagna, affermò che lo faceva per proteggere gli interessi americani e quelli dei cubani oppressi dagli spagnoli e con invidiabile capacità di sintesi concluse: “Noi non interveniamo per conquistare. Interveniamo per il bene dell’umanità”. Affermazione ripresa in termini quasi letterali da Theodore Roosvelt alla vigilia dell’entrata in guerra nel secondo conflitto mondiale (“Non combattiamo per la conquista, ma per un mondo in cui questa nazione e tutto ciò che essa rappresenta sarà sicura per i nostri figli”[11]). Insomma, agli americani gli oneri connessi al mantenimento dello status imperiale sarebbero sempre rimasti sgraditi, al punto di accettare con estrema riluttanza il ruolo di superpotenza. Tesi, quest’ultima, molto in voga tanto sul versante liberal che su quello conservatore, cara tanto ai Jeffersoniani[12] che ai jacksoniani [13], e profanata soltanto dall’impeto neoimperialista dei neocon. Essa potrebbe essere ben sintetizzata con le parole di Charles William Maynes, presidente dell’Eurasia Foundation, che in un suo recente intervento ha ricordato che “l'America è un paese dotato di capacità imperiali ma privo di vocazione imperialista”[14]. Quanto più o meno sostenne molto anni fa Raymond Aron in un celebre saggio, “La Repubblica imperiale”[15], nel quale il filosofo francese disegnava gli Stati uniti come un impero privo della volontà di agire in maniera imperialistica in virtù della costituzione repubblicana che ne aveva segnato le origini e tuttora ne regolava le gesta. Una sorta, insomma, di empire malgrè soi, che si sarebbe manifestato già nell’antica Roma proprio come “repubblica imperiale”, formula utilizzata da Claude Nicolet per descrivere i secoli - grosso modo dal II a.c. al II d.c. - della conquista e della stabilizzazione dell´Impero romano. Va da sé che la metafora dell’imperatore riluttante è un’invenzione retorica del tutto geniale, che si contrappone alla grandeur assolutista degli imperi europei, fondata sull’ostentazione della potenza come emanazione diretta della volontà imperscrutabile del sovrano, dello splendore misterioso del suo comando. La repubblica imperiale si struttura attorno a una condivisione formale del potere per mezzo di istituzioni e luoghi di rappresentanza della volontà popolare, laddove il superpotere monarchico si esaurisce nella rappresentazione del potere personale del sovrano. Grazie a questo rovesciamento, l’imperatore riluttante è in primo luogo il rappresentante – e poi l’esecutore – della potenza di una comunità, è lo strumento  che costruisce la sua storia. La portata simbolica di questa invenzione è testimoniata dalle grandi narrazioni cui essa ha dato luogo: l’impero del bene di ispirazione messianico-millenarista, l’impero benevolente generato dalla repubblica imperiale, lo sceriffo riluttante reclutato nell’ambito della strategia del containment e della guerra fredda. Se volessimo riprendere la similitudine con l’impero romano, potremmo dire, con Gore Vidal, che gli Usa sono rimasti, fino agli anni cinquanta del secolo scorso, una repubblica, anche se dotata, analogamente alla repubblica romana del I secolo d.c., di un robusto impero. E se è vero che, “non esiste una legge che proibisca a una repubblica di possedere un impero”[16] , è tuttavia altamente probabile che una repubblica imperiale si trasformi, come Roma dopo che Giulio Cesare ebbe oltrepassato il Rubicone, in un impero vero e proprio. Così Gore Vidal, che pure ha contato fino alla guerra di Corea ben 250 interventi armati americani nel mondo senza che gli Usa fossero stati attaccati, ritiene, non senza un certo candore, che il passaggio alla status imperiale sia avvenuto nel momento in cui Truman decise di intervenire in Corea senza aver ottenuto la preventiva autorizzazione del Congresso. Ricorrendo esclusivamente a questi argomenti, tuttavia, dello status imperiale degli Stati uniti si potrebbe discettare più o meno all’infinito, così che ci pare utile chiudere la questione a partire da una non-definizione data da Clyde Prestowitz:

