Il feroce razzismo
italiano
Castelvolturno resta la vicenda simbolo Un paese che insorge non contro i
camorristi ma contro gli immigrati. Rosarno, la replica
Per capire cosa stia accadendo in questo paese, non nelle sue cronache ma nel
senso profondo delle cose che accadono, bisogna tornare con la memoria a
Castelvolturno. Alla strage dei sei immigrati africani abbattuti a raffiche di
mitra dai sicari dei Casalesi nell’autunno di due anni fa. Una strage senza
movente, se per movente non s’intenda l’improvvisa vocazione della camorra e
delle altre mafie ad assumersi funzioni di supplenza civile: troppi negri per
strada, troppi africani nelle nostre periferie, troppo rumore attorno ai nostri
traffici criminali. Insomma li ammazzano, uno per uno, gli sparano addosso
centotrenta pallottole, poi se ne vanno con le facce ebbre e stravolte di
chi ha dimostrato chi comanda laggiù, chi fa le leggi, chi è dio in terra.
Il giorno dopo cinquecento extracomunitari si ritrovano in una manifestazione
spontanea e sfilano per le vie desolate del paese dicendo quello che tutti sanno
e che pochi hanno il coraggio di balbettare: è stata la camorra, hanno ucciso
per far capire che tocca solo a loro, ai macellai dei Casalesi, decidere quale
colore debba avere la pelle degli altri. Si fa il corteo, un po’ di cori, molta
rabbia, qualche vetrina rotta: finisce tutto lì. Passano due giorni e anche la
brava gente di Castelvolturno decide di far sentire la propria voce. Meglio:
il proprio silenzio. Una serrata, tutti i negozi restano chiusi, le
saracinesche calate, le vetrine listate a lutto. I commercianti di
Castelvolturno dicono che così non si può andare avanti, che non ce la fanno
più, che non li vogliono più: i camorristi? No. Gli immigrati.
Sei li hanno ammazzati? Che se ne vadano anche gli altri! Che tornino nei loro
paesi, alle loro miserie, in fondo alle loro vite!
Quindici
anni dopo la «discesa in campo» di Silvio Berlusconi e il rigor mortis
del centrosinistra, l’Italia è tutta dentro questo fotogramma, che adesso
si è arricchito di altri momenti di gloria patria in Calabria.
Riepiloghiamo: i Casalesi sparano e ammazzano sei immigrati, colpevoli solo di
sporcare il paesaggio, e tre giorni dopo il paese insorge non contro gli
assassini ma contro le loro vittime chiedendo che se ne vadano a morire altrove.
Passa un anno e mezzo e troviamo un signore che s’arrampica sul proprio
trattore, spiana le sue pulegge d’acciaio ad altezza d’uomo e carica contro i
braccianti africani che protestavano per essere stati presi a fucilate dai
guappi del paese. Se fosse stato intervistato ad Anno Zero, anche l’uomo
del trattore avrebbe detto,come altri ospiti, che lui non è razzista, che non
ce l’ha con i negri: non li vuole tra le palle, solo questo, e se per farglielo
capire bisogna inseguirli con la ruspa, che ci vuole fare, dottor Santoro,
questa è casa nostra, sono loro che se ne devono andare...
Cinquant’anni fa, lungo le coste del Mississippi, i bravi borghesi bianchi
(fattori, impiegati, maestri di scuola, giudici di pace...) che si travestivano
di bianco per dare la caccia ai neri, usavano in pubblico gli stessi miti
ragionamenti: non siamo razzisti, ci mancherebbe, solo che non li vogliamo
vedere attorno alle nostre case, sui nostri autobus, vicino alle nostre donne.
Gli italiani, brava gente, che ai film di Sidney Poitier si commuovevano,
adesso derubricano la caccia al negro di Rosarno come una questione di ordine
pubblico, come le scazzottate in curva allo stadio. Ai forconi, in
Calabria hanno sostituito le doppiette e i bulldozer: un dettaglio.
Una
differenza in verità c’è. Sulle rive del Mississippi cinquant’anni fa i negri
dovevano difendersi da una minoranza di bianchi bigotti e ottusi. Oggi in
Italia, gli extracomunitari devono difendersi dai caporali che li sfruttano per
lucrare sulle loro paghe da fame, dai camorristi che li ammazzano per dimostrare
che sono loro a comandare, dai ministri leghisti che li additano alla tolleranza
zero per raccattare qualche voto in più anche alla periferia del regno.
A Rosarno quegli africani vivevano in baracche di cartone, in cinque a dividersi
un materasso, senza acqua né luce, quindici euro di paga al giorno con un terzo
trattenuto dalle cosche della ’ndrangheta, la loro tassa sul permesso di
soggiorno. E quando qualcuno li ha presi a fucilate (così, solo per gioco...),
hanno fatto pure male ad arrabbiarsi. In tivù c’era un signore con l’aria di
chi ha lavorato parecchio, uno che avrà avuto come ciascuno di noi un pezzo
della sua famiglia costretta a emigrare per mettere insieme il pranzo e la cena
in qualche altra parte del mondo. Diceva: non sono razzista, però quando
ci vuole ci vuole...
Ecco, a volta basterebbe conservare memoria di qualche vecchio film per
avvertire il senso del ridicolo che ormai si prende cura delle nostre vite e
delle nostre parole.
Claudio Fava l’Unità 16.1.10