IL GESU' DEGLI ESCLUSI, RINNEGATO DAL VATICANO

 Chiesa di Roma.      A 27 anni dalla morte di monsignor Romero, la Chiesa di Ratzinger è costretta a guardare negli occhi il più orribile dei suoi successi: la spietata bonifica intellettuale contro il clero e i teologi "della Liberazione", ottenuta liquidando i tormenti dottrinari e l'indubbio coraggio teologico e personale di numerosi aderenti come "velenose tendenze filomarxiste"

 

Era il 24 marzo del 1980, esattamente 27 anni fa. Monsignor Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador, paladino dei diritti dei contadini poveri e schiavizzati (i ‘'Campesinos'') e fautore di una Chiesa vicina ai ceti più disagiati, stava celebrando la messa quando venne freddato, sull'altare, dagli Squadroni della Morte, armati ideologicamente (e anche economicamente) dai grandi latifondisti e dall'esercito.

Con Romero, lasciato tragicamente solo dall'indifferenza della Curia romana, moriva definitivamente un sogno nato dalle grandi speranze del Concilio: la Chiesa dei poveri (su cui addirittura si pensò di fare uno schema conciliare, il XIV, presto abortito), una Chiesa "serva dei servi" il cui impoverimento fisico doveva corrispondere allo splendere del suo messaggio morale e sociale, libero dalle pastoie del potere e della ricchezza. Un movimento che era nato a poco a poco, mentre la maggioranza dei cattolici nel mondo, come in un gigantesco ribaltamento storico, abitava ormai le aree del grande Sud del pianeta. Sembrava vicina a realizzarsi la profezia di Rosmini, secondo cui era "scoccata l'ora in cui l'impoverire la Chiesa è un salvarla".

Invece il sangue di Romero suggellò la sconfitta per i sacerdoti missionari del Sudamerica e dell'Africa, per i vescovi coraggiosi e i teologi che misero nero su bianco una "teologia della croce", vicina al messaggio originario del Vangelo e pericolosamente critica verso uno status quo che, soprattutto in Sudamerica, vedeva cristallizzati antichi equilibri sociali fondati sul gigantesco sfruttamento latifondista delle terre, a cui cominciava ad affiancarsi il nuovo sfruttamento, non meno brutale, delle grandi multinazionali calate dal ricco nord. Morì Romero, e morì con lui, malgrado alcuni altri anni di penosa agonia, la "Teologia della Liberazione".

Per questo l'anniversario del brutale assassinio rappresenta per il Vaticano un momento spinoso, malgrado le celebrazioni d'ordinanza, organizzate non a caso da realtà "border line" se non addirittura extracattoliche (il comitato organizzatore comprende Pax Christi italiana, la Commissione Giustizia e pace delle Superiore e Superiori Generali, la Conferenza Istituti missionari italiani, le Comunità evangeliche, valdesi e battiste, ecc.). Un martire Romero, così venne definito anche da uno stremato Wojtyla durante un colloquio con i vescovi salvadoregni alcuni anni fa. Un martire della fede, ucciso perché difendeva il cristianesimo. Ma non erano religiosi i motivi del suo assassinio, erano politici. Non meno politici delle ragioni per cui Diocleziano fece straziare migliaia di cristiani al Colosseo. Il suo messaggio era sociale, estremo, per Roma era rivoluzionario.

Per questo un grande amico di Romero, quel Jon Sobrino proprio recentemente condannato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede che gli ha proibito di fare lezione di teologia, ha recentemente puntato il dito contro chi vuol fare di Romero un martire della spiritualità e del misticismo, mentre "se c'è una cosa che sicuramente monsignore non fece, fu quella di vivere in un mondo irreale, di alienarsi dalla realtà salvadoregna".

A 27 anni dalla morte, la Chiesa di Ratzinger è costretta a guardare negli occhi il più orribile dei suoi successi: la brutale, spietata bonifica intellettuale contro il clero e i teologi "della Liberazione", ottenuta liquidando i tormenti dottrinari e l'indubbio coraggio teologico e personale di numerosi aderenti come "velenose tendenze filomarxiste". "Noi non cerchiamo di assumere il marxismo per comprendere la Trinità di Dio", si difese Gustavo Guiterrez, il teologo peruviano tra i fondatori del movimento. Il punto, disse, è usare le categorie di analisi marxista per tentare di comprendere la realtà sociale e i rapporti economici, e stare accanto a chi in questi rapporti ha il ruolo ingrato dello sfruttato. Ma il Vaticano, d'accordo con la Washington reaganiana, le grandi forze capitaliste del Sudamerica e spinto dalla destra cattolica capitanata trionfalmente dall'Opus Dei, aveva già preso la sua decisione. Tabula rasa.

