Gli ebrei ieri, i rom oggi
70 anni fa le leggi discriminatorie del regime fascista, oggi il «censimento» degli zingari del governo Berlusconi. Perché gli italiani si riscoprono razzisti.
Un incidente di percorso, uno scherzo del destino. Al più,
un'incauta concessione all'alleato tedesco. Questo sono tuttora le leggi
razziste promulgate settant'anni fa dallo Stato italiano nella imperturbabile
coscienza di noi italiani, per natura «brava gente». Dovrebbero venire qui da
tutto il mondo a studiare questo caso di riuscitissima autoassoluzione generale.
Questo miracolo di rimozione collettiva. Nulla appare più infondato della tesi
che afferma l'estraneità del razzismo alla storia nazionale. È vero il
contrario. Le leggi antiebraiche volute da Mussolini rientrano a pieno titolo
nella storia patria, al pari del fascismo, variante italica della «rivoluzione
conservatrice». Il regime le promulgò, nel tripudio di folle acclamanti, poco
dopo aver divulgato il Manifesto della razza e all'indomani di un «censimento»
degli ebrei propedeutico alla persecuzione. Giustamente la storiografia si
chiede perché proprio allora, e si divide. Ma è bene chiarire che il razzismo
(non solo antisemita) è consustanziale al fascismo, è una sua espressione
spontanea e necessaria.
Dominio e gerarchia; esclusione dell'«altro» e subordinazione degli «inferiori»:
sono queste le basi ideologiche del fascismo. Il che, tradotto in pratica,
significa: nazionalismo aggressivo e imperialismo verso l'esterno; eugenetica,
mixofobia e maschilismo all'interno. Del resto, le leggi del '38 non furono le
prime norme razziste del regime. Due anni prima erano stati varati i regolamenti
contro la naturalizzazione dei «meticci»; nel '37, le leggi contro il «madamato».
Ma già negli anni Venti il regime compie un giro di vite contro «devianza» e
marginalità, percepite come eversive e distoniche rispetto alla
nazionalizzazione delle masse.
A sua volta il razzismo fascista non nasce dal nulla. In tutta Europa il
razzismo è un corollario della modernizzazione. Patologico ma non accidentale.
Regressivo ma non residuale. La stilizzazione della delinquenza e dell'alterità
(follia, alcolismo, prostituzione, brigantaggio, accattonaggio, nomadismo,
omosessualità) è cruciale nella costruzione delle tradizioni. Da questo punto di
vista lo straniero, il diverso, l'ebreo, il negro, lo zingaro - e, da noi, il
meridionale - sono eroi della modernità. Lo sono anche le donne, nella misura in
cui il maschio ariano è il paradigma della perfezione, rispetto al quale ogni
condizione è definita per carenza.
Non c'è normalità senza «devianza» (che il nazismo chiama «asocialità»). E tutte
le figure razzizzate sono parti di uno stesso insieme, come intuì il Bassani de
Gli occhiali d'oro, dove il vecchio Fadigati, medico «pederasta», rivela al
giovane «israelita» che la loro situazione è in fondo la medesima: in quanto
«diversi» sono entrambi segmenti del confine, in pari misura utili alla
definizione della norma, quindi uguali nella comune alterità. Per questo la
modernizzazione alimenta l'antisemitismo. L'ebreo è l'«altro» per antonomasia:
quando si assimila perché si infiltra; quando preserva le proprie tradizioni
perché rompe l'omogeneità del corpo collettivo. L'Italia non fa eccezione in
tutto questo. Anzi, è un contesto ideale, grazie alla robusta eredità
dell'antigiudaismo medievale, che risuona nelle crociate antisemite della
Civiltà cattolica e di padre Gemelli. Non stupisce quindi lo zelo persecutorio
della burocrazia alle prese con le leggi del '38. Né l'assenza di manifestazioni
di dissenso da parte della nostra «brava gente». Tutt'altro. Si capisce bene la
caccia ai ruoli lasciati dagli ebrei nelle istituzioni, a cominciare
dall'Università. Dove tanti «insigni studiosi» si distinsero in una gara che
illustrò l'accademia italiana. L'offensiva razzista del fascismo coinvolse anche
gli «zingari», «eterni randagi privi di senso morale» frutto di «mutazioni
regressive». Si invocarono misure che in Germania avrebbero condotto allo
sterminio di mezzo milione di Zigeuner. Finché nel settembre del '40 il capo
della polizia Bocchini ne dispose la deportazione nei campi di concentramento di
Teramo, Campobasso e Perdasdefogu.
