IL FILO SPEZZATO
E' uno spettacolo per stomaci forti. Un'immagine davvero
inguardabile, quella dell'Italia nelle ultime settimane, con un'accelerazione
preoccupante negli ultimi giorni.
Appena il tempo per rendersi conto che, davvero, il precariato viene riaffermato
per legge come destino, componente essenziale della nostra nuova costituzione
materiale, ed ecco giungere il colpo di scure sugli «assegni sociali» (forse
l'unica misura in qualche modo efficace contro gli aspetti più scandalosi della
povertà, capace di «tenere a galla», sia pur a fatica, alcune centinaia di
migliaia di persone prive altrimenti di ogni possibile fonte di sopravvivenza),
subito seguito, come in una doccia scozzese, dalla brusca retromarcia.
Apprendiamo, sempre più sconcertati, che l'obiettivo non erano tutti gli oltre
700.000 disperati, dal percorso lavorativo accidentato e dunque senza mezzi
sufficienti a garantir loro la sopravvivenza, che venivano condannati a finire
sommersi, ma solo una parte di essi. Gli stranieri. Le poche decine di migliaia
di disperati che, quelli sì, possono crepare. L'errore era da attribuire alla
fretta di qualche peone leghista, non troppo uso alle questioni tecniche
dell'attività legislativa, che aveva fatto riferimento a un periodo di almeno
dieci anni di «attività lavorativa» anziché - ingenuo - alla necessità di
«residenza sul territorio italiano», finendo di mettere nello stesso calderone
«i nostri» con gli «altri». I salvati con i sommersi. Come dire «fuoco amico»,
subito corretto con una nuova modifica alla manovra che ripristina il sano
principio che vuole gli italiani a bordo, e gli stranieri ad affogare. E non si
sa se sia meno disumana la prima versione del provvedimento, o la seconda.
L'insulto universalistico ai poveri senza bandiera, o la selezione spietata in
base all'etnia.
Tutto questo, nel giorno in cui da Bruxelles arriva una condanna esplicita per
quanto riguarda i rischi di xenofobia e di razzismo impliciti in alcuni
provvedimenti di governo e nell'azione delle nostre forze di polizia, in
particolare per quanto riguarda i rom, le condizioni «inaccettabili» in cui sono
costretti a vivere, e gli abusi e le discriminazioni cui sono sottoposti. Né si
tratta solo di ciò che avviene «in alto».
A livello politico e di governo. La rottura degli argini della civiltà, la
logica del rancore e del disprezzo, la pratica della segregazione e del rifiuto
guadagnano spazio nel sociale. Conquistano aree di popolazione fino a ieri
considerate immuni. Viaggiano dagli avvelenati municipi del nord-est ai
quartieri popolari di Napoli, con un popolo ridotto a irriconoscibile plebe
impegnato a scaricare sugli ultimi la propria miseria sotto forma di un odio
nuovo, informe, velenoso e contagioso. Sono una risorsa crescente, e
tendenzialmente inesauribile, per chi vuol guadagnare consenso politico. Hanno
un potenziale dirompente, maggiore di ogni ragione e di ogni interesse.
Superiore a ogni pacato ragionamento. Ad essi, sembrano arrendersi tutti,
nell'universo della politica che vuole «contare».
E infatti le voci che nell'arena parlamentare si oppongono sono flebili, quasi
inudibili. Nel pragmatismo che tutto sembra aver avvolto, nello sfacelo dei
vecchi partiti trasformati in ombre di se stessi, la difesa dei valori
universalistici di eguaglianza e pari dignità sembrano aver cessato di aver
corso legale. Ma di questo ci eravamo fatti, in qualche maniera, una ragione. O
comunque, avevamo incominciato a comprenderne il meccanismo d'innesco.
Quello che appare persino più preoccupante, e più difficile da
decodificare, è l'estenuazione e la tendenziale estinzione di quei valori, di
quel «comune sentire», di quella sensibilità nella stessa società italiana. Nei
suoi codici di comportamento e di valore. E' questa nuova, imprevedibile,
«durezza». Questa irriconoscibile insensibilità di massa, che fa girare il volto
ai bagnanti davanti ai cadaveri stesi sulla spiaggia delle due bambine rom
affogate qualche giorno fa sul litorale napoletano. Che fa ignorare le decine di
morti quasi quotidiani nel canale di Sicilia. Che lascia incendiare le
baraccopoli di Ponticelli senza fiatare, per condivisione, o sopportazione, o
pigrizia. E' questa improvvisa crudeltà dell'essere, nuda, senza ornamenti
ideologici, senza argomentazioni né giustificazioni, ciò che spaventa, perché è
la precondizione mentale delle sciagure storiche. L'anticamera esistenziale
delle guerre civili o delle apocalissi culturali. La forma interiore dei tempi
bui.
Ed è su di essa che dovremo interrogarci senza posa, per comprenderne
l'origine e la terapia, più che sulle alchimie di un «politico» in ampia misura
perduto. Più che sugli esisti dei congressi e sui destini di soggetti collettivi
drammaticamente svuotati. Più che sulle maggioranze futuribili e tendenzialmente
intercambiabili. Perché da ciò dipenderà, davvero, la possibilità o meno di
riprendere il filo spezzato di un percorso comune e civile.
Marco Revelli Il manifesto 31/7/08