Giuliano Pisapia. Bastano i «futili motivi» per chiedere il
massimo della pena, l’ergastolo
«Si sta diffondendo la voglia di farsi giustizia da sé»
«È passata l’idea che il cittadino possa farsi giustizia da sè, che possa
aggredire la vita delle persone per reagire ad un semplice danno patrimoniale. È
questa l’aberrazione. È questa l’enorme responsabilità politica che grava sulle
spalle del centrodestra».
L’avvocato Giuliano Pisapia parte dallo stretto dato giuridico, commenta
l’omicidio del giovane Abdul Guiebrè con l’occhio tecnico del penalista. Ma
l’analisi si conclude con un drammatico allarme sociale e politico.
L’odio razziale non è stato contestato ai due aggressori. Che cosa ne pensa?
«Dal punto di vista giuridico condivido la scelta della procura di Milano:
l’aggravante ha una disciplina ben precisa e prevede che il reato sia commesso
con finalità di discriminazione. In questo caso la discriminazione razziale non
è stata lo scopo della condotta criminale, semmai la condotta criminale ne è
stata una conseguenza».
Quali differenze comporta questa scelta dal punto di vista processuale?
«È stata contestata l’aggravante dei futili motivi, quindi ci sono i presupposti
per la pena massima, ovvero l’ergastolo. Di fronte ad un fatto così terribile,
segno purtroppo dell’involuzione dei rapporti sociali nelle città italiane, è
importante che si giunga in tempi brevi ad una pena adeguata alla gravità del
reato. È l’unico deterrente di cui disponiamo per evitare che episodi simili si
ripetano».
Come si è giunti a questo clima di odio e di intolleranza?
«L’aspetto più allarmante di questa vicenda non sta nel colore della pelle della
vittima, ma nel fatto che sia stata uccisa per un pacco di biscotti: si è
diffusa l’idea che i cittadini possano farsi giustizia da sè senza alcuna
proporzione tra l’offesa ricevuta e la reazione».
Si riferisce a qualche provvedimento particolare?
«Sì, a quell’aberrazione giuridica e culturale costituita dalle recenti norme
sulla “legittima” difesa, che hanno attecchito nel terreno di generale sfiducia
verso l’operato della giustizia istituzionale. Da tempo è passata l’idea che
il cittadino possa provvedere da solo a farsi giustizia, anche mettendo a
rischio la vita delle persone per rispondere a un danno patrimoniale, spesso di
lieve entità come nel caso dell’uccisione di Abdul Guibrè».
Si uccide per salvare i soldi in cassa. Purtroppo, non è la prima che succede
a Milano e nelle altre città italiane.
«Da questo punto di vista esistono responsabilità politiche enormi del
centrodestra. Si sono strumentalizzati problemi reali per finalità che nulla
hanno a che vedere con la garanzia dei cittadini alla giustizia e alla
sicurezza. I provvedimenti adottati per creare consenso intorno
all’emergenza si sono sempre rivelati fallimentari».
In effetti, c’è solo l’imbarazzo della scelta.
«Negli ultimi dieci anni hanno visto la luce cinque cosiddetti pacchetti
sicurezza, che io mi ricordi, ma nessuno di essi ha mai sortito il benchè minimo
risultato concreto».
Perché?
«È inutile minacciare la faccia feroce quando si è incapaci di accertare e
punire le responsabilità. Il 90% dei reati di strada, quelli che più alimentano
la percezione d’insicurezza della gente come gli scippi violenti, rimane senza
un colpevole. E nel restante 10% dei casi spesso non si arriva nemmeno al
processo. Così si è creato un generale senso d’impunità che ha aperto la via
alla giustizia del singolo. Se davvero vogliamo garantire sicurezza e giustizia,
dobbiamo decisamente cambiare strada».
In quale modo?
«Non serve a nulla inasprire le pene e minacciare più carcere, scuola di crimini
e criminalità. Bisogna investire in pene certe ed effettivamente eseguite, ma
con sanzioni diverse. Chi ha scontato la propria pena in carcere entro cinque
anni torna a delinquere nel 68% dei casi, ma questa percentuale scende sotto il
18% nel caso di pene diverse da quella detentiva. È un dato oggettivo e
ampiamente verificato».
Luigina Venturelli l’Unità 17.9.08