Flores d'Arcais,
Vattimo e Onfray a confronto sull’ateismo
Se dio diventa soltanto storia
Come per Nietzsche i greci furono costretti a diventare razionali, per
altre culture la fede potrebbe rispondere alla necessità di darsi un orizzonte
di senso
Ha ancora senso discutere al giorno d´oggi dell´esistenza o della non esistenza
di Dio? Pare di sì, se è vero che tre teste pensanti come Paolo Flores d´Arcais
direttore di MicroMega, Gianni Vattimo tra i più noti filosofi internazionali, e
Michel Onfray fondatore dell´Università popolare di Caen, un bel giorno si sono
riuniti intorno a un tavolo per discutere, senza infingimenti e quindi in un
incontro-scontro aperto, intorno all´esistenza di Dio, con tutto ciò che ne
segue in termini di morale, di politica, di istruzione, di atteggiamento da
tenere nei confronti della scienza e delle altre religioni, ciascuna delle quali
si sente depositaria della verità. Quanto si sono detti, oggi è raccolto in un
libro Atei o credenti? (Fazi Editore, pagg. 180, euro 15).
Paolo Flores d´Arcais osserva che se la filosofia è amore per il sapere
accertabile, e quindi critica di ogni superstizione, di ogni pensiero magico, di
ogni religione tramandata, se è una ininterrotta attività di disincanto, la
filosofia non può che essere atea. Accade però che non tutte le filosofie lo
sono, anzi oggi si assiste a un significativo contributo della filosofia a una
volontà di rivincita delle religioni, con conseguente egemonia di correnti
filosofiche che rifiutano il disincanto e, a braccetto con le religioni, non
escludono una destinazione ultraterrena alla condizione umana.
Eppure, scrive Paolo Flores d´Arcais, tutti i misteri e gli interrogativi che un
tempo trovavano la loro soluzione in Dio oggi sono stati sufficientemente
chiariti. A ciò si deve aggiungere che tutte le religioni pretendono di essere
le uniche a possedere la verità e di conseguenza ciascuna rifiuta la pretesa
verità delle altre. Logica vuole che in un conflitto di questo genere le
religioni dimostrano di essere dei prodotti antropologici, sociologici,
psicologici, quindi prodotti umani, dovuti al fatto che tra tutti gli animali
l´uomo è l´unico ad avere consapevolezza della propria morte e, rifiutando
questo destino, si aggrappa a credenze che gli promettono un mondo sovraterreno.
A queste considerazioni di Paolo Flores d´Arcais, Gianni Vattimo obietta che non
si dà una sola Ragione con la maiuscola, ma tante "ragioni" quante sono le
culture all´interno delle quali una certa "ragione" si è costituita, garantendo
a quella cultura la propria sopravvivenza e la propria tradizione da trasmettere
alle generazioni future. Non c´è un canone razionale al di fuori dell´orizzonte
storico-culturale entro cui esso è nato e si è solidificato, e nessuno può porsi
fuori dal suo orizzonte storico-culturale. La stessa logica "rigorosa" a cui fa
appello la scienza appartiene a questo orizzonte, e se non introduciamo questo
principio relativistico, se davvero ci fosse una ragione capace di verità
"oggettive", sarebbe inutile la democrazia e più in generale la discussione tra
gli uomini.
Se la ragione lavora in base a una logica che è interna a una determinata
cultura, assolutizzare la ragione, prescindendo dalla cultura che l´ha generata,
è commettere lo stesso errore delle religioni che pretendono ciascuna per sé la
verità assoluta. Questa pretesa non ha a che fare con il problema della verità,
ma con quello del dominio: il nostro Dio è più forte, dicono le religioni: che
si tratti del Dio degli ebrei, dei musulmani, dei cristiani, ma anche la ragione
illuminista, propria della scienza, che assolutizza se stessa, dimenticando il
mito fondatore dell´Occidente come ci viene raccontato nella Bibbia, nella sua
pretesa di verità dimentica di essere solo una costellazione di questo mito.
Onfray, che si professa ateo, su questo punto conviene con Vattimo che difende
la matrice cristiana della nostra cultura. Non si dà una sola ragione che porta,
per sua natura, direttamente all´ateismo, ma tante "ragioni" attive nel
disordine della nostra tradizione filosofica occidentale. Ma soprattutto, e
questo è l´argomento di Onfray, la ragione funziona come uno strumento "a
posteriori" rispetto a una psicofisiologia, quando non a una psicobiografia che,
prima dell´intervento della ragione, ci ha portato a credere o a non credere. La
logica della ragione subentra dopo, ma molto dopo, a giustificare quella
"decisione esistenziale" pre-logica e pre-razionale a cui Sartre ha dedicato
pagine essenziali.
Detto ciò, l´onere della prova spetta a chi afferma l´esistenza di qualcosa, non
a quelli che dicono che qualcosa non esiste. La ragione per la quale gli uomini
credono in Dio - conclude Onfray - è che, dopo aver constatato la propria
impotenza e la propria finitezza, immaginano una potenza che permetta loro di
ottenere sicurezza e pace intellettuale. E di fronte a questa potenza si mettono
in ginocchio, chiedendo aiuto per poter vivere, restando quelli che sono.
Dopo aver ascoltato i tre filosofi in un aperto, vivace e davvero istruttivo
confronto, a me viene da pensare che come Nietzsche dice che fu per necessità
che i greci furono costretti a diventare razionali per andare oltre la loro
dimensione tragica, così altre culture per necessità hanno creduto in Dio per
darsi un orizzonte di senso, in una parola per poter sopravvivere. E allora il
problema della fede e della ragione è un problema di verità o di sopravvivenza
di una comunità, di una cultura, di una civiltà?
Forse Nietzsche, più di tutti, si è avvicinato al vero nocciolo della questione,
e proprio per questo ha avuto la possibilità di spostare la domanda: non più se
Dio esiste o non esiste, ma se Dio è ancora vivo o invece è morto.
Quando nel Medioevo la letteratura era inferno, purgatorio, paradiso, l´arte era
arte sacra, persino la donna era donna-angelo, Dio c´era, perché se tolgo la
parola "Dio" non comprendo nulla di quell´epoca. Ma posso dire la stessa cosa
oggi? Il nostro mondo ruota ancora intorno a Dio o intorno ad altre parole come
"economia", "tecnica"? In questo caso Dio, che un tempo esisteva, ora è davvero
morto. Di Lui si può raccontare solo la sua storia.
Umberto Galimberti Repubblica 11.12.07