Gli eroi non vivono in branco

Chi ha guardato il telegiornale di Rai Uno, il 29 gennaio, avrà visto lo strano filmato, girato a notte
fonda in una strada di Fiumicino: alcuni ragazzi affiggono ai muri due striscioni azzurri, su cui è
professata, a enormi caratteri, la loro inalterabile amicizia per Davide. Sono incolleriti,
ostentatamente militanti e al tempo stesso chiusi, impermeabili alla parola che viene da fuori.
Davide Franceschini è il ragazzo che a Capodanno stuprò una ragazza alla Fiera di Roma, che
confessò, e presto fu assegnato agli arresti domiciliari. I suoi compagni fanno quadrato intorno a lui
in maniera singolare: proclamano la sua completa innocenza, difendono un’impunità sconnessa non
solo dai fatti ma da quel che l’amico stesso ha confessato. La giornalista del tg - Laura Mambelli - è
sgomenta, più volte chiede perché, con insistente candore. I giornalisti di cronaca sono grandi, in
questo: la verità la cercano con un accanimento ignoto a chi, mai sgomentandosi, ci dà senza esser
pregato i nostri panini politici quotidiani.
I ragazzi chiedono alla giornalista di allontanarsi e di non scocciare, con la sua curiosità invadente.
Quel che le dicono è chiaro: noi siamo il branco, tu sei l’intrusa. Sugli striscioni è scritto: «Più
verità meno bugie, Davide ti vogliamo bene» - «Chi parla male di te è perché non ti conosce» -
«Davide: non importa ciò che dice la gente. Sei innocente. Gli amici e le amiche».
La cronista osserva che la loro ira è illogica: chi affigge simili striscioni vuol comunicare al mondo
una contraddizione (il reo confesso o il condannato sono innocenti) e la contraddizione deve saperla
spiegare. Ma per definizione il branco manifesta passioni, non spiega: la tribù è una camera senza
finestre. La muta non riconosce che una realtà: la propria. Il suo circuito è sempre corto; il resto è
soffio che passa.
La festa alla Fiera di Roma s’intitolava: «Amore».

Forse ci vorrebbero giornalisti di questo tipo, candidi e logici, per dire l’Italia che viviamo: un paese
che somiglia in maniera impressionante al filmato notturno di Fiumicino. Non una società, ma un
accrocco di branchi: ognuno con proprie leggi non condivisibili, ognuno ostile all’insieme che è la
nazione.
Non è la guerra di tutti contro tutti, ma di sparse tribù contro la realtà comune. Il branco
agisce secondo norme che non valgono per tutti: norme esoteriche, di affiliati e complici più che di
amici. Nessuna legge le è più estranea che quella kantiana secondo cui bisogna «agire in modo che
la massima della tua azione (soggettiva) possa diventare legge universale», oggettiva.
Quel che unisce gli affiliati del clan alla nazione e alla società è il nulla, è la realtà negata e abolita.
Quando si parla loro di bene comune, di vincoli e legge, di senso dello Stato, rivendicano l’impunità
dovuta o all’amicizia del gruppo o all’efficienza tecnica. La fedeltà di gruppo sovrasta la verità, e
infrangere i vincoli ha qualcosa di eroico.
Commentando sul Tg1 gli striscioni di Fiumicino un
poeta - Davide Rondoni - afferma commosso che lo «spettacolo dell’amicizia ci deve fare pensare»:
un’amicizia così grande «fa tenerezza, ci fa venire un po’ il magone, perché è cosa giusta essere
amici anche quando si sbaglia». Il poeta fa qualche riserva («l’amicizia deve servire anche prima,
per correggere») ma pare stregato da questa passione che tanto ci somiglia, e che tutela il crimine
ignorando la vittima. Quest’ultima ha detto che avendo Franceschini ottenuto gli arresti domiciliari,
la giustizia se la farà da sola. Suo padre ha aggiunto, accennando allo stupratore: «Lui tutte le sere
quando va a dormire deve pensare domani che cosa mi può succedere, tutte le sere per tutta la vita,
si può sposare, avere dei figli, tanto io lo aspetto non c’è problema». Vivere nel branco, con il nulla
fuori di esso, produce questo: altri branchi.