“Se qualcosa cammina, fa qua qua e ha l’aspetto di un’anatra, è probabile che sia un’anatra. Certo, l’America ha poche colonie vere e proprie o possedimenti territoriali come la Gran Bretagna o il Giappone del passato. Ma gli imperi si misurano anche con la loro capacità di progettare il potere, di costringere o persuadere altri a eseguire i loro ordini, di porre e applicare regole, e di stabilire norme sociali. Se guardiamo a come se la cavano gli Stati uniti in queste cose, ecco che comincia ad apparire l’inconfondibile immagine di un’anatra”.[17]

L’escamotage di Prestowitz è di indubbia efficacia: come la si pensi sulla natura dell’hyperpuissance amèricaine, essa oggi si dà inequivocabilmente come impero, anche se strutturato su una fisionomia inedita, che ha portato Chalmers Johnson a coniare la definizione di “impero di basi”[18]: oltre 850, quelle conosciute[19], il doppio di quelle dell’impero romano d’occidente nel momento della sua massima espansione – II sec. d.c., quando esso si estese dall’Atlantico al Caucaso, al Sahara, alla Britannia – e un terzo in più di quello vittoriano, sui cui territori, 29 milioni di chilometri quadrati abitati da 390 milioni di persone, agli albori del XX secolo non tramontava mai il sole, come con malcelata nostalgia ricorda Samuel Huntigton in un suo celebre libro[20]. Queste basi, ci riportano alla questione delle terre di nessuno, essendo esse delle “isole di comando”, in regime di extraterritorialità, che si sovrappongono, come un’impronta, sul territorio che le ospita. Se, da una parte, è assolutamente evidente di quale potere siano emanazione, dall’altra esse si combinano con lo spazio presidiato secondo una formula di difficile decifrazione: esaurita la loro funzione di avamposto strategico tipica della guerra fredda, esse ora paiono delle stazioni di polizia inaccessibili per coloro che ne dovrebbero essere protetti, i quali non hanno diritto a conoscere gli scopi della loro presenza, non possono interferire con le attività che vi si svolgono, non hanno modo di condividerne le finalità. Sottratti alla giurisdizione locale, gli abitanti di queste basi godono di prerogative simili a quelle delle divinità, fino a poter uccidere senza timore di esser sottoposti ad alcuna punizione, come insegna la strage del Cermis. Il potere di vita e di morte di cui sono investiti è misterioso e imperscrutabile, come la funzione di sicurezza che dovrebbero assolvere. Ecco allora che questi “insediamenti magici” trasmutano lo spazio che li accoglie, cancellando i segni della comunità che vi si è insediata, gli attributi della sovranità che vi dovrebbe insistere, azzerando comunicazione, scambi, interlocuzione. Ogni qual volta si insedia una base militare si celebra un rituale di sparizione del potere: chi comanda a Okinawa o Aviano o nelle 850 terre di nessuno che formano la cartografia segreta dell’impero? Non i cittadini, non le istituzioni locali, non, formalmente, quelle che queste basi hanno costruito. Il potere, semplicemente, si emancipa dalla necessità di essere rappresentato, per farsi puro comando.

 

 

