Gli imprenditori dell'intolleranza


Nervi saldi, innanzitutto. Nonostante l’efferato omicidio di Verona possa suggerire cattivissimi
pensieri (ma altri ne hanno parlato e ne parleranno su queste colonne), in Italia, e nemmeno a Roma,
non sta per instaurarsi un regime razzistico, un sistema di aparthaid, una organizzazione
istituzionale e sociale finalizzata alla discriminazione e alla espulsione degli stranieri. L’Italia non
sta per diventare “razzista” per il solo fatto che il centrodestra, con una forte impronta leghista,
abbia vinto le elezioni politiche e il nuovo Sindaco di Roma, Gianni Alemanno, abbia carezzato e
blandito umori xenofobi, fino ad ottenere i voti della Destra di Francesco Storace e della Fiamma
Tricolore. L’Italia non è un Paese razzista e non lo diventerà, per il fatto che, tra i suoi governanti e i
suoi amministratori, qualcuno schiettamente nemico degli stranieri pure si ritrovi facilmente. Nella
società italiana ci sono, e ormai da venticinque anni, zone (gruppi organizzati, sentimenti robusti,
subculture diffuse, fobie radicate e ansie collettive...) dove la diffidenza e l’ostilità verso lo straniero
può portare ad atteggiamenti e azioni di tipo discriminatorio e, talvolta, apertamente razzistico. E
tuttavia, ancora forte sembra essere un orientamento di accoglienza e inclusione, grazie al peso
residuale, ma tuttora resistente, dei sistemi di valori di origine religiosa o di ispirazione
genericamente progressista. Tutto ciò è destinato a durare o, in tempi non prevedibili, a
soccombere?
Se è vero, come si è detto, che non sta per instaurarsi in Italia un regime razzista, è vero anche che
due fattori particolarmente significativi si sono evidenziati nel corso dell’ultima fase. Il primo: la
legge Bossi-Fini e il suo possibile irrigidimento e, soprattutto, le delibere assunte (o che verranno
assunte) a livello locale possono arrivare a condizionare in profondità il quadro normativo e il
sistema di leggi e regole, disposizioni e regolamenti che amministrano, nei fatti, la presenza degli
stranieri sul territorio nazionale, producendo effetti materiali significativi sulla loro concreta vita
sociale e sui loro rapporti quotidiani: limitandone i movimenti, riducendone le opportunità,
intimidendone l’attività di relazione, di espressione e di comunicazione. Insomma, condizionandone
la vita. Basta poco, per farlo: ad esempio, inasprendo i controlli (anche e soprattutto quelli inutili)
ed esercitando pressioni, interferenze, forme di autoritarismo burocratico sulla concessione e
rinnovo dei permessi, sulle pratiche amministrative, sulle procedure di inserimento nel sistema dei
diritti di cittadinanza.
Il secondo fattore che potrebbe giocare un ruolo particolarmente negativo è quello rappresentato
dall’azione di “imprenditori politici dell’intolleranza”. Sotto quest’ultimo profilo, l’Italia è stato un
Paese relativamente fortunato: a differenza di pressoché tutte le nazioni europee, in Italia non ha
operato un partito concentrato interamente (o almeno prevalentemente) sulla questione
dell’immigrazione. Per quanto possa sembrare strano, anche la Lega non ha assunto questo ruolo
fino in fondo, privilegiando piuttosto il tema del federalismo.
Ora non è più così. La Lega, nel corso della più recente campagna elettorale nazionale, e Gianni
Alemanno, nel corso della campagna elettorale a Roma, si sono fatti appunto “imprenditori politici
dell’intolleranza”. Ovvero hanno accolto, tradotto in messaggio elettorale, trasferito sul piano
politico, organizzato come mobilitazione collettiva, agitato come risorsa e indirizzato contro
l’avversario il sentimento di insicurezza dei cittadini.
Attenzione: va da sé che tale sentimento non è il prodotto della Lega o di Alleanza nazionale; esso
è, invece, una manifestazione propria delle società incerte e delle identità nazionali in crisi. Quella
manifestazione si annida nel cuore più profondo della collettività e, spesso, nelle sue aree più
precarie e inquiete, meno dotate di risorse materiali, culturali e simboliche.
