Fede politica
ROSSANA ROSSANDA

 

Pier Ferdinando Casini, che fino a qualche tempo fa aveva retto la Camera senza le incursioni indebite del suo omologo al Senato Marcello Pera, si è recentemente lasciato andare alle stesse tentazioni. Pare che questo serva a eventuali candidature per il dopo Berlusconi. Certo non pertiene al suo ruolo istituzionale: si tratta di prese di posizioni di parte, assestate con il piglio di chi dovrebbe essere super partes, e dunque di dubbia legittimità. Oltre che di contenuto culturale modesto. Da qualche giorno Casini ripete che va bene la laicità dello stato, ma non va bene il laicismo di stato. E spiega, per chi come me non coglie di colpo la differenza, che lo stato ha da essere laico - tanto più che lo ha detto nel modo più chiaro Carlo Azeglio Ciampi ricevendo Ratzinger al Quirinale - ma non laicista: perché significherebbe che non ha dio o, in modo più popolare, che dio con lo stato non c'entra.

E' incontestabile che dio con lo stato moderno e democratico «non c'entra». Che altro significa la distinzione tra la sfera statale e quella religiosa se non che l'una rispetta rigorosamente il terreno dell'altra e non ne varca i limiti? E' ben curioso che un presidente della Camera così esperto non vi abbia riflettuto.

A meno che questo gioco di parole un po' forzoso non si sia parso obbligato dopo gli esiti del blitz vescovile sul referendum abrogativo di alcuni articoli della Legge 40. Casini aveva detto e ridetto che è diritto del cittadino non votare, e aveva ragione. Non ha detto né potrebbe dire che è diritto del Vaticano, che fra l'altro è anche uno stato estero, suggerire un comportamento di voto agli italiani. Tantopiù che l'esito - mandare a vuoto il referendum - non attiene alle sole coscienze ma ha raggiunto obiettivi politici precisi: ha dato il destro a Marco Follini di riaffermare un primato politico morale del centro cattolico, rivolto anche verso Rutelli e contro Prodi, obbligando nel medesimo tempo Fini a fare l'autocritica per restare in sella ad An. Di colpo, avere la chiesa dalla propria parte è un obiettivo analogo a quello di avere dalla propria parte Bush.

Perché è così difficile ai politici della seconda repubblica fare una distinzione di campo che faceva la vecchia Democrazia Cristiana? Se mai la transizione (parola sempre più equivoca) dovrebbe proporsi per prima cosa di porre fine a quella incongruità nella repubblica che è il Concordato, il quale appoggia in concreto nell'ordinamento scolastico e nei finanziamenti la religione cattolica rispetto alle altre e ai non credenti. Non occorre per questo andare fino alla condanna del simbolo di appartenenza religiosa dei singoli cittadini, come avviene in Francia - anche perché in Italia ci vorrebbe un esercito per togliere le croci più o meno brillantate che conduttrici e cantanti fanno occhieggiare vezzosamente fra i seni. Ma si dovrebbe far finanziare le chiese esclusivamente dai fedeli e fare dell'ora di religione un'ora delle religioni perché esse appartengono al patrimonio culturale e sapienziale dell'umanità e perché in un società sempre più multiculturale è bene che i giovani imparino la tradizione e il senso dell'alterità di chi incontrano a scuola o nel lavoro o al bar.

Molto più serio l'argomento di Romano Prodi sulla opportunità di inserire nella Costituzione europea le «radici cristiane», oltre l'articolo 51 che già ingiunge ai governi di dialogare con le chiese su questioni di comune interesse - e quali siano è facile immaginare. No, caro presidente, il suo ragionamento non mi persuade. Prima di tutto in punto di verità, perché se di radici europee si ha da parlare mi par difficile escludere quella grecità, di cui Paolo intride la sua decisiva predicazione cristiana, quel diritto romano su cui sono poggiati secoli di costruzione legislativa, e quell'illuminismo dal quale discende il pensiero politico moderno delle democrazie. Ma, più oltre, che senso ha il richiamo alle radici di una Costituzione rivolta manifestamente al futuro? Significa che suggerisce all'Europa di innaffiare le radici cristiane, e farle crescere, mentre non deve farlo con le altre? Ecco che la laicità scompare di nuovo.

Una preoccupazione identitaria è, a mio avviso, sempre densa di pericoli. Ma se l'Europa, che rappresenta un avvenimento epocale, ne ha bisogno, dovrebbe definirla con prudenza nella totalità della sua storia e del suo presente in cerca di quella innovazione che sarebbe il bisogno di pace, di maggior uguaglianza sociale e di rispetto per l'altro, dei quali non si vedono neanche i virgulti.

 

Il manifesto   05/07/05