Il furore ideologico su famiglia e bioetica

 

In questa infuocata e sgangherata campagna elettorale si discute di alcuni temi come se si trattasse di pagine bianche che i futuri legislatori potranno riempire a loro piacimento, e non di questioni sulle quali già il Parlamento si è pronunciato in maniera impegnativa. Non si tratta di questioni di poco conto, ma di quelle che accendono gli animi: riconoscimento delle coppie di fatto, diritti degli omosessuali, eutanasia, donazione terapeutica. E su ciascuna di esse esistono documenti internazio-nali che l’Italia ha sottoscritto, che sono stati approvati dal Parlamento. Sono, in primo luogo, la Carta europea dei diritti dei diritti fondamentali e la Convenzione europea di biomedicina. Proviamo a se-guirne la trama, per trarne qualche indicazione per l'oggi e per il futuro.

L'articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali afferma che "il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l'esercizio". Questa norma ha profondamente cambiato la formula contenuta nell'articolo 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950. Per tre motivi. È stato cancellato il riferimento a "l'uomo e la donna": questo costituisce un evidente riconoscimento della legittimità delle unioni tra persone dello stesso

. sesso. Non si parla più di un diritto di sposarsi e di costituire una famiglia come era scritto nella Con-venzione, lasciando intendere che si trattava di un unico diritto. Ormai siamo chiaramente di fronte a due diritti distinti e separati: il matrimonio tradizionale e le altre forme di unione sono così posti sullo stesso piano, e queste ultime non possono più essere considerate come una eccezione. L'innovazione è profonda, il quadro istituzionale è del tutto cambiato.

La parola "famiglia", nella Carta dei diritti fondamentali, è adoperata in senso lato, descrittiva di ogni forma di comunione di vita e non può, quindi, essere interpretata in modo restrittivo, obiettando, ad esempio, che l'articolo 29 della nostra Costituzione parla di famiglia fondata sul matrimonio. Peraltro, guardando davvero a fondo nella Costituzione, non si può ignorare che nell' articolo 2 si parla di diritti inviolabili dell'uomo "sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità" .

E già studiosi e giurisprudenza hanno riconosciuto che le convivenze rientrano appunto tra quelle formazioni sociali. Nel nostro sistema,dunque, non esistono ostacoli all'accoglimento della inno-vazione operata a livello europeo.

D'altra parte, il riferimento alla legge nazionale contenuto nella Carta, non significa che le legi-slazioni dei diversi paesi possano trascurare quella innovazione o svuotarla del tutto di significato. Nell'articolo 52 della stessa Carta, infatti, si dice esplicitamente che deve essere rispettato il "contenuto essenziale" dei diritti e delle libertà da essa riconosciuti. Ed è proprio questa la linea progressivamente adottata negli altri paesi che evidentemente, a differenza di noi, prendono sul serio l'Europa.

Siamo, dunque, di fronte ad un diritto fondamentale, il cui rispetto è necessario per rendere possibile il libero sviluppo della libertà di ciascuno, come vuole la nostra Costituzione. Basterebbe que-sta considerazione per escludere la legittimità di discriminazioni nei confronti degli omosessuali. Discriminazioni che, essendo fondate su una "condizione personale", violerebbero quanto è detto nell'ar-ticolo 3 della Costituzione in materia di eguaglianza. E questo principio è stato ribadito dall'articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali, che vieta appunto le discriminazioni basate sulle "tendenze sessua-li". Questa norma fu oggetto di attacchi, con toni smodati, da parte di qualche deputato quando il Parlamento italiano votò la Carta dei diritti. E questa fu una bella prova di ignoranza, perché il divieto di discriminazione era già contenuto nel Trattato di Amsterdam.

La faziosità acceca, ed impedisce di vedere addirittura le norme che dovrebbero semplicemente essere applicate. Ma ora la strada è nitidamente indicata, e si tratta di seguirla.

Ancora più chiara è, o dovrebbe essere, la questione del testamento biologico o delle direttive anticipate, cioè di quei documenti che consentono a ciascuno di dare liberamente disposizioni che riguardano la fine della vita. Impropriamente questo tema è stato classificato con l'etichetta dell' euta-nasia, con il deliberato proposito di suscitare le preoccupazioni che questa parola continua ad evocare. Ma, guardando alla concreta situazione giuridica, dobbiamo concludere che qui la strada non solo è indicata, ma tracciata in modo preciso.

L'articolo 9 della Convenzione europea sulla biomedicina parla chiaro: "Al momento di un inter-vento medico concernente un paziente che al momento dell'intervento non è in grado di esprimere il proprio volere, devono essere presi in considerazione i desideri da lui precedentemente espressi". Questa convenzione è stata firmata dall'Italia e ratificata con la legge 28 marzo 2001, n. 145, che l'ha introdotta nel nostro ordinamento.

Non si può, quindi, discutere intorno alla opportunità di riconoscere il testamento biologico, come fanno alcuni candidati. Questo è un impegno già assunto a livello internazionale, che l'Italia non può violare. L'unico vero problema è il colpevole ritardo del Governo, che avrebbe dovuto emanare al-cuni decreti per adattare i principi della Convenzione all'ordinamento italiano (della cui assoluta neces-sità, per quanto riguarda il testamento biologico, si può anche dubitare). Il prossimo Governo, quale che esso sia, deve soltanto adempiere a questo obbligo.

Poiché il tema dell' eutanasia è entrato con prepotenza tra quelli elettorali, bisogna una volta ancora sottolineare come esso non abbia nulla a che fare con il divieto dell'accanimento terapeutico, già previsto dal codice deontologico dei medici seguendo una indicazione data anche da Pio XII fin dal 1957. Interrompere le cure quando non apportano più alcun beneficio al morente, e anzi ne prolunga-no inutilmente la sofferenza, è ormai un imperativo morale e un obbligo giuridico. Altrimenti si fa ter-rorismo ideologico, si falsifica la realtà, si viola l'umanità stessa delle persone che, a parole, si dichiara di voler proteggere.

A questa lista delle ignoranze e delle falsificazioni deliberate, che hanno inquinato la campagna elettorale, conviene aggiungere la questione della cosiddetta donazione terapeutica, della ricerca sulle cellule staminali. Anche qui un riferimento ai documenti internazionali, ed è ancora la Carta dei diritti fondamentali dell’ Unione europea ad assumere rilevanza. Nel suo articolo 3 si vieta soltanto la “clonazione riproduttiva degli esseri umani”, di persone identiche ad un essere già vivente. Il divieto è mira-to, e la sua specificità dice chiaramente che le forme di donazione non riproduttiva sono ammesse e che non può essere posto questo ostacolo per limitare la ricerca scientifica. E ci si deve augurare una discussione più distesa proprio sulla ricerca riguardante le cellule staminali embrionali, senza rifugiarsi nell'ipocrisia di chi, ad esempio, si oppone alla utilizzazione degli embrioni congelati, che altrimenti andrebbero distrutti, e suggerisce di acquistare all'estero le linee cellulari necessarie. Come dire: noi ci salviamo l'anima e profittiamo del lavoro “sporco” fatto da altri.

Ignorare i dati di realtà e le norme giuridiche è frutto di accecamento ideologico. Dopo le ele-zioni conosceremo tempi in cui, per queste materie, il furore cederà alla riflessione? Ne dubito, ma me lo auguro.

 

Stefano Rodotà     la Repubblica, 01 aprile 2006