Il sentimento di insicurezza può essere ascoltato, accolto, razionalizzato e può dare luogo (deve dare
luogo) a politiche pubbliche capaci di intaccarne le radici, distinguendo rigorosamente tra quelle
reali e quelle “inventate”, e aggredirne le cause. Oppure può essere piegato a scopi piccini e, in
primo luogo, agli obiettivi di una guerra tra poveri dalla quale si intende lucrare una remunerazione
politica. Si pensi all’ultimo episodio di cronaca gettato come una bomba a tempo alla vigilia del
voto romano: un rumeno irregolare accusato dell’ennesimo atto di violenza sessuale. Secondo le
cronache dei telegiornali locali di sabato 26 aprile, il medesimo episodio può essere raccontato in
altro modo: uno straniero senza fissa dimora, che aveva il suo giaciglio sotto un ponte della linea
ferroviaria, trascorre il pomeriggio con una donna bosniaca e, «dopo aver bevuto vodka nella
baracca di lei», le usa violenza. Dunque, una storia tragica e tragicamente ordinaria che si verifica
mentre, nelle stesse ore, in una altra parte d’Italia un nostro concittadino abusa di una donna
moldava. Si tratta, palesemente, di vicende drammatiche, che fanno parte della sofferenza umana e
dell’ignominia umana, che non sono indipendenti dalla questione dell’immigrazione ma, allo stesso
tempo, non ne sono la conseguenza e, tantomeno, sono riducibili a essa. Eppure, a nulla - proprio a
nulla - vale ricordare che oltre l’80% degli stupri avviene in famiglia e per opera di familiari e amici
(rigorosamente italiani nella stragrande maggioranza dei casi). Una volta che il corto circuito tra
figura dello straniero e abuso sessuale si è realizzato, tutto il confronto politico tra le diverse
strategie di prevenzione e repressione degli abusi sessuali viene giocato sul piano dell’immaginario.
Ovvero nella dimensione emotiva della paura e del capro espiatorio, dello stereotipo e
dell’esorcismo, dell’ansia collettiva e delle sue proiezioni. Sul piano politico, ma anche culturale, la
situazione regge se i diversi attori (i partiti, i media, le agenzie che orientano il senso comune)
tengono fede a un patto di “civiltà pubblica”, che prevede vincoli e interdizioni linguistiche, forme
di autocontrollo e di autolimitazione. Per capirci: se lo stupro non è associabile, nemmeno in misura
prevalente, ad una specifica nazionalità, l’equazione «rumeno = stupratore» va bandita dal discorso
pubblico. Ma se e quando quel patto di civiltà viene rotto unilateralmente, è difficile sottrarsi al
rischio di una mobilitazione xenofoba.
La Lega Nord e Gianni Alemanno, con il silenzio complice del Popolo delle Libertà, quel patto
l’hanno infranto. Le conseguenze potrebbero essere negative per l’intera collettività nazionale. Si
pensi solo a cosa potrebbe comportare per il sistema delle imprese del nord non dico l’espulsione,
ma anche solo la riduzione dei flussi di manodopera immigrata (compresa quella irregolare); e, su
un piano diverso, si considerino le modalità, e i tempi, necessari a dar seguito all’impegno elettorale
solennemente, e improvvidamente, preso dal nuovo sindaco di Roma: «chiudere gli 85 campi
nomadi». Hai detto un prospero. Siamo ancora lì: la destra continua a gingillarsi con le utopie
negative di una organizzazione sociale tendenzialmente autoritaria, incapace di misurarsi innanzitutto
intellettualmente - con le fatiche e i dolori delle metropoli contemporanee. Alemanno si
renderà conto, assai presto, che è più facile evocare indecentemente il presunto “buonismo” degli
avversari nei salotti televisivi (e nei salotti tout court) che mettere ordine nel disordine della
globalizzazione.
 
Luigi Manconi       l'Unità    9 maggio 2008