VI – L’ordine del caos

Molti anni fa, Michel Foucault colse con grande anticipo il nesso che lega caos, sicurezza e territorio[21]. Il suo ragionamento è condotto lungo la genealogia del potere disciplinare, introdotto in età moderna e via via assurto al rango di vera e propria scienza di governo, e approda alla nascita del concetto di sicurezza, divenuto operante, in seno alla macchina del potere, nella Francia del XVIII secolo. Tra potere disciplinare e sicurezza, ad avviso di Foucault, vi è uno scarto fondamentale: mentre il primo è costretto a una sorveglianza incessante e alla minaccia latente di una punizione, la seconda, individuate le condizioni nelle quali il fenomeno da reprimere si può manifestare, non le inibisce, tendendo anzi ad assecondarle, per poi governarne in un secondo tempo le conseguenze. E’ qui la grande rottura introdotta dal concetto di sicurezza: la gestione del disordine. “Dove la disciplina impone un ordine, la sicurezza permette di governare il disordine. Ma come? Non certo eliminandolo, e neppure riducendolo. Semplicemente spostandolo in là: controllando a distanza il caos che inevitabilmente si produce e gestendone poi in qualche modo gli esiti”.[22] Se io intervengo nel momento in cui un evento si manifesta e provoca disordine e lo disinnesco non trarrò alcun beneficio in termini di controllo del contesto sociale in cui esso si è manifestato. Se invece io pospongo all’infinito il momento della risoluzione del problema potrò gestire il caos – la paura, l’instabilità, l’emergenza- condizionando i comportamenti, le aspettative, il modo di vivere e di ragionare delle persone. Potrò controllare questo caos. In due parole: il controllo sta alla sicurezza come la punizione sta alla disciplina. Per “assicurare la sicurezza” potrò mettere in campo innumerevoli interventi disciplinari ma nessuno di questi dovrà essere risolutivo. Portata all’estremo, la strategia del controllo conduce alle punizioni preventive: ma queste non sono altro che un modo per comunicare implicitamente che il problema che genera il disordine non è affrontabile, visto che io vi intervengo prima che esso si manifesti e, dunque, prima che io possa effettivamente conoscerlo. Nel passaggio dalla disciplina alla sicurezza si consuma una nuova serie di sparizioni, a partire da quella del soggetto collettivo che possa fronteggiare il problema che genera disordine. Alla società, infatti, non è dato intervenire per la sua risoluzione, essendo demandata questa funzione alle istituzioni; ma a sparire è anche la figura da cui si origina il disordine – quella del “nemico”- che non ha più connotati precisi ma risponde a una serie di generici “attributi negativi”, presenta una serie di precondizioni che possono potenzialmente evolvere in pericoli veri e propri: uno paese che decide di produrre energia nucleare può decidere di costruire una bomba atomica e se ha la bomba atomica può decidere di usarla per primo e trasformarsi in un rogue state, così come un migrante può essere islamico, e un islamico può essere un fondamentalista e un fondamentalista un terrorista. A dissolversi, infine, è anche il soggetto cui spetterebbe “riportare l’ordine”: se il pericolo è globale –come il terrorismo- non è nel potere di un singolo stato approntare le misure per combatterlo e, d’altra parte, proprio perché globale, nessun potere sovranazionale può assicurare che esso non colpisca in un singolo stato. Per dirla con Beck, la minaccia del terrorismo provoca l'esplosione semantica del concetto di “guerra” insieme alla crisi del monopolio statale del potere e, nello stesso tempo, crea un’artefatta solidarietà globale fondata sul rischio.[23]

E a governare questa strategia dell’instabilità è proprio la filosofia del rischio. “I rischi hanno qualcosa d'irreale in sé: in un senso fondamentale essi sono reali e irreali. Da un lato molti pericoli e danni sono già reali oggi (...) Dall'altro, la forza sociale dei rischi sta nei pericoli proiettati nel futuro. (...) Il centro della coscienza del rischio sta non nel presente, ma nel futuro. Nella società del rischio, il passato perde potere nel determinare il presente. Il suo posto è preso dal futuro, da qualcosa quindi di non esistente, inventato, fittizio, come “causa” dell'azione ed esperienza corrente”.[24]