Nel 1984, le durissime condanne alla Teologia della Liberazione formulate dal Sant'Uffizio di Joseph Ratzinger misero la parola fine a un'intera corrente innovativa sul piano pastorale, teologico, catechistico e sociale, oltre che a una visione missionaria fondata sulla comprensione del diverso e sul dialogo. Una manovra a tenaglia che la destra cattolica eseguì alla perfezione: a Roma si leggevano frettolosamente e si bocciavano centinaia di scritti dalla grande portata innovativa e spirituale, mentre in Sudamerica il papa itinerante brandiva davanti alle piazze gremite (ma non sempre concordi, come nel clamoroso caso delle contestazioni in Nicaragua da parte dei Sandinisti che chiedevano una Chiesa dei poveri, zittiti con un tonante "silencio!" dall'allora vigoroso pontefice) l'arma retorica della Chiesa spirituale, cioè in sostanza ripiegata nei chiostri, da dove stipulare semmai convenienti concordati con i regimi locali, dall'Argentina della dittatura militare al Cile di Pinochet, che fruttavano il monopolio dell'insegnamento religioso e la messa al bando di leggi "anticristiane" come il divorzio e l'aborto, e predicare alle genti il valore dell'obbedienza, della rassegnazione, del rispetto per l'ordine costituito. Quanto Wojtyla fosse consapevole di questo disegno è difficile stabilirlo: di certo mentre l'Opus Dei si arroccava definitivamente a Roma e nelle segrete stanze vaticane, facendo affluire fiumi di denaro nelle esangui casse dello Ior, il papa polacco ignorava la supplica di Romero, giunto dopo diversi vani tentativi a un colloquio privato, a leggere i dossier che provavano i crimini degli squadroni della morte contro i contadini e i preti di base, intimando anzi all'arcivescovo di "andare più d'accordo col governo". Non sappiamo se è vera la testimonianza di una suora, secondo cui Romero uscì distrutto e in lacrime dall'incontro. Quel che è certo è che il prelato morì pochi mesi dopo, assassinato dagli squadroni del maggiore D'Auibisson, lo stesso a cui papa Wojtyla in visita a San Salvador strinse pubblicamente la mano.

A 27 anni dalla morte, il martire Romero rappresenta quello che la Chiesa avrebbe potuto (o dovuto) essere, mentre è ancora visto da ampi settori della Curia come una pericolosa metastasi che la chiesa stessa ha tentato per anni di isolare e indebolire, fino al tragico e "chirurgico" epilogo. Tanto che ancora nel 2000, durante il Giubileo, il papa per una volta ben consigliato inserì in extremis il nome di Romero tra quelli dei "testimoni della fede del XX secolo" celebrati al Colosseo. E quando, pochi anni dopo, l'ecclesiastico che predicava gli uffici spirituali al Papa ricordò anche Romero tra i testimoni della fede, fu duramente ripreso al termine della celebrazione da alcuni vescovi latinoamericani. Tanto che, quando fu pubblicato il libro su quelle meditazioni quaresimali, il nome di Romero non compariva più. Cancellato. Come un tratto di penna è bastato a Ratzinger a cancellare, sempre nel 2000, la torrenziale petizione di tante istituzioni cattoliche (tra cui la Caritas internazionalis) e di oltre sessantamila fedeli per beatificare Romero nel ventennale del suo assassinio.

Il monsignore, a più di dieci anni dall'avvio della causa di beatificazione, ancora non è stato elevato all'onore degli altari, e chissà quando lo sarà. Mentre l'amico teologo Sobrino è ridotto al silenzio, e tanti prima di lui, la memoria di Romero fa ancora paura. Tra i 466 santi e i 1.288 beati creati dal pontificato-record di Wojtyla non ha trovato posto. Ed è la sua idea che non trova posto nella chiesa di Roma, quell'idea splendidamente riassunta da Frei Betto, prete e teologo brasiliano della Liberazione, in un articolo scritto in occasione della condanna teologica a Sobrino: quella visione tutta latinoamericana "di un Gesù che non è bianco e non ha gli occhi azzurri. Un Gesù indigeno, negro, scuro, emigrante; Gesù donna, emarginato, escluso. Il Gesù descritto nel capitolo XXV di Matteo: affamato, assetato, stracciato, malato, pellegrino. Gesù che si identifica con i dannati della terra e che dirà a tutti che di fronte a tanta miseria devono comportarsi come il buon samaritano: "ciò che farete a uno dei miei piccoli fratelli, lo farete a me".

 

Paolo Giorni   Aprile ondine 25/3/2007