Veniamo a noi. Se tenessimo presente questo quadro rinunciando alla favola della
nostra refrattarietà al razzismo, avremmo qualche strumento in più per capire
quanto avviene ai nostri giorni e, forse, per correre ai ripari. Il nostro
disorientamento nasce dalla rimozione, che a sua volta innesca un contrappasso:
il passato persiste tanto più tenace (e genera coazioni a ripetere) a misura
della sua mancata elaborazione. Pesa, sullo sfondo, l'incompiuta
defascistizzazione, la scelta di non fare una nostra Norimberga e di tenere ben
sigillati gli «armadi della vergogna». Per cui l'omaggio alle vittime della
Shoah dev'essere prontamente compensato da un «ricordo» delle foibe costruito
sulla negazione delle atrocità commesse dai fascisti sul confine orientale e in
Jugoslavia. Ha indubbiamente ragione il presidente della Camera quando sostiene
che la sua elezione sancisce la «piena legittimazione della cultura della
destra». Ma ha ragione anche Moni Ovadia nell'osservare che se l'attivismo
razzista di Maroni fosse espresso da un ministro tedesco, in Germania si
scatenerebbe un putiferio.
Del resto, se oggi scopriamo il razzismo dello Stato sui polpastrelli dei
bambini rom, dovremmo anche chiederci quanto razzismo c'è nella pretesa che le
nostre siano guerre giuste e «umanitarie». Noi, l'Occidente, contro i non
civilizzati: barbari tagliatori di teste, selvaggi che «infestano» il pianeta,
animali. Ma forse siamo a un salto di qualità. Sul versante dei destinatari,
in primo luogo. Schediamo i rom coinvolgendone il corpo affinché si scolpisca
nell'immaginario collettivo che la «difesa della società» non sente ragioni, non
riconosce diritti. Ma gli «zingari» incarnano il nomadismo metropolitano, sono
una potente metafora della precarietà e dello sradicamento. Se negli Stati Uniti
le baraccopoli ospitano nuovi poveri travolti dai subprime, la campana suona per
tutti.
Siamo a un passaggio di fase nelle pratiche istituzionali. Non ci si lasci
ingannare dalla faccia «banale» del ministro. Le schede del «censimento» etnico
sono un buon test sulla maturità del processo. Ci riportano dalle parti di Vichy
per misurare il tasso di pubblico gradimento. Difatti il salto è soprattutto nel
contesto sociale. Vent'anni di campagne razziste, complice un'informazione
forcaiola, hanno spianato il terreno. L'insicurezza e la paura l'hanno ben
concimato. Oggi l'ethos collettivo è un calibrato mix di egoismo, indifferenza e
intolleranza. I sondaggi confortano: il 70% degli italiani approva le misure;
oltre il 60% ne esclude la connotazione razzista. È un sentimento liberatorio
quello che i numeri attestano. Finalmente si può dire chiaro e forte quanto ieri
si sussurrava tra amici, con qualche vergogna. Ma il prezzo di questa libertà
è un nuovo carico di oblio. Il ritorno alla persecuzione degli zingari non
segnala soltanto che siamo fuori dal cono d'ombra del secondo conflitto
mondiale, sgravati dalla sua ingombrante eredità. Dice che abbiamo cancellato
anche il ricordo della nostra emigrazione e delle umiliazioni inflitte ai nostri
padri, macaroni e dago. Non abbiamo più le pezze al culo, siamo sommersi da suv
e cellulari. Siamo pieni di paure, ma ricchi e perciò liberi. Pronti a goderci,
dopo 70 anni, nuovi entusiasmanti riti sacrificali.
Alberto Burgio Il manifesto 12/07/08