Per questa via, le nostre stesse metropoli diventano terre di nessuno: spazi monitorati 24 ore al giorno, sorta di cyberpanopticon in cui norme, procedure, sanzioni  irreggimentano le vite in attesa della catastrofe, le gravano del peso di minacce “impalpabili, invisibili, non contabilizzabili”, le  spingono verso la passività e la docile rassegnazione:  “La forza trainante nella società di classe può essere sintetizzata nella frase: ‘Io sono arrabbiato’. Il movimento innescato dalla società del rischio è invece espresso dall'affermazione: ‘Sono spaventato’”. Alla società viene fatto vivere il momento del disastro prima che esso accada, al di là che esso si verifichi, secondo le consolidate regole dello spettacolo. A questo, per esempio, servono le cosiddette esercitazioni antiterrorismo, nel corso delle quali le comparse che simulano le vittime vengono sfigurate con sapienti trucchi di scena, in modo che coloro che assistono possano specchiarsi in quello che potrebbe loro accadere, ovunque, in qualsiasi momento. Hic sunt leones. “Qui sono i leoni”, così recitava la frase latina che compariva nelle carte geografiche medievali, per qualificare l’area a sud della costa nord africana (Sahara e oltre), ancora inesplorata dal mondo occidentale e perciò ricca di terribili incognite. Nelle terre di nessuno delle metropoli i leoni scorazzano tra i nostri incubi.

 

VII –Terre di nessuno

 

“Ogni volta che sento i politici parlare delle meraviglie della ‘stabilità’, mi vengono i brividi” ha scritto Michael Ledeen, teorico neocon dell’ American Enterprise Institute (Aei) all’inizio del 2002. “Questa è roba per europei vecchi e stanchi, o per asiatici nervosi, non per noi.” Nelle parole di Ledeen, pronunciate ancora prima dell’invasione irachena, riposa il cuore della strategia della guerra preventiva, il cui fine, giova ribadirlo ancora una volta, non è la normalizzazione ma il suo opposto. Obiettivo che riecheggia anche in slogan come quello della “instabilità costruttiva”, coniato da Nathan Sharansky[25] o nelle parole di Norman Phodoretz, quando afferma che  “La santità della sovranità nazionale si è sempre accompagnata all'idea che la politica estera debba garantire soprattutto stabilità e noi crediamo che anche questa convinzione debba essere sfidata. Proprio come fa Bush”[26]. Cosa ci dicono, insomma, i nuovi teorici dell’impero? Che i vantaggi di una normalizzazione delle aree di crisi non sono paragonabili con quelli, tutti politici, che scaturirebbero dalla disarticolazione dell’unità araba o dall’affossamento dei tentativi di emancipazione dal giogo multinazionale di parecchi paesi latinoamericani. Se, dunque, dopo la prima fase della guerra globale permanente, l’Iraq è un cumulo di macerie da cui può scatenarsi una vera e propria carneficina interetnica, se l’Afghanistan continua a essere governato dai signori della guerra –molti dei quali riciclatisi nel governo fantoccio eletto in questi giorni- e, in molte zone, dagli stessi talebani, beh, questo è il prezzo da pagare per costruire un nuovo ordine mondiale, lo stesso prezzo che si è pronti a pagare con i progetti di invasione di Iran e Siria o di Venezuela e Cuba. L’intervento militare renderebbe questi paesi per lungo tempo terre di nessuno, condizione potenzialmente ideale per “trapiantarvi la democrazia” e, con essa, avviare la privatizzazione su larga scala delle loro risorse. Con questo scenario abbiamo a che fare. Questo significa “guerra ordinativa”. Certo, non mancano i segnali di resistenza da parte dei paesi nel mirino dell’impero e i costi umani e materiali della dottrina Bush sono andati molto al di là delle previsioni degli strateghi del Pentagono. Ma ciò non toglie che la nuova dimensione del conflitto si giocherà sull’orlo della catastrofe, che alla guerra esterna si coniugherà, sempre più marcatamente, quella scatenata sul fronte interno, nel cuore stesso delle metropoli capitalistiche, contro tutti quei soggetti che mostrano irriducibilità alle politiche neoliberiste e alle strategie di repressione sociale. Occorrerà, in altri termini, mobilitare tutte le energie collettive, tutta l’intelligenza e la determinazione di cui siamo capaci per giocare la sfida a un livello adeguato e riempire di senso parole come pace e resistenza.