Il branco è un fenomeno antico ma ci sono epoche in cui s’accentua perché nelle classi dirigenti
manca l’essenziale: la custodia esemplare del bene comune, la dimostrazione che un’altra via è
praticata, proposta a modello. Anche per esse vale invece la legge dell’impunità, l’esaltazione di
amicizie che assolvono crimini o irresponsabilità in nome della propria corporazione. Il criminale,
quando difende il gruppo col silenzio, è addirittura celebrato come eroe. Il Pdl di Fiumicino ha
denunciato giustamente gli striscioni e la «celebrazione ignobile del branco», ma l’idea che in quel
partito ci si fa dell’eroe resta quantomeno torbida. Un eroe è ad esempio il mafioso Vittorio
Mangano, stalliere di Arcore che secondo Dell’Utri e Berlusconi «ha taciuto nonostante le pressioni
dei pm». E di che parlano politici come Bocchino e Lusetti se non di branco amicistico, quando
concordano favoritismi con il costruttore Romeo? Le intercettazione indispongono perché rivelano
queste parentele, tra branchi minuscoli e maiuscoli: «Quindi ormai siamo una cosa, una cosa
consolidata, un sodalizio, una fusione di due gruppi», si compiace Bocchino al telefono con Romeo.
L’amicizia non è meno corrotta quando ai più alti livelli vien chiamata stabile comunanza,
contiguità, cosa.

 

Chi ha assistito alla manifestazione dei familiari delle vittime di mafia, il 28 gennaio a Piazza
Farnese, avrà ascoltato - magari su Internet - il discorso di Salvatore Borsellino: è stato
probabilmente il culmine della dimostrazione, da tanti trascurato. Cruciale è quello che ha detto su
circostanze e responsabilità dell’uccisione del fratello, nel ‘92 a Palermo. Cruciale è l’elenco che ha
fatto dei veri eroi italiani: Falcone, Borsellino e i suoi cinque agenti di scorta tra cui Emanuela Loi
che dalla bomba venne ridotta a pezzetti: raccolti in una bara, i genitori li ricevettero a Cagliari
insieme alla domanda, fatta dallo Stato, di pagare il trasporto dei resti.
Vivere nel branco è come vivere in una bolla, che falsifica il valore delle cose. La bolla può esser
finanziaria, perché anche chi specula o chi è preso da panico è in un gregge. E può esser politica e
civile, quando per proteggere i «tuoi» fai male agli altri.
Anche l’evasione fiscale è agire dentro una
muta, indifferente alla società e alle sue norme. Chi se ne importa se a coprire i costi saranno tutti
coloro che rispettano la legge pagando due volte: le proprie tasse e la sovrattassa versata per
l’evasore. Anche qui sono i dirigenti politici che puniscono i probi e premiano i trasgressori,
giustificandoli perfino moralmente. In un importante libro, Dino Pesole e Francesco Piu scrivono
che premiato pubblicamente dovrebbe invece essere «il contribuente totale: persona fisica o
impresa, professionista, artigiano o commerciante, dipendente o pensionato che con assoluta
certezza adempie a tutti i suoi doveri fiscali e contributivi, e che per questo può vantare un assoluto
livello di trasparenza nei suoi comportamenti e obblighi nei confronti del fisco». Questo è il vero
«azionista del risanamento» italiano. Questa la «nuova figura, cui attribuire un visibile
riconoscimento civico e sociale» (Il patto. Cittadini e Stato: dal conflitto a una nuova civiltà fiscale,
Il Sole24Ore, 2009).
Le nuove figure ci sono. Sono i contribuenti totali che approvano la solidarietà sociale e dunque i
suoi costi. È Peppino Englaro, che invece di rifugiarsi in una clinica straniera per rispettare il volere
della figlia decide di battersi molto più faticosamente in Italia, attraverso la sua giustizia. Sono i
magistrati che lottano contro mafie, clan. Sono i cronisti giudiziari e di nera che fanno domande
accanite, candide e logiche.
Eroi simili non sono protetti da tribù
. Sono soli, come li descrive
Roberto Bolaño nel romanzo 2666: «Perché ogni virtù, salvo nella brevità del riconoscimento, è
priva di splendore e vive in una caverna buia circondata da altri abitanti, alcuni dei quali molto
pericolosi».

Barbara Spinelli     La Stampa 1° febbraio 2009