 

Mauro Bulgarelli,  deputato dei Verdi  -  relazione Incontro 24 settembre


[1] Serge Latouche, Il pianeta dei naufraghi, Boringhieri, Milano 1993

[2] Alan Joxe, L’impero del caos. Guerra e pace nel nuovo ordine mondiale, Sansoni, Milano 2003.

[3] Walter Benjamin, Angelus novus, Einaudi, Torino 1962.

[4] Si veda David Lyon, Massima Sicurezza, Cortina Editore, Milano 2004

[5] Organo del Council on Foreign Relations

[6] C. Krauthammer, The Unipolar Moment, in “Foreign Affairs”, New York 1990.

[7] Si veda Corey Robin, America versus America. I neocon contro il libero mercato, in “Micromega”.

[8] Nel 1900 erano state annesse le Hawaii, divenute il 49° stato dell’Unione nel 1959 e precedute nel 1958 dall’Alaska. Gli Stati uniti, tuttavia, avevano acquistato quest'immenso territorio dalla Russia già nel 1867, una scelta allora da molti criticata per la supposta "inutilità" della regione. L'Alaska, invece, si rivelò presto una vera e propria miniera d'oro: la scoperta del prezioso metallo nel 1880 e nel 1898 generó ben un miliardo di dollari.

[9] Nel discorso al Congresso del 1823, il presidente Monroe fissò le regole basilari della politica estera degli Usa, incardinate sul principio che i “liberi e indipendenti continenti americani non possono più essere considerati come soggetti di una futura colonizzazione da parte delle potenze europee”. Formalmente gli Stati uniti si impegnavano ad astenersi da qualsiasi intromissione negli affari delle potenze europee, ma avrebbero considerato un atto ostile nei propri confronti qualsiasi intervento europeo in America.

[10] Il Nord Dakota, il Montana e l’Idaho erano abitati dai Sioux, il Wyoming dai Shoshoni e dagli Bannock, lo Utah dagli Ute e dai Paiute (presenti anche nel Nevada), l’Okhlaoma dagli Arrapaho (insediati anche nell’Est Wyoming), il New Mexico e l’Arizona dagli Apache, Hopi e Navajo.

[11] W.A. McDougall, Promised Land, Crusader State:The American Encounter with the World Since 1776, New York, Houghton Mifflin, 1997.

[12] Nella tradizione politica americana sono definiti jeffersoniani coloro che sostengono che l'America non debba preoccuparsi di diffondere la democrazia all'estero senza salvaguardarla in patria.

[13] I jacksoniani hanno, invece, come principale obiettivo la tutela della sicurezza e del benessere economico dei cittadini americani, sia a livello interno che internazionale.

[14] Charles William Maynes, Two blasts against unilateralism, in Understanding Unilateralism in US foreign Policy, Riia, Londra 2000, pag. 30-48.

[15] Raymond Aron, République impériale. Les États-Unis dans le monde, 1945-1972, Calmann-Lévy, Paris 1973.

[16] Manuel Miles, The Usa Is Not an Empire, in http:// strike-the-root.com; si veda anche Chalmers Johnson, Le lacrime dell’impero, Garzanti, Milano 2005.

[17] Clyde Prestowitz, Stato canaglia. La follia dell’unilateralismo americano, Fazi Editore, Roma 2003, pag. 39.

[18] Chalmers Johnson, op. cit.

[19] Si veda il Base Structure Report diffuso dal Dipartimento della Difesa  Usa per l’anno 2004.

[20] Samuel Huntington, Lo scontro delle civiltà, Garzanti, Milano 2001.

[21] Si veda Michel Foucault, Sècurité, territoire, population. Cours au Collège de France 1977-1978, Gallimard, Paris 2004.

[22] Si veda Federico Rahola, La parte delle vittime, in “Conflitti globali”, n.1

[23] Si veda Ulrich Beck, Un mondo a rischio, Einaudi, Torino 2003.

[24] Si veda Ulrich Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci 2000

[25] Nathan Sharansky, The Case for Democracy. The Power of Freedom to Overcome Tyranny & Terror, Public Affairs, New York, 2004.

[26] In “La stampa”, 25